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E se la psicologia recuperasse l’idea di normalità?

C’è una parola che è uscita, una volta per sempre, dal vocabolario degli psicologi, ma anche dei sociologi, degli antropologi, perfino dei biologi, degli storici e dei politici, per non parlare dei filosofi e in generale di chiunque voglia fare un discorso di tipo culturale restando nei limiti del Politicamente Corretto: la parola normalità. Silenziosamente, come per un tacito accordo, essa è stata abbandonata e nessuno si è dato la briga di sostituirla con un vocabolo equivalente. È come se non fosse mai esistita, o, se pure viene talvolta ricordata, è solo per evidenziare quale meraviglioso progresso sia stato registrato dalla società moderna e dalla cultura che essa esprime, figlia di un atteggiamento di tolleranza e di accettazione di tutti, nessuno escluso, tanto nell’ambito delle idee che dei comportamenti privati. È chiaro tuttavia che si tratta di una forma di colossale ipocrisia, perché nessuna società è mai stata intollerante e totalitaria come quella della tarda modernità, in cui ci troviamo a vivere: e le vicende degli ultimi mesi relative alla cosiddetta pandemia e alla cosiddetta emergenza sanitaria hanno bensì affrettato e rinvigorito, ma non creato dal nulla, la tendenza all’intolleranza e al totalitarismo che già da mille indizi si stava profilando sempre più netta ben prima del 2020.

La ragione per cui è oggi proibito, pena la censura e le sanzioni, pronunziare l’aggettivo normale, o il sostantivo normalità, è facilmente intuibile. Se si parla di ciò che è considerato normale, evidentemente si presuppone che vi siano delle cose che vanno considerate anormali, altrimenti il concetto non avrebbe senso. Ma anormale è una parola proibita, dal momento in cui proprio sull’azione incrociata di una tolleranza deviata e della anormalità liberalizzata, le forze della dissoluzione, che oggi controllano il mondo e orchestrano le voci dei mass-media, dal cinema alla televisione, e da alcuni decenni anche i programmi scolastici e i corsi universitari, nonché la politica degli Stati e l’azione delle amministrazioni locali, stanno operando per la destrutturazione voluta, pianificata, scientifica della società, della cultura, dei valori etici, della famiglia, della Chiesa, dello Stato e di qualunque saldo senso di identità e di appartenenza. Tali forze vogliono sostituire alla certezza della propria identità, fatta di storia e tradizioni, quindi di radici, il senso di un cosmopolitismo a tutto campo, di un pluralismo filosofico che diviene relativismo e soggettivismo, e di un dialogo interreligioso che è, di fatto, la dissoluzione della religione. Inoltre, al principio psicologico e biologico del maschile e del femminile esse vogliono sostituire il principio, assurdo ma funzionale alla loro strategia, di una sessualità liquida, sempre modificabile e intercambiabile, fatta non di dati reali e oggettivi, a cominciare dalla fisiologia, ma di orientamenti, vale a dire stati d’animo sempre mutevoli e mai vincolanti, per cui l’individuo dovrebbe sentirsi libero proprio per il fatto di non essere legato ad alcun ruolo o schema fisso, e in particolare al ruolo maschile e a quello femminile. Che si trattai di un disegno estremamente organico ed estremamente maligno, dovrebbe esser chiaro a tutti: per questa via la società, e l’individuo che di essa fa parte, corrono direttamente verso la propria distruzione, perché è solo dall’azione molteplice delle diversità, ma delle diversità stabilite dalla storia e dalla natura, che sorge la possibilità di un reciproco arricchimento, mai da un azzeramento del passato, da una rimozione della storia e da una negazione della natura, in nome di una nuova realtà fatta sostanzialmente di interventi tecnologici tesi a modificare radicalmente la natura umana, e non solo quella umana (la pecora Dolly e il grano geneticamente modificato) per reinventare una nuova "natura" che non ha più nulla di naturale e nulla di umano, ma è fabbricata al preciso scopo di generare mostri sempre più funzionali ai disegni di dominio delle forze oscure della grande finanza che oggi spadroneggiano sul mondo e irrompono con tanta malvagità e capillarità sin nel privato delle nostre vite.

