J. Guitton cattivo maestro di mariologia ecumenica
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17 Aprile 2021Il mondo esiste e sussiste, e tuttavia il suo esistere e il suo sussistere sono avvolti in un grande mistero, il mistero della precarietà e della labilità. Tutto, tutto ciò che esiste, domani non esisterà più: sappiamo che questo è il destino di ciò che non ha in sé stesso la causa del proprio esistere, ma la riceve da qualcos’altro. Dove andranno a finire le cose, allora? Già nel corso della nostra breve vita facciamo l’esperienza di come le cose cessano di esistere: lo notiamo soprattutto con quelle più care, quelle che hanno rivestito per noi la più grande importanza. Dov’è andata a finire la casa della nostra infanzia, con tutti i suoi dolcissimi ricordi? O non c’è più, o non è più quella: l’hanno modificata, è abitata da persone sconosciute, tutto il contesto in cui si trova è mutato al punto tale da farci dubitare che sia quella, anche se l’indirizzo coincide perfettamente. E lo stesso accade per la nostra città natale: se ci torniamo a distanza di anni, pur vedendo che è proprio lei, continuamente ci domandiamo dove sia finita la nostra città, quella dei nostri ricordi: certamente non è questa qui, che porta lo stesso nome ma che non riusciamo più a ri-conoscere, a sentire veramente come nostra. Per le persone care, il distacco è ancor più doloroso e sconcertante. Come è possibile che la persona amata, con la quale abbiamo trascorso tanti anni della nostra vita, non ci sia più? La vedova che ha perso il marito da tanto tempo, si reca ogni giorno in cimitero, a portare dei fiori sulla sua tomba: ma lei sa bene che il suo sposo non è più lì, che lì ci sono solo i misteri resti di quella che fu una persona viva, che l’ha amata, le ha dato dei figli, ha condiviso con lei tanti momenti belli e brutti, come se entrambi fossero ormai divenuti una cosa sola. Dove vanno a finire le cose, quando non esistono più? Perfino le montagne, perfino i mari e i continenti, perfino i corpi celesti, a un certo punto scompaiono, si trasformano, svaniscono. Fra alcuni miliardi di anni la superficie della Terra, se la Terra esisterà ancora, sarà irriconoscibile: i continenti non saranno più nella posizione attuale, come non lo erano in tempi remotissimi; dove ora ci sono mari o lagune, ci saranno alte montagne, e viceversa; deserti occuperanno lo spazio delle foreste, fiumi giganteschi saranno prosciugati, si perderanno nella sabbia. È una legge universale, alla quale evitiamo di pensare troppo spesso, perché un tale pensiero ci mette a disagio. È sconcertante riflettere sulla precarietà dell’esistente, sulla labilità di tutto quello che forma la costellazione del mondo, dalla più umile foglia del prato alla più smisurata galassia a spirale. Nessuna di tali cose, grande o piccola che sia, o che ci appaia tale, possiede in se stessa la propria ragione di esistere; nessuna si dà da se stessa il movimento; nessuna esiste perché ha scelto o deciso di esistere, ma ciascuna ha ricevuto la propria esistenza da qualcos’altro, da una Causa Prima, e ora ciascuna corre verso un punto terminale, la Causa finale, che l’indirizza ad essere ciò che è, che la sostiene, che le consente di continuare a esistere per il tempo che le è stato accordato.
