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I democristiani e Badoglio: intrighi del 25 luglio ’43

Come è noto, gli eventi che portarono alla caduta di Mussolini nel luglio del 1943 videro formarsi e parzialmente intrecciarsi diversi complotti:

– quello dei fascisti dissidenti, con Grandi, Bottai e Ciano, decisi a sbarazzarsi del Duce nell’illusione di poter restare al potere senza di lui;

– quello del re, che da tempo aspettava l’occasione per agire in maniera "costituzionale", lui che tanto amava i colpi di Stato, purché eseguiti restando entro le leggi vigenti;

– quello dei militari, vale a dire della massoneria, che dal 10 giugno del 1940 avevano fatto del loro meglio, o del loro peggio, per perdere la guerra, specie gli ammiragli, e che tanto si erano adoperati affinché la vincessero i nemici — come è attestato dal vergognoso articolo 16 del Trattato di pace del 1947: L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguiterà alcun cittadino italiano, compresi gli appartenenti alle forze armate, per solo fatto di avere, durante il periodo di tempo corrente dal 10 giugno 1940 all’entrata in vigore del presente Trattato, espressa simpatia od avere agito in favore della causa delle Potenze Alleate ed Associate.

I cosiddetti partiti antifascisti, che in Italia avevano un seguito di qualche centinaio di persone, non erano in grado di ordine congiure, ma non per questo si astenevano dagli intrighi d’ogni genere, e ciò mentre i soldati, i marinai e gli aviatori sfidavano la morte ogni giorno sui teatri di guerra, e la popolazione sopportava le durissime condizioni imposte dal conflitto, cui si erano aggiunti, dall’estate del 1943, i bombardamenti aerei. Le due forze che, in prospettiva, avevano maggiori possibilità di espansione erano senza dubbio le stesse che si erano affermate nel primo dopoguerra: i social-comunisti e i cattolici. Questi ultimi consistevano di un gruppo di intellettuali che si riunivano clandestinamente dal settembre del 1942 — vale a dire prima che l’Italia perdesse definitivamente ogni speranza di vittoria, con la battaglia di El Alamein — in casa di un industriale milanese, Enrico Falck, ed erano in parte sopravvissuti del vecchio Partito Popolare di don Luigi Sturzo, (sciolto nel 1926 per volontà del fascismo, ma anche su pressioni del Vaticano, interessato alla trattativa col regime culminata poi nei Patti Lateranensi), come Alcide De Gasperi, in parte provenienti da altre esperienze, come Taviani, Dossetti e Fanfani, provenienti dalla Federazione Universitaria Cattolica (F.U.C.I.). E fu appunto in casa di un ex popolare, Giuseppe Spataro, che il 19 marzo 1943 il gruppo fondò il Partito della Democrazia Cristiana. Oltre a elaborare svariati documenti e piani per la ripresa dell’economia, essi presero l’iniziativa di avviare contatti e sondaggi presso quei settori delle istituzioni, esercito e monarchia, ove sapevano di trovare interlocutori interessarti ad effettuare un cambio di regime, rovesciando Mussolini e rompendo l’alleanza con la Germania. Spataro si incontrò personalmente con Badoglio, che fin dall’inizio di aprile, dunque assai prima che Vittorio Emanuele III decidesse di puntare su di lui per sostituire il Duce come capo del governo (e quando ancora il fronte africano teneva duro, nell’ultimo ridotto della Tunisia), trovando nel vecchio maresciallo un uomo quanto mai prudente e calcolatore, ma niente affatto contrario alla proposta. Lo stesso uomo, per intenderci, che dopo aver avviato le trattative segrete di armistizio con gli Alleati, stringeva la mano al maresciallo Kesselring dandogli la sua parola d’onore di soldato che l’Italia avrebbe proseguito la guerra al fianco della sua alleata.

Scrive dunque Giuseppe Spataro a proposito dei mesi, delle settimane e dei giorni che precedettero il colpo di Stato del 25 luglio 1943 nel suo noto libro di memorie I democratici cristiani dalla dittatura alla Repubblica (Milano, Mondadori, 1968, pp. 207-209):

La situazione militare, che si andava di mese in mese aggravando, ci fece ritenere necessario ricordare al sovrano la sua responsabilità nel non intervenire per porre fine alla guerra d cui si prevedeva certa, ormai, la conclusione disastrosa, nonostante il valore e il sacrificio dei combattenti.

Per fargli conoscere il punto di vista dei movimenti politici, noi ci avvalemmo in quel momento di quanti fossero in grado di avvicinarlo. Si ebbero contatti anche con il principe Umberto, la principessa Maria José e con altre autorevoli persone vicine alla Corte. Di particolare rilievo fu l’attività svolta in tal senso da Gonella.

