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G. Bruno o la psicopatologia del narcisista illuminista

Ci sono dei miti che sono terribilmente duri a morire, per quanto si reggano su basi più che mai traballanti e tali basi siano state gettate su terreno instabile. Uno di tali miti è quello che ha fatto di Giordano Bruno un intrepido eroe della libertà di pensiero. Da quando la massoneria si è impadronita della sua figura e gli ha eretto il noto monumento in Campo de’ Fiori, a Roma, tale immagine si è definitivamente insediata nell’immaginario collettivo delle persone semicolte, tanto che lo si potrebbe considerare il principe degli archetipi della cultura di massa. E pazienza se la stessa espressione cultura di massa è evidentemente un ossimoro: ormai anch’essa è entrata nell’uso e viene ripetuta e utilizzata ad ogni pie’ sospinto, imponendosi con la forza del numero e con la pretesa evidenza di ciò che tutti ripetono, e che dunque dovrà pur essere vero. Non si usa dire che gli escrementi, con licenza parlando, in fin dei conti devono essere un cibo ottimo e saporito, e solo per uno sciocco pregiudizio non li serviamo a tavola come un piatto prelibato, visto che è impossibile immaginare che milioni e miliardi di mosche, che li frequentano e se ne nutrono, si ingannino nella maniera più clamorosa? E dunque: come si fa a mettere in dubbio l’esattezza e la bontà dell’immagine di Giordano Bruno come quella d’un eroe, anzi d’un martire della libertà di pensiero, anche se è un fatto, e contra factum non valet argumentum, che egli, dopo essersi sfratato e aver viaggiato per mezza Europa, si sia fatto disinvoltamente calvinista a Ginevra, anglicano a Londra e luterano a Wittenberg, mutando ogni volta casacca senza un batter di ciglia, e sempre impegnato a coltivare anzitutto il proprio ego, a promuovere la propria immagine di pensatore gigantesco e prometeico, sfruttando le sue doti di suggestione psicologia per spremere quattrini ai ricchi gonzi ai quali prometteva d’insegnare l’arte della memoria e altri prodigi mentali, nonché ponendosi a disposizione dei servizi segreti delle grandi potenze e utilizzando i ritagli di tempo per scrivere commedie oscene, come Il Candelaio, oltre che per tentar di truffare il senato accademico delle più celebri università straniere, come quella di Oxford, propinando agli uditori testi non suoi e beccandosi la mortificante accusa di plagio, dalla quale i suoi moderni apologisti lo mondano senza degnarsi di verificare la fondatezza, assicurando che l’ostilità degli accademici oxoniensi era dovuta piuttosto al loro tenace aristotelismo, che li spingeva a rifiutare in linea di principio e con qualsiasi mezzo le dottrine filo copernicane del Nolano? Il fatto poi che nel pensiero di Bruno ricorrano temi tipici del’ermetismo, come la potenza magica della memoria e della parola, l’anima del mondo, l’infinità degli universi, l’assenza di un centro e di una periferia, ha contribuito ad accreditarne l’immagine di primo campione moderno della filosofia europea, caduto vittima dell’ottusità della Chiesa e troppo in anticipo per essere capito dalla maggior parte dei suoi contemporanei, ancora legati a vecchie concezioni e a vecchi modi di pensare e di guardare il reale.

C’è però un aspetto che a noi pare particolarmente caratteristico non solo di Bruno, ma proprio del tipo d’intellettuale che con lui compare sulla scena della filosofia, e cioè un narcisismo patologico, sfrenato, delirante, che smarrisce ogni senso del limite e delle proporzioni e che s’inebria e si ubriaca alle proprie stesse parole, finendo per divenire la spia di un malessere profondo, proprio di tutti i narcisisti patologici, e che si ritrova in quasi tutti gli esponenti del pensiero illuminista, intendendo questa parola non solo nel senso stretto di esponente della filosofia dei lumi, ma nel senso più ampio di colui che si ritiene depositario e diffusore di una speciale illuminazione da elargire alle masse incolte e asinine (l’espressione è tipica del linguaggio bruniano, il cui vocabolario abbonda di insulti d’ogni genere nei confronti di quanti sono rei di non apprezzarlo e di non esaltare i suoi meriti fino alle stelle), dall’alto di una scienza che gli appartiene e che lo distingue da tutti, quasi come un titano romantico o come un Prometeo che ha spezzato le catene per insegnare agli uomini il sapere segreto e liberatorio che un dio maligno e geloso vorrebbe tenere tutto per sé solo. In questa chiave di lettura si comprende meglio il favore che Bruno incontra, da quattro secoli a questa parte, presso quasi ogni genere di pensatori e di storici della filosofia, per non parlare del pubblico dei non specialisti: egli infatti è divenuto pressoché la bandiera per antonomasia di tutti quanti sono convinti che la ragione del pensiero consista nel costringere la natura a rivelare i suoi segreti e a metterli a disposizione dell’uomo, beffando quel dio e quegli uomini, oscurantisti e retrogradi, per i quali esiste il senso del limite e il senso del mistero, e che ritengono assurdo e temerario voler mettere l’uomo al posto di Dio, come se questi fosse capace di ricostruire il mondo a immagine della propria ragione, assai più prefetto e meglio organizzato di quanto lo abbia fatto il divino Creatore.

