Il problema del ritorno nella caverna di Platone
27 Aprile 2021
G. Bruno o la psicopatologia del narcisista illuminista
29 Aprile 2021
Il problema del ritorno nella caverna di Platone
27 Aprile 2021
G. Bruno o la psicopatologia del narcisista illuminista
29 Aprile 2021
Mostra tutto

Solitudine e attrazione del nulla nell’uomo moderno

Se dovessimo indicare due libri che segnano nettamente il momento di svolta della modernità, dalla forza ottimistica e propulsiva della prima fase al ripiegamento su se stessa, velato di tristezza e nichilismo, consiglieremmo la lettura de La luce che si spense (The Light that Failed, 1891) di Rudyard Kipling e Martin Eden (Martin Eden, 1909) di Jack London. È lì, al giro di boa fra XIX e XX secolo, vale a dire quando la civiltà moderna pareva più colma di forza e di salute, aggressiva e sicura di sé, tanto che gli storici hanno designato quell’epoca come l’era dell’imperialismo sul piano geopolitico, e terza rivoluzione industriale sotto il profilo economico e produttivo, che alcune menti più acute e sensibili hanno colto gli oscuri presentimenti del crollo imminente, e hanno saputo scorgere, sotto le apparenze della salute e della forza, l’intima debolezza, la perplessità paralizzante, addirittura il disorientamento e la perdita di fiducia in se stesso da parte dell’uomo e della donna moderni. Sentimenti esplicitamente sviluppati in romanzi come Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij (1864: il capostipite), Anna Karenina di Lev Tolstoj (1877), Una vita di Guy de Maupassant (1883), Il piacere di Gabriele D’Annunzio (1899), Lord Jim di Joseph Conrad (1899), La morte a Venezia di Thomas Mann (1912); e tralasciamo quelli notissimi, ma ormai decisamente confinanti con la psicopatologia, e forse alquanto sopravvalutati, di Virginia Woolf, Italo Svevo, Franz Kafka ed Ernest Hemingway. Romanzi, come si vede: non opere filosofiche. I filosofi di quell’epoca, ammesso che ve ne fossero ancora (se la filosofia non pensa la metafisica, che filosofia è?), e comunque non i più conosciuti, tranne forse Nietzsche con lo Zarathustra — il quale, però, va letto con tale sottigliezza ermeneutica, che la cultura dominante lo ha bell’e frainteso, anzi diciamo pure che non l’ha capito affatto – i filosofi, dicevamo, erano troppo presi dall’Uomo astratto per degnare d’uno sguardo l’uomo concreto, che già stava annaspando e sprofondando nella grande palude da lui stesso creata e alimentata per mezzo di mille rigagnoli, scorie e liquami convogliati da ogni parte.