Come sempre, la negazione che sia legittimo adoperare le parole normale e anormale è stata realizzata mediante un’esasperazione storica e un ricatto emotivo. L’esasperazione è consistita nel sostenere che l’aver utilizzato queste categorie ha generato ogni forma di discriminazione, sopruso e perfino violenza contro quanti venivano bollati come anormali; il che, se pure è accaduto, è accaduto molto tempo fa, e comunque in ambito scientifico nessuno si è mai servito di tali concetti alla leggera, ma piuttosto per indicare il confine fra ciò che è ammissibile nella vita sociale e ciò che è gravemente deviante e pericoloso, ad esempio le perversioni che possono condurre a ogni sorta di sopraffazione nei confronti del prossimo e di comportamento sadico, specie verso i più esposti e indifesi, particolarmente i bambini. Il ricatto consiste nel far credere che considerare un comportamento come anormale equivale a legittimare il linciaggio morale di chi lo manifesta, il che è palesemente assurdo e serve, al contrario, per legittimare ciò che altrimenti non sarebbe mai e poi mai ammissibile, per esempio la pretesa di dirigere la propria sessualità verso i bambini, oppure di esercitarla sui cadaveri, o ancora su degli animali.

Il gran padre teorico di questa brutta operazione di rifiuto (dapprima implicito) della polarità normale/anormale è, naturalmente, Sigmund Freud, il creatore di quella forma di magia nera che è la psicanalisi, colui che si rifiutava di considerare le perversioni come qualcosa di censurabile e consigliava i suoi pazienti deviati di decidere da sé se valesse la pena di modificare ciò che non è (secondo lui) modificabile o riconciliarsi con la propria anormalità e viverla come un fatto del tutto naturale, assumendo quindi come criterio di giudizio non le idee obsolete del Bene e del Male, ma quelle soggettive del bene per me e del male per me, secondo la categoria dell’utile e non più quella del giusto. Ciò che tuttavia moltissimi ignorano è che Freud, peraltro coerentemente con le sue premesse, avendo giudicato che "secondo natura" è solo un erotismo che si manifesta attraverso gli organi genitali, considerava perversioni sia l’incesto, la sodomia, la coprofagia e la necrofilia, sia i baci e le carezze che due innamorati si scambiano, senza giungere all’atto sessuale vero e proprio. Stupiti, vero? Ci hanno fatto credere che Freud è il (cattivo) maestro, o almeno il precursore, della liberazione sessuale, e invece appare che nella sua foga di demolire il confine tra normale e anormale secondo le categorie morali riconosciute, egli è costretto, in un certo senso, a demonizzare qualsiasi forma di manifestazione sessuale che non giunga alla copula, anzi alla copula finalizzata alla riproduzione. Nemmeno il più ottuso e fanatico prete cattolico di due secoli fa avrebbe osato spingersi così lontano; qui si respira un’altra atmosfera, un’atmosfera per metà di pazzia e per metà di cupa legge mosaica, mai rischiarata e oltrepassata dalla magnifica Parola redentrice di Gesù Cristo. Le premesse di Freud sono mostruose, come mostruoso è l’esito del suo pansessualismo: se tutto nella vita psichica dell’individuo, tutto, perfino i sogni, è riconducibile, sempre e comunque, alla sfera dell’eros o quanto meno della libido, e nello stesso tempo dichiara che è perverso tutto ciò che non tende all’accoppiamento e alla procreazione, chi mai si potrà salvare? Tutti, evidentemente, sono colpevoli, come sempre avviene quando una Legge spietata viene imposta come un giogo sul collo delle persone. Ma se tutti sono condannati, allora nessuno deve essere più condannato: perché l’umanità, a meno che voglia dannarsi da se stessa, anela pur sempre alla vita e non alla morte, alla gioia e non al senso di colpa.

Scriveva lo psicologo Ignace Lepp (1909-1966), un estone naturalizzato francese, nonché marxista convertito alla fede cattolica, gesuita, teorizzatore di una via cristiana alla psicosintesi, parallela e forse alternativa a quella di Roberto Assagioli, certo dichiaratamente alternativa alla psico-analisi freudiana, nel suo libro più importante: Luci e tenebre dell’anima. Saggio di psicosintesi (titolo originale Clartés et ténèbres de l’ame, Paris, Aubier, 1956; traduzione delle Benedettine di Rignano sull’Arno, Roma, Edizioni Paoline, 1959, pp. 95-97):

Nella serie di perversioni QUANTO AL FINE, Freud colloca tutti gli eccitamenti sessuali ottenuti altrimenti che per mezzo degli organi genitali propriamente detti. Ad esse si ricollegano quindi il SADISMO e il MASOCHISMO, nei quali il piacere è legato alla sofferenza che ci si fa infliggere o che si infligge ad un altro.

Non concordiamo più con Freud quando questi classifica fra le perversioni le carezze ed i baci, anche quando questi non tendono esplicitamente all’unione tra i due sessi.