Psicopatologia narcisista maligna, dunque (maligna perché pronta a offendere e aggredire quanti non riconoscono la sua grandezza colossale), dunque: la stessa ebbrezza di auto-glorificazione delirante che si trova nelle pagine di Jean-Jacques Rousseau, la cui stima di sé arriva al punto, nelle Confessioni, di narrarci ogni dettaglio più intimo e minuto della sua vita, comprese le sue attività di autoerotismo giovanile; e la stessa che troviamo nelle pagine peggiori di un genio infelice e sregolato, come Friedrich Nietzsche, specialmente in Ecce homo e L’Anticristo, ove già appare evidente l’ombra della pazzia che sarebbe culminata, di lì a poco, nelle danze dionisiache sul letto della sua stanza d’affitto e nei biglietti farneticanti da lui indirizzati a una serie di personaggi pubblici, a cominciare dal kaiser tedesco Guglielmo II. Ecco, ad esempio, il ritratto che Giordano Bruno fa di se stesso, con il trasparentissimo pseudonimo di Nolano, per bocca del personaggio di Teofilo, nel Dialogo primo de La cena de le Ceneri (testo a cura di Marcella Vasconi, Demetra Editrice, 1995, pp. 27, 28, 29):

Che dire del Nolano allora che è stato capace di raggiungere il cielo, discutere intorno alle dimensioni delle stelle, lasciando dietro di sé il sistema sferico del firmamento? (…)

Or ecco quello, ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo discorse le stelle, trapassato gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglie de le prime, ottave none, decime ed altre, che vi s’avesser potuto aggiungere, sfere, per relazione de vani matematici e cieco veder de filosofi volgari; cossì al cospetto d’ogni senso e raggione, co’ la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità, che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura, ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissargli occhi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeano, sciolta la lingua a’ muti che non sapeano e non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti, rinsaldar i zoppi. (…)

Il Nolano, per provocare effetti completamente opposti, ha liberato l’animo umano e la conoscenza, prima chiusa nell’assai angusto carcere della zona inferiore dell’aria torbida; a mala pena, come chi può guardare solo attraverso pochi buchi, aveva la possibilità di osservare le lontanissime stelle; le sue ali erano mozze e non poteva volare squarciando le nuvole per vedere veramente che cosa ci fosse oltre, così da liberarsi dalle chimere di quelli che, essendo emersi dal fango e dalle profondità della terra, alla stregua di Mercurio e Apolli scesi dal cielo, con menzogne diverse, hanno riempito il mondo intero di un incredibile numero di follie, spropositi ed errori come se fossero valori, scienza divina e insegnamenti, spegnendo la luce che aveva reso divini ed eroici gli animi dei nostri antichi maestri e dando autorità alle oscure tenebre dei sofisti e degli asini. A motivo di ciò la ragione umana, a volte piangendo nei momenti di lucidità la sua tragica condizione, si rivolge alla sapienza divina, sempre presente nel suo intimo, con simili parole:

"Chi salirà, per me, madonna, in cielo,

a riportarne il mio perduto ingegno?"

(Ludovico Ariosto, "Orlando Furioso, XXXV, 6)

Ed ecco che quegli che ha attraversato l’aria, penetrato il cielo, lasciate dietro di sé le stelle, superati i confini del mondo, annullate le barriere delle prime, ottave, none, decime sfere e anche di quelle successive, frutto degli studi di inutili matematici e degli ottusi discorsi di filosofi da strapazzo, in base all’esperienza dei sensi e al ragionamento, dopo avere aperti, mediante una rigorosissima indagine, i recinti in cui la verità era rinchiusa, dopo aver spogliato i veli della natura, ha ridato la vista alle talpe, restituito la luce a quelli che erano in rado di osservare la propria immagine riflessa in uno specchio, restituito la parola ai muti che non sapevano o non osavano esprimere i propri sentimenti, rimessi diritti gli zoppi.