La luce che si spense, dunque, e Martin Eden: due libri che ebbero differente accoglienza, mediocre il primo, ottima il secondo, anche se ciò dipendeva largamente dal fatto che dei due rispettivi autori, l’uno, Kipling, era alle prime armi, e infatti quello era il suo primo romanzo, mentre l’altro, London, era ormai giunto al culmine della popolarità grazie a una serie di romanzi fortunatissimi e divenuti presto addirittura leggendari, come Zanna bianca e Il richiamo della foresta (e fra i due, a costo di passare per gli eterni Bastian contrari, noi personalmente preferiamo il primo, che pur nella complessiva immaturità artistica contiene sprazzi di vera ispirazione). In entrambi troviamo un giovane eroe, o piuttosto un anti-eroe, convinto di poter conquistare il mondo con la sua forza di volontà e la fiducia nelle proprie risorse, e intende affermarsi nel mondo dell’arte: con la pittura l’inglese Dick, ne La luce che si spense, e con la scrittura l’americano Martin, in Martin Eden. Per entrambi la fonte dell’ispirazione, e quasi la ragione di vita, è l’amore per una ragazza, Maisie, la compagna della triste infanzia di bambini orfani, per Dick; e Ruth Morse, la bella e ricca figlia viziata della upper class. Entrambi, partendo dal nulla, cercano di affermarsi dispiegando tutta la loro energia e il loro entusiasmo; entrambi stravedono per una ragazza che non è spiritualmente alla loro altezza, ma che essi hanno totalmente idealizzato; ed entrambi, passati attraverso varie vicende, fiiscono per sfiorare l’agognato successo (anzi a raggiungerlo, nel caso di Martin), salvo perdere non solo il loro grande amore, ma anche la propria ragione di vivere. Dick, divenuto cieco, e quindi impossibilitato a dipingere, dopo che la modella Bessie per dispetto ha distrutto il suo ultimo capolavoro, cercherà e troverà la morte sul campo di battaglia, in una remota landa del Sudan, nella guerra condotta dai Britannici contro i mahdisti; l’altro, imbarcato su una nave per una crociera nel Pacifico, decide di togliersi la vita lasciandosi scivolare in mare, di notte, all’insaputa di tutti. Dick non ha più ragioni per vivere dopo che Maisie ha rifiutato per l’ennesima volta il suo amore e dopo che la cecità lo ha resto non solo inabile alla pittura, ma anche bisognoso di cure e assistenza, che egli sdegnosamente rifiuterebbe dalla donna amata: anche se non si suicida deliberatamente, la sua morte è una specie di ricerca della pace nel nulla. Martin ha raggiunto la celebrità dopo essere stato respinto da Ruth, che lo considerava un buono a nulla, e dopo aver subito il rifiuto di molti editori, gli stessi che poi, bruscamente, fanno a gara per assicurarsi i suoi diritti d’autore, una volta che si è rivelato non il brutto anatroccolo che tutti credevano, ma il prodigioso cigno dalle uova d’oro. Entrambi, dunque, vanno incontro alla fine col cuore amareggiato dal disincanto: hanno mancato l’appuntamento più importante della vita, quello con l’amore; hanno constatato la fragilità, la superficialità e l’egoismo dell’animo umano; e hanno contemplato con disprezzo, il secondo specialmente, la vanità del successo, che giunge ironicamente quando ormai la vena creativa si è esaurita per effetto della delusione esistenziale.

Ecco come Kipling narra la fine di Dick (da: La luce che si spense, traduzione dall’inglese di Mario Benzi, Milano, AMZ Editrice, 1967, p. 139-140):

Udirono il brusio di lontani nitriti e urla e ruggiti e grida di soldati che si preparavano per il giorno. Risuonarono due o tre spari.

«Sparano a noi? Dovrebbero pur vedere che io sono un Inglese.»

«No, dal deserto, – rispose il cammelliere, curvandosi sulla bestia ed esortandola: – Corri, figlio mio! Per fortuna, l’alba non ci ha scoperti un’ora prima.»

«Che fortuna! Una fortuna stupenda, imperiale!» disse Dick. «Giusto prima della battaglia, mamma mia! È proprio vero che Dio è molto buono con me! Soltanto — la fitta del pensiero gli fece dilatare gli occhi un istante, – Maisie…».

«Allah! Siamo dentro!» gridò il conducente, penetrando nella retroguardia e facendo inginocchiare il cammello.

«Chi diavolo siete? Ordini o che? In quanti sono dietro quella duna? Come siete passati?»

Questo fu detto loro da una dozzina di voci. Per tutta risposta, Dick tirò un gran respiro, si sciolse la cintura e gridò con tutta la forza della sua voce stanca e arrochita:

«Torpenhow! Ohé, Torp! Tor-pen-how!»

Un uomo barbuto, che frugava nella cenere d’un fuoco per accendersi la pipa, si fece avanti rapidamente.