Era diffusa convinzione che il re si sarebbe deciso ad allontanare Mussolini solo per salvare l’istituto monarchico e chi lo conosceva si diceva sicuro che, in tal caso, Vittorio Emanuele avrebbe adottato una soluzione militare. Si incominciò a parlare di Caviglia e di Badoglio. Circa il maresciallo Caviglia — nonostante la stima di cui godeva presso l’opinione pubblica, negli ambienti militari, e in particolare presso gli antifascisti che conoscevano le sue idee contrarie al regime — si riteneva che la sua età avrebbe costituito un serio ostacolo all’assolvimento di un compito oneroso. Su Badoglio circolavano voci difformi. Secondo alcune, egli non avrebbe accettato di agire contro Mussolini. Di fronte all’attendismo della Corona, noi speravamo che Badoglio osasse un "pronunciamento" militare. Con De Gasperi ritenemmo opportuno stabilire un contatto diretto, anche per assicurare Badoglio che la nostra corrente politica era pronta, in quel momento, ad appoggiare ogni iniziativa capace di salvare l’Italia dal baratro cui palesemente si avviava. Tramite un comune amico, fui presentato a Badoglio ed ebbi con lui tre incontri nella sua abitazione di via Panama. Il primo colloquio, che avvenne ai primi di aprile 1943, ebbe solo carattere di sondaggio: furono accennati i temi politici generali in relazione alle ultime gravi notizie sul corso della guerra.

Nella seconda visita, di qualche giorno dopo, affrontammo apertamene il problema politico della sostituzione di Mussolini. Badoglio avanzò molti dubbi sulle possibilità di un suo personale ed autonomo intervento. Mi disse che c’erano tante difficoltà da superare, ma mi resi conto che il suo non era atteggiamento di assoluto rifiuto.

Egli mi fece anche presente — e mi parve annettere importanza al fatto — che non conosceva personalmente l’opinione politica dei generali in servizio. Gli dissi che il prestigio, di cui egli godeva ancora nell’esercito e nel paese, avrebbe facilitato il suo compito e che alcuni alti ufficiali, preoccupati dell’andamento della guerra, erano pronti ad assumere coraggiose responsabilità. Badoglio accettò la mia proposta di conoscere i nomi delle persone che, a nostro avviso, erano pronte a seguirlo in u’azione politica. In assenza da Roma del gen. Angelo Odone (il quale, durante il periodo clandestino, assolse importanti incarichi militari), il giorno successivo mi recai, in compagnia del gen. Disma Zanetti, dal maresciallo Badoglio per consegnargli una lista di generali e di ufficiali dello stato maggiore e delle varie armi, sul cui attaccamento allo Stato, e non al fascismo, si poteva contare; si trattava di uomini sicuramente disponibili in momenti di emergenza.

Ma in questo colloquio mi apparve chiaro che Badoglio mai avrebbe preso l’iniziativa personale per risolvere la situazione politica. Egli si sentiva controllato nei movimenti e si sarebbe mosso — come difatti avvenne — solo per ordine e con l’appoggio del re.

Purtroppo, si dovette subire l’invasione della Sicilia e il bombardamento di Roma, prima che il sovrano si decidesse.

Straordinario. Apprendiamo così, dalla bocca del diretto interessato, che un esponente di spicco della neonata Democrazia Cristiana si incontrava ripetutamente col futuro capo del governo designato dal re a succedere a Mussolini, quattro mesi prima che il Gran Consiglio sfiduciasse il proprio capo la notte fra il 24 e il 25 luglio del 1943. In quei colloqui segreti Giuseppe Spataro, a nome del ricostituito partito dei cattolici, cercava d’incoraggiare un titubante Badoglio a prendere l’iniziativa per un colpo di Stato contro il Duce, constatando che il furbo maresciallo non aveva alcuna intenzione di arrischiare una tale mossa fino a quando non fosse tanto certo di avere le spalle coperte non da quattro politici velleitari, che si tenevano tuttora nascosti sotto le sottane dei preti in Vaticano, ma dal re, capo supremo delle Forze Armate e quindi capace di far pesare la bilancia con argomenti ben più solidi delle chiacchiere di alcuni intriganti maneggioni, i quali avevano scoperto la loro vocazione democratica e antifascista solo dopo tre anni di guerra, quando le sorti del conflitto andavano di male in peggio e il territorio della Patria era direttamente minacciato dall’invasione nemica. Veniamo inoltre a sapere, sempre da Spataro, o meglio abbiamo la conferma del fatto che sia il principe ereditario, Umberto di Savoia, sia la sua irrequieta e disinvolta moglie Maria José del Belgio, non disdegnavano affatto di porgere un benevolo orecchio ai cauti approcci di codesti antifascisti dell’ultimissima ora, a riprova del fatto che la stessa Casa Savoia non aveva mai "digerito" il regime di Mussolini e che, dietro la facciata dei sorrisi e nonostante la firma apposta dal sovrano a tutte le leggi volute dal fascismo, comprese le leggi razziali del 1938 e la dichiarazione di guerra del 1940, i suoi membri mordevano il freno e attendevano da chissà quanto tempo, come il ragno paziente al centro della sua vischiosa ragnatela, l’occasione buona per disfarsi dell’ingombrante capo del governo. Occasione che, purtroppo, si presentò solo sotto forma di una disfatta militare di portata catastrofica (e favorita, anche questo va detto per onore della verità storica, da una cospicua quinta colonna di traditori, sia in divisa militare, specialmente della Regia Marina, che in abito civile, pronti a rivendicare poi le loro benemerenze verso la Patria e verso la democrazia e a coprirsi il petto di medaglie, anche straniere) che avrebbe aperto la strada alla ulteriore tragedia della guerra civile. Eventi che avrebbero segnato per l’Italia non solo la perdita dello status di grande potenza, ma anche della pura e semplice sovranità nazionale, a beneficio dei vincitori che mai più se ne sarebbero andati e che, per la felice occasione, vollero farsi passare per disinteressati e generosi liberatori.