Ecco: questo è un mistero, se possibile, ancora più grande, come appare non appena vi si rifletta un poco. Le cose non solo esistono e sussistono, sia pure limitatamene nello spazio e nel tempo; le cose possiedono in se stesse, per quel tempo e quello spazio limitati, una loro precisa ragione di essere, e hanno una loro perfezione intrinseca, e anche una loro magnifica bellezza, un loro splendore originario. Non si limitano a esistere, ma hanno la pienezza della propria esistenza, cioè hanno tutto ciò che serve a farle esistere in quel determinato modo, svolgendo quella determinata funzione, manifestando tutta la loro prodigiosa ricchezza. È come se ciascuna di esse fosse il riflesso della sovrabbondanza dell’Essere, che ha trasmesso loro non solo l’esistenza, ma anche qualcosa di più: un’esistenza stupendamente ricca, un’esistenza fastosa, come si può vedere non solo davanti a un tramonto maestoso o all’incanto di una notte stellata, ma anche solo osservando al microscopio gli oggetti più piccoli e in apparenza insignificanti, come un fiocco di neve, che ci svela sotto la lente dei disegni geometrici di una bellezza da mozzare il fiato. Tutto questo ci suggerisce che le cose non si limitano a condurre la loro esistenza precaria, ma hanno in se stesse un di più, un qualcosa che consente loro di esistere ben al disopra del minimo indispensabile, come se continuamente ricevessero una immissione di energia, di forza generativa, una spinta poderosa che contrasta con le leggi fisiche dell’entropia e ritarda notevolmente il loro invecchiamento e il loro decadimento. E l’uomo che, la sera, di corica nel suo letto distrutto dalla stanchezza, se gode di una buona salute e se nessuno interrompe il suo riposo, al mattino si desta rinvigorito, quasi rigenerato, e pronto ad affrontare una nuova giornata di lavoro, di impegni e di preoccupazioni. Davvero c’è in ogni cosa un’autentica sovrabbondanza di essere, della quale raramente ci accorgiamo perché abbiano la tendenza di porre maggiore attenzione sul bicchiere mezzo vuoto, e a lamentarci per ogni sia pur minima contrarietà, affliggendoci perché non sempre tutto fila liscio come vorremmo. Questo è precisamente l’atteggiamento di Leopardi, bene esemplificato nell’operetta morale Dialogo della natura e di un islandese, nel quale paragona l’uomo a colui che è stato invitato a soggiornare nella villa di un amico, nella quale, però, non trova altro che scomodità, maltrattamenti e indifferenza, al punto da chiedere all’ospite perché mai abbia voluto inviarlo, se poi non si dà alcun pensiero del suo benessere (ma Leopardi ha una mente poetica, non filosofica: non sa astrarre dal contingente e risalire al pensiero del tutto).
Eppure anche questo nostro atteggiamento, se vi si riflette, è il segno che in noi c’è la nostalgia e quasi il ricordo di una pienezza originaria che ora si fa sentire proprio attraverso le contingenze e le piccole difficoltà di ogni giorno. Chi si ricorderebbe di avere una magnifica dentatura, sana ed efficiente, se ogni tanto un dente malato non glielo ricordasse? Chi penserebbe che il nostro organismo è fatto da un numero stupefacente di organi, ciascuno dei quali svolge la sua funzione in maniera perfetta, se ogni tanto, e il più delle volte per una nostra imprudenza o una nostra trascuratezza, uno di loro non subisse una battuta d’arresto? Tutto sta a suggerire, quindi, sia in maniera diretta che in maniera indiretta, che le cose possiedono una sovrabbondanza esistenziale che permette loro di esistere nel massimo grado delle loro possibilità, anche se — questa è la legge — la loro esistenza è pur sempre qualcosa di limitato nel tempo, e sia pure un tempo misurabile in milioni di anni. E qui si cela un altro mistero, ancor più affascinante del fatto che le cose esistono: che cos’è questo di più; donde proviene questa sovrabbondanza esistenziale, che alla nostra mente si presenta in termini analoghi a una munificenza che non solo vuol donare, ma vuol donare le cose migliori e più perfette, e si preoccupa di fare in modo che esse abbiano in se stesse la possibilità di alimentarsi, di riprendersi, di restaurarsi se qualcosa le logora o le affatica? Ed è da questo pensiero che si risale, inevitabilmente, all’idea di un Creatore non solo onnisciente e onnipotente, ma anche infinitamente buono, pieno di amore per le cose che ha condotto all’esistenza e sollecito di ogni loro necessità, nei limiti inevitabili posti dalla loro condizione di creature immesse nella dimensione dello spazio e del tempo. Evidentemente, quella Causa Prima e quella Causa finale che ha creato ogni cosa e indirizza ciascuna al proprio fine, lo ha fatto con una generosità illimitata e con una previdenza infallibile, comunicando agli enti quel di più di essere che consente loro di esistere ben al di sopra del puro livello della sussistenza.