I soldati del quadrato tossivano e imprecavano, infastiditi dal proprio fumo, e si facevano avanti per veder meglio. Un cammello ferito scattò in piedi e mandò un grugnito gorgogliante. S’udì il grosso singulto d’un uomo colpito a morte, poi un raddoppiato crepitio di fucilate. Non c’era tempo di far domande.

«Buttati giù! Buttati dietro il cammello!»

«No, mettimi davanti, in prima fila, te ne prego!»

Dick volse il viso a Torpenhow e alzò le mani per accomodarsi l’elmetto; ma, calcolata male la distanza, vi diede un colpo che lo fece cadere. Torpenhow vide che i suoi capelli erano grigi alle tempie, e che il suo viso era quello d’un vecchio.

«Smonta. Smonta per carità, Dick!»

Dick smontò ubbidiente, ma come un albero reciso alla base, ruzzolando da un lato lungo la sella del bisciarino, ai piedi di Torpenhow. La sua fortuna era durata fino all’ultimo, fino alla grazia suprema d’una pallottola attraverso il capo.

E Torpenhow s’inginocchiò sottovento al cammello, col corpo di Dick tra le braccia.

A Dick, dunque, è concesso di morire dopo aver ritrovato il suo più caro amico, di venire accolto fra le sue braccia pietose. La morte di Martin Eden, invece, al confronto, è terribilmente fredda e disperata: solo, del tutto solo in mezzo all’oceano, di notte, come se fosse l’unico uomo rimasto al mondo, senza un’ultima parola amica o un ultimo pensiero di conforto (da: Martin Eden, a cura di P. A. Spizzottin, Fratelli Melita Editori, 1988, pp. 271-272):

Guardò di nuovo lo sportello aperto. Swinburne gli aveva fornito la chiave. La vita era cattiva, o piuttosto, era diventata cattiva, insopportabile "Perché i morti non risuscitano!". Questo verso suscitò nel suo cuore un profondo sentimento di gratitudine. Era l’unica cosa benefica dell’universo. Quando la vita diventava dolorosa e faticosa, la morte era pronta ad accoglierlo in un sonno interminabile. Ma che stava aspettando? Era tempo di andare.

Si alzò dal letto e passò la testa attraverso il finestrino, guardando il mare lattiginoso che scorreva lungo il fianco della nave. Il "Mariposa" era molto carico e se si fosse sospeso con le mani, i suoi piedi avrebbero toccato l’acqua. Uno spruzzo di schiuma balzò in alto, bagnandogli il volto. Sentì il sapore del sale sulle labbra, e il sapore era buono. Si chiese se doveva scrivere un canto del cigno, ma scacciò ridendo il pensiero. Non c’era tempo. Era troppo impaziente di essere giù.

Spenta la luce nella cabina, affinché non potesse tradirlo, s’insinuò attraverso ilo finestrino, coi piedi in avanti. Ma le spalle non passavano e fece uno sforzo per ritirarsi su, in modo da tentare d’uscire con un braccio sul fianco. Un colpo di rollio del piroscafo l’aiutò e si trovò fuori sospeso per le mani. Quando i piedi toccarono il mare, si lasciò andare. Fu in mezzo a una spuma vertiginosa. Il fianco del "Mariposa" gli passò davanti come una parete nera, interrotta qua e là da finestrini illuminati. Andava certo a una buona velocità. Quasi prima di accorgersene, si trova a poppa, nuotando dolcemente sulla superficie spumeggiante.

Un tonno morse il suo corpo bianco, e lui rise forte. L’animale gli aveva portato via un pezzetto di carne, e il bruciore gli fece tornare in mente il motivo per cui era lì. Nello sforzo dell’azione ne aveva dimenticato lo scopo. Le luci del "Mariposa" svanivano in lontananza, e lui nuotava fiduciosamente, come se avesse l’intenzione di dirigersi verso la terra più vicina, a mille miglia di distanza. Era l’istinto di conservazione, che agiva automaticamente. Smise di nuotare, ma nel momento sentiva l’acqua che gli raggiungeva la bocca, le mani cominciarono a battere violentemente con un movimento ascensionale. Il desiderio di vivere, pensò, ridendo amaramente. Ebbene, aveva la volontà — sì, la volontà abbastanza forte, e con un ultimo sforzo avrebbe potuto distruggere la vita e cessare di esistere.