Ora si provi a guardare tutta questa vicenda con lenti diversi da quelle che ci hanno posto sugli occhi i nostri professori a scuola, i nostri politici e tutti gli intellettuali supportati dai mass-media; si provi a far finta che non si tratti del nostro Paese, ma di un altro, ad esempio dell’Inghilterra. Un gruppo di uomini politici si riunisce all’indomani di Dunkerque, nell’estate del 1940, per stabilire contatti con quegli elementi delle Forze Armate e della Corte che non condividono la prosecuzione della guerra contro la Germania, anzi che sono sempre stati filotedeschi (e ce n’erano, eccome): come li giudicherebbe la storia? Ma in Italia, si obietterà, c’era il fascismo, cioè una dittatura: e gli uomini come De Gasperi, Spataro, Dossetti, avevano a cuore la liberazione della Patria. Anche a costo di una disfatta nazionale di proporzioni apocalittiche? Anche a costo di pugnalare alla schiena i soldati ancora impegnati nella lotta, CON GLI ALLEATI CHE FACEVANO LA GUERRA NON SOLO AL FASCISMO, MA ALL’ITALIA? Gli inglesi dicono: right or wrong, it’s my country. Molti però da noi non la pensano così; certo non la pensavano così quegli antifascisti che già in Spagna, macchiandosi le mani di sangue fraterno, avevano lanciato il funereo slogan: Oggi in Spagna, cioè la guerra civile, domani in Italia. Essi volevano la guerra civile almeno fin dal 1936, al primo addensarsi delle nubi che avrebbero provocato lo scoppio della Seconda guerra mondiale, e già pregustavano l’odore del sangue di una guerra civile. Comunque, se il paragone con la democratica Inghilterra può sembrare inopportuno, spostiamo la nostra attenzione verso un Paese dove c’era una dittatura ben più feroce di quella italiana: la Russia sovietica, ove il regime di Stalin aveva provocato milioni e milioni di morti (mentre le sentenze capitali eseguite dal Tribunale speciale fascista furono in tutto trentuno: tanto per dare anche ai numeri la loro giusta importanza). Cosa si dovrebbe pensare di un gruppo di cospiratori russi che, al tempo della battaglia di Stalingrado, avesse meditato un colpo di stato anticomunista, proponendosi di avviare trattative di pace con Hitler? Come li avrebbe giudicati la storia? Dei traditori, senza dubbio: perché la storia è scritta dai vincitori. Ora, nel caso dell’Italia, i vincitori sono stati gi Angloamericani, non certo i partiti antifascisti e meno ancora i massoni, i banchieri, i militari felloni e il re fuggiasco dell’8 settembre 1943. Eppure cosa c’è scritto di essi sui nostri libri di storia? Che fecero la cosa giusta e necessaria: troppo tardi per rifarsi una verginità, nel caso della monarchia; ma più che in tempo per saltare sul carro dei vincitori, nel caso dei partiti antifascisti. Quelli che, mentre i soldati combattevano eroicamente sulla linea del Mareth e sacrificavano la vita per difendere il suolo della Patria, passavano informazioni agli Alleati e favorivano il bombardamento delle nostre città. Ma essi agirono, si dice, per il bene della Patria, onde evitarle maggiori calamità. Ma quali calamità peggiori d’una guerra persa con disonore, e una guerra civile che porta al potere i seguaci del vincitore, le mani ancora lorde del sangue fraterno?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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