Ancor meno siamo d’accordo con il fondatore della psicanalisi quando si tratta di dare una spiegazione teorica delle deviazione della sessualità Freud si rifiuta di ammettere che le perversioni siano una conseguenza della malattia o della degenerescenza [sic] dell’individuo. È costretto ad ammettere che certe perversioni sono «tanto lontane dal normale che non possiamo far altro che dichiararle patologiche. In particolare quelle che spingono l’istinto sessuale a compiere atti assurdi (leccare gli escrementi, violentare i cadaveri) superando certi ostacoli (pudore, disgusto, orrore, dolore» (in: "Tre saggi su una teoria della sessualità", 1921, p. 54). Ma anche queste eccentricità non gli sembrano fondamentalmente differenti dalle manifestazioni della sessualità normale. Il piacere erotico, prodotto dalle carezze e dai baci, non è ottenuto mediante l’uso naturale degli organi genitali eppure nessuno lo considera come una colpa o una malattia. Non gli sembra quindi che né l’inversione né alcun’altra deviazione circa l’oggetto o il fine siano «contro natura e degne di una condanna morale»

Freud romane qui fedele alla sua concezione morale della "libido", secondo la quale l’istinto sessuale esisterebbe indipendentemente da ogni oggetto e da ogni scopo e non sarebbe che una spinta verso il piacere. «È lecito credere che la tendenza sessuale esista anzitutto indipendentemente dal proprio oggetto e che la sua manifestazione non è determinata dagli eccitamenti provenienti dall’oggetto» (id., p. 35). La sessualità normale non sarebbe dunque che quella che si pratica normalmente e soprattutto quella che si assoggetta alla funzione sociale della procreazione. Il pudore e il disgusto che spesso impediscono le "deviazioni" sarebbero delle sentinelle inventate dalla società per «mantenere l’istinto sessuale entro i limiti che si considerano come normali» (id., p. 56).

Non c’è bisogno di tante speculazioni per riconoscere che l’istinto sessuale, come ogni altro istinto, ha un oggetto ed uno scopo normali.

Non è a caso né sotto la costrizione di un qualche super-io che esso spinge il soggetto verso una persona del’altro sesso. Indubbiamente la zona erogena si estende ben oltre gli organi genitali e non c’è infatti nulla di innaturale nel piacere prodotto dalle carezze e dai baci. Ma sarebbe veramente da compiangere chi non comprendesse la differenza essenziale tra questo piacere e quello che noi chiamiamo comunemente perversione sessuale. Questa è sempre una prova che l’ordine è stato spezzato e l’anima è malata. Non intendiamo negare che pudore, disgusto ed orrore siano talvolta di origine sociale, ma piuttosto mettere in evidenza come oggi non si consideri più la società come qualcosa di artificiale, imposta dall’esterno alla condizione umana, la quale è essenzialmente sociale e individuale. Proprio perché nell’uomo l’istinto sessuale non è esclusivamente biologico, si presenta la possibilità di deviazioni, mentre gli istinti puramente biologici agiscono con una sicurezza meccanica. Niente di più normale, quindi, che la psiche stessa abbia escogitato dei sentimenti destinati a mantenere l’istinto sessuale nei limiti del normale.

Ora, c’è stato un "intellettuale" che mangiava in pubblico i propri escrementi e quelli del suo cane, e che teorizzava la bellezza e l’assoluta liceità dei rapporti sessuali coi bambini, non da parte di qualsiasi adulto, ma da parte degli adulti omosessuali e "rivoluzionari". Si chiamava Mario Mieli e le sue idee hanno fatto strada, tanto da essere entrare, e sia pure in maniera tacita e surrettizia, nel pacchetto dell’ideologia transessualista sponsorizzata dall’UNESCO, cioè dall’organo del Nuovo Ordine Mondiale che si occupa di educazione, e sta ormai insinuandosi perfino negli asili e nelle scuole elementari, sempre facendo leva sul ricatto del proibito proibire e del proibito definire qualcuno o qualcosa come anormali. Ciò che Freud non vuole ammettere, come osserva Lepp, è che nell’uomo l’istinto sessuale non è puramente biologico, e ciò per la buona ragione che l’uomo è uomo e non un qualsiasi animale. Ma i malvagi signori del Nuovo Ordine Mondiale vogliono dapprima inculcare l’idea che l’uomo è, in tutto e per tutto, un animale, cioè un essere secondo natura; poi, nella fase ulteriore — quella che stiamo vivendo — che la natura può essere "superata" in nome dei diritti, i quali vengono così a prendere il posto della ragione naturale. Non è più giusto e vero ciò che la ragione naturale riconosce come tale, ma ciò che io pretendo essere vero e giusto in base al mio diritto soggettivo. E se invoco il diritto di far sesso coi bambini, chi oserà contestarmelo?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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