Cambiò posizione e si mise verticale, guardò in alto le stelle tranquille, e nello stesso tempo vuotò d’aria i polmoni. Con un rapido, vigoroso impulso delle mani e dei piedi , sollevò le spalle e metà del petto fuori dell’acqua, per guadagnare impeto nella discesa. Poi si lasciò andare, e sprofondò senza un movimento, una statua bianca, nel mare. Respirò nell’acqua profondamente, deliberatamente, come un uomo che aspirasse un anestetico. Quando incominciò a soffocare, involontariamente le gambe e le braccia batterono l’acqua, e lo riportarono alla superficie e alla vista chiara delle stelle.

Il desiderio di vivere, pensò sdegnosamente, sforzandosi d’impedire ai polmoni che scoppiavamo di aspirare l’aria. Ebbene, avrebbe dovuto ricorre a un nuovo sistema. Riempì i polmoni d’aria — li riempì completamente. Questa provvista lo avrebbe portato molto lontano dalla superficie. Su mise a testa in giù, e cominciò a nuotare verso le profondità dell’oceano con tutta la sua forza e tutta la sua volontà. Andava sempre più verso il basso. Aveva gli occhi aperti, e guardava la traccia spettrale, fosforescente, lasciata dai tonni. Mentre nuotava, sperava di non essere morso, perché ciò avrebbe potuto diminuire la tensione della sua volontà. Ma non venne morso e trovò il tempo di essere grato alla vita per quest’ultima cortesia.

In giù, in giù, nuotò ancora, finché le braccia e le gambe furono stanche e si agitarono debolmente. Sapeva di essere a una grande profondità. La pressione sui timpani dell’orecchio era una sofferenza e il capo gli ronzava. La sua resistenza cominciava a venir meno, ma costrinse le gambe e le braccia a portarlo ancora più in basso, finché la volontà fu vinta, e l’aria gli sfuggì dai polmoni con uno scoppio da esplosione. Le bolle gli strisciarono e rimbalzarono come palloncini sulle guance e sugli occhi, nel prendere la loro fuga verso l’alto. Poi sopraggiunse il senso di soffocazione. Questa sofferenza non era la morte, fu il pensiero che passò attraverso la sua coscienza vacillante. La morte non faceva soffrire. Era la vita, erano le sofferenze della vita; quella spaventosa sensazione era l’ultimo colpo infertogli dalla vita.

Le sue forti mani e i piedi cominciarono a battere e ad agitarsi spasmodicamente e debolmente. Ma lui si era preso gioco di loro e della volontà di vivere che li faceva battere e agitarsi. Era troppo lontano. Non avrebbero mai potuto riportarlo alla superficie. Gli parve di navigare, languidamente in un mare di sognanti visioni. Colori e luminosità lo circondavano, la bagnavano, lo pervadevano. Che cos’era? Sembrava un faro; ma era dentro il suo cervello — una bianca luce splendente, balenante. Balenava sempre più rapidamente. Vi fu un rombo prolungato e gli sembrò di scivolare lungo un vasto interminabile pendio. E, in qualche parte, in fondo, cadde nelle tenebre. Solo questo seppe: era caduto nelle tenebre. E nel momento stesso in cui lo seppe, cessò di saperlo.