Citiamo a questo punto un breve passaggio di un articolo di padre Alessandro Maria Apollonio dei Francescani dell’Immacolata, che è stato il più stretto collaboratore del fondatore dell’ordine, Francesco Maria Manelli (Il Salvatore e sua Madre, in: Il settimanale di Padre Pio, Casa Mariana Editrice, n. 5 del 21 gennaio 2021, p. 18):
"Salvatore", secondo la Teologia francescana, non è semplice sinonimo di Redentore. Il Salvatore è, infatti, Colui che, ancor prima di salvare l’uomo dal peccato, , slava l’uomo e l’universo dalla "tepeínonis" creaturale, ossia dall’abisso del puro nulla sul quale è sospeso ogni essere finito e contingente. Parlando di Cristo, san Paolo afferma: «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col. 1,17).
Quindi ancor prima di salvarci dall’inferno, Gesù, in quanto Pantocratore, ci salva dal nulla. San Giovanni, poi, afferma: «A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome» (Gv 1,12). Questo significa che non solo il Cristo ci crea come esseri puramente naturali, ma ci eleva anche ad una dignità infinitamente superiore a quella delle semplici creature: in Lui i credenti diventano figli di Dio. Sono gli eredi del Regno eterno di luce infinita. Anche Maria riceve da Cristo tale elevazione soprannaturale.
L’uomo, rispetto agli altri enti creati, ha una cosa in più: l’anima immortale; e tuttavia non solo l’uomo, ma l’intera creazione è oggetto dell’amore di Dio, l’intera creazione è stata ferita dal Peccato originale, e quindi l’intersa creazione attende di essere redenta dal male e dal nulla che la insidiano. La morte, infatti, è entrata nel mondo come conseguenza del peccato: è l’uomo che, peccando, cioè ribellandosi a Dio, ha trascinato con sé l’intera creazione sull’orlo dell’abisso del non essere, dal quale Dio l’aveva tratta con l’atto della creazione. Ed è per questo che era necessario che il Verbo si incarnasse e si offrisse alla Passione e alla Morte, e poi risorgere: perché la morte era venuta a causa dell’uomo, e dunque per mezzo dell’uomo (del Dio che si è fatto uomo) essa doveva essere sconfitta.
Dice il Libro della Sapienza (2,23-24):
^23^Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. ^24^Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono.
E san Paolo, nella Lettera ai Romani (5,12-19):
^12^Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. ^13^Fino alla legge infatti c’era peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la legge, ^14^la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato con una trasgressione simile a quella di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
^15^Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo morirono tutti, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sono riversati in abbondanza su tutti gli uomini. ^16^E non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo: il giudizio partì da un solo atto per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute per la giustificazione. ^17^Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
^18^Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. ^19^Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
E ancora san Paolo, nello stesso testo (8,19-23):
19 La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; 20 essa infatti è stata sottomessa alla caducità – non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa – e nutre la speranza 21 di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio. 22 Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; 23 essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo.
Ecco dunque la risposta alla domanda su dove vanno a finire le cose, quando cessano di esistere. Vanno a finire là da dove avevano tratto l’esistenza. A rigore, non cessano affatto d’esistere: escono dal nostro campo visivo e a noi pare che siano scomparse nel nulla. Ma le cose create non tornano al nulla: tornano al Creatore, vivificate e luminose, immortali. La vita è preparazione a questo ritorno. Perciò l’abbiamo ricevuta: per riconoscere e adorare la Sorgente da cui tutto inizia e a cui tutto ritorna.
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