Ridare la vista alle talpe e ai ciechi, restituire la favellare ai muti e ai timidi: non vi è qui, oltre al delirio d’onnipotenza, l’inconscio desiderio, come appunto nelle ultime opere di Nietzsche, di gareggiare con il Cristo quale autore di portenti miracolosi, quale redentore di un’umanità abbrutita e traviata, naturalmente suggerendo la propria immensa grandezza e superiorità rispetto a quel Messia, che altro non ha saputo fare se non morire sulla croce, incompreso e deriso dagli uomini? Non si colgono in queste espressioni le tipiche tracce d’una mente distorta e disturbata, che annega ormai nel lago della propria sfrenata volontà di autoaffermazione e che, rendendosi conto di non incontrare il favore dei contemporanei, si risarcisce raddoppiando, triplicando e quadruplicando le lodi a se stessa, paragonandosi al sublime liberatore di un’umanità in ceppi e denigrando e sbeffeggiando i filistei, colpevoli di non lasciarsi docilmente illuminare dai raggi d’un sapere tanto sfolgorante quanto gratuitamente offerto dal novello redentore laico? In effetti, là dove si paragona a colui che ha oltrepassato i confini del cielo, che ha scavalcato i limiti del mondo, che si è spinto oltre le più alte sfere dell’universo, non si sente una nota di profonda malattia, di ambizione frustrata, di compensazione delirante, proprio come nel protagonista del Diario di un pazzo di Nikolaj Gogol, il quale risarcisce se tesso per tutte le umiliazioni e le sconfitte subite nella sua misera e oscura vita di piccolo impiegato immaginandosi d’essere il Re di Spagna, e che gli infermieri che gli mettono la camicia di forza lo "curano" coi getti d’acqua ghiacciata non siano che i servitori e i valletti che si prendono cura della sua augusta persona?

Abbiamo detto che in tale sindrome psicopatologica vi è una caratteristica tipicamente illuminista: l’illuminista, infatti, è precisamente colui che viene a portare i lumi della vera conoscenza a quanti sono immersi nelle tenebre e che perciò stesso si pone al di sopra degli altri, si ritiene capace d’illuminare il mondo intero con la propria scienza, il che lo autorizza a guardare tutti e ciascuno dall’alto in basso, come fossero tanti bambini, o come fossero talpe cieche, asini raglianti, somari e caproni immeritevoli di qualsiasi attenzione e del tutto privi d’interesse, a dispetto dei loro titoli accademici e della loro ridicola supponenza. E poco importa se ad apparire ridicolo, già nel suo modo pretenziosi di porsi, e poi nella pretesa di avere una conoscenza straordinaria da elargire al mondo, è proprio lui, l’intellettuale illuminista: ché tale apparve ai professori di Oxford quel piccolo e buffo napoletano, ciarliero e gesticolante, che ebbe l’incredibile faccia tosta di snocciolare pagine e pagine di altri autori, come Marsilio Ficino, facendole passare per farina del suo sacco, salvo poi venire smascherato e miseramente sbugiardato (i moderni intellettuali illuministi, più pragmatici e meno romantici, preferiscono copiare da se stessi col metodo standard del copia e incolla dai propri precedenti libri, come ha fatto a suo tempo Umberto Galimberti: cfr. i nostri articoli: Il crepuscolo dei filosofi nello sputtanamento del copia e incolla, 22/04/11, e Saranno i sofisti come Galimberti a traghettarci dal mondo delle parole a quello delle cose?, pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente il 22/04/11 e il 19/02/12, indi ripubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia). Ma tant’è: l’intellettuale illuminista non copia, per carità, tutt’al più sembra che copi: in realtà crea di bel nuovo; è talmente intelligente che ricrea col suo pensiero i pensieri degli altri, ovviamente arricchendoli e perfezionandoli, ma senza neanche sapere che altri li hanno già avuti e messi per iscritto; non è un impostore né un ciarlatano, ci mancherebbe, ma un individuo talmente eccezionale che per lui il verbo plagiare non ha senso, come non ha senso parlare di truffa per chi crea il denaro del nulla, promette profitti eccezionali agl’ingenui investitori e poi sparisce con la cassa: no, costui non è un volgare truffatore, ma un estroso e simpatico artista della finanza creativa.

Il narcisismo degli intellettuali illuministi non è un incidente di percorso, ma una vera e propria forma mentis. Il pensiero moderno, da Cartesio e Kant, in poi, è soggettivo e antimetafisico: dunque è costretto a navigare nelle acque basse del relativismo, non avendo più un centro di gravità, né soprattutto un metro di giudizio assoluto. Di conseguenza, i suoi esponenti sono naturalmente portati ad auto-incensarsi e auto-celebrarsi: se non lo facessero loro, chi altri lo potrebbe fare, visto che non riconoscono ad alcuno il diritto di giudicarli con dei criteri razionali, universali e necessari?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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