In questa pagina terribile, certo superiore artisticamente a quella dello sconosciuto ventiseienne Kipling, London, che di anni ne aveva trentacinque, ma era già al culmine della celebrità, ha descritto nel mondo più vivido l’odio e il disgusto della vita che sembra aver attraversato come un vento di follia autodistruttiva la coscienza dell’uomo moderno, proprio nel momento del suo apparente trionfo. Sia in Kipling — si pensi ai Libri della giungla – sia in London, si pensi ai racconti del Grande Nord e a quelli dei Mari del Sud, ma anche a romanzi come La valle della Luna, vi è una vena di potente vitalismo, eppure, nello stesso tempo, si percepisce una sorta di oscura attrazione per la morte e il nulla, un fastidio per la parte ingrata e deludente della vita, una feroce volontà di rimediare a questa imperfezione della natura mediante la distruzione della vita stessa. In Dick, il protagonista de La luce che si spense, il richiamo di Tanatos è ancora semicosciente, mentre in Martin Eden è freddo e razionale, al punto da costringerlo a usare tutte la sua intelligenza e la sua forza di volontà per impedire al suo organismo di lottare per sopravvivere, una volta lasciatosi cadere in mare. Martin si osserva come attraverso uno specchio: si sdoppia e impegna le sue ultime risorse per sopprimere quell’organismo imperfetto che vorrebbe ancora vivere, pur avendo deciso che la vita non vale la pena d’essere vissuta. La contraddizione tra la brama di vivere e il desiderio di morte è solo apparente: di fatto, sono le due facce d’una stessa medaglia. Proprio perché affamato di vita, ma di una vita soddisfacente, gratificante, felice, Martin giudica che, venute meno tali aspettative e subentrata la disillusione — anche Ruth ha cercato di rientrare nella sua vita, ma troppo tardi, opportunisticamente, solo perché il successo lo aveva infine fatto emergere dalla massa senza nome — la vita è solo un inutile fardello, un impulso cieco e istintivo, che l’uomo razionale deve sopprimere senza inutili rimpianti. Difficile dire in che misura questa visione brutalmente maltusiana e darwiniana sia stata causa, o effetto, di chi sa quanti suicidi, materiali o morali, che hanno incominciato a dilagare come una nuova malattia nella società moderna, in una misura che mai si era vista nelle epoche precedenti. Sullo sfondo c’è la filosofia nichilista di Eduard von Hartmann, e poi, ancora, il cupo pessimismo di Schopenhauer e quello di Leopardi. Alfonso Nitti, il protagonista di Una vita di Svevo, del 1892, si suicida alla luce di una tale filosofia: quando la vita si accorge di essere contenuta in un organismo malato e imperfetto, è bene che si autodistrugga, come un esperimento malriuscito; e lo stesso farà, nel 1950, non nella finzione letteraria ma nella vita reale, Cesare Pavese, anche lui al culmine del successo; così aveva fatto, nel 1910, Carlo Michelstaedter, giovane scrittore e pensatore assai promettente, forse volendo dimostrare che solo scegliendo la morte l’uomo può affermare sino in fondo la propria libertà contro la forza oscura e meccanica d’una vita non voluta, né scelta. In fondo, Martin Eden che si getta dal finestrino della sua cabina compie il medesimo atto della Saffo leopardiana, la quale si precipita in mare dalla rupe di Leucade; così come Dick che va al seguito dell’esercito di Kitchener nella campagna del Sudan, cercando inconsciamente nella morte la via d’uscita da una totale delusione esistenziale, ricorda il principe Andrej che, infelicemente innamorato di Nataša, cerca e trova la ferita mortale nella battaglia di Bordino. In tutti questi casi è la malattia della modernità, fatta di aspettative esagerate e maldirette a uccidere i rispettivi eroi. Alla loro delusione si aggiunge la solitudine, perché la donna, nel cui amore cercano rifugio, è a sua volta agitata dai propri demoni: non sogna le gioie familiari, ma insegue disordinate immagini di autorealizzazione, anch’esse in ultima analisi vuote e deludenti. La donna moderna non ha figli, ha problemi, diceva Oswald Spengler con acre ma efficace ironia. E l’uomo, senza una compagna di vita, né uno scopo, né un fine, è solo un atomo smarrito nel buio.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.