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«Venne nella sua casa e i suoi non lo ricevettero»

Rileggiamo il meraviglioso, abissale incipit del Vangelo di san Giovanni (1, 1-11):

^1^ In principio era il Verbo,

e il Verbo era presso Dio

e il Verbo era Dio.

^2^Egli era, in principio, presso Dio:

^3^tutto è stato fatto per mezzo di lui

e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.

^4^In lui era la vita

e la vita era la luce degli uomini;

^5^la luce splende nelle tenebre

e le tenebre non l’hanno accolta.

^6^Venne un uomo mandato da Dio:

il suo nome era Giovanni.

^7^Egli venne come testimone

per dare testimonianza alla luce,

perché tutti credessero per mezzo di lui.

^8^Non era lui la luce,

ma doveva dare testimonianza alla luce.

^9^Veniva nel mondo

la luce vera,

quella che illumina ogni uomo.

^10^Era nel mondo

e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;

eppure il mondo non lo ha riconosciuto.

^11^Venne fra i suoi,

e i suoi non lo hanno accolto.

Se, da un punto di vista teologico e dottrinale, l’Incarnazione del Verbo è il mistero più grande di tutti (insieme a quello della unità e trinità di Dio), da un punto di vista storico e umano il mistero più grande è, senza dubbio, quello del non riconoscimento, anzi del rifiuto rabbioso, spinto fino all’odio mortale, del Redentore da parte di quelli stessi fra i quali Egli è venuto, e che erano stati scelti quale popolo eletto ed a ciò preparati da una lunga serie di profeti divinamente ispirati e di speciali interventi di Dio stesso nel corso della loro storia. Il Verbo è venuto fra i suoi, è venuto nella sua casa, ma i suoi non lo hanno accolto: si può immaginare un dramma storico e metafisico più grande, più tragico di questo? È veramente un profondissimo e terribile mistero: il mistero del rifiuto della Redenzione, che non riguarda solo gli ebrei, ma tutti quelli che, da allora sino ad oggi, anzi specialmente oggi, nella società contemporanea, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, si sono turati gli orecchi e, digrignando i denti, non ne hanno voluto sapere.

E adesso lasciamoci prendere per mano e accompagnare nella lettura e nella meditazione da un grandissimo esegeta dei primi secoli della Chiesa, Giovanni Crisostomo ("Bocca d’oro"), arcivescovo di Costantinopoli al temo dell’imperatore Arcadio, venerato come santo e riconosciuto come uno dei 36 Dottori, nel suo Commento al Vangelo di Giovanni (nella traduzione di Alfredo Del Zanna, Roma, Città Nuova Editrice, 1974, vol. 1, pp. 86-89):

L’evangelista aveva detto che «il mondo non lo conobbe», parlando delle epoche antiche. Poi viene a parlare delle oca della predicazione e dice: «Venne nella sua casa e i suoi non lo ricevettero» (Gv 1,11). Qui egli chiama "suoi" i Giudei, quale popolo eletto, oppure anche tutti gli uomini, in quanto sono stati creati dallo stesso Cristo. E, come prima, meravigliandosi dell’insipienza di tanti uomini e quasi vergognandosi della comune natura, diceva che il mondo, che era stato creato dal Verbo, non conobbe il suo creatore, così in questo passo, mal sopportando l’ingrato animo dei Giudei e di molti altri, rivolge a costoro un’accusa più grave, dicendo che «i suoi non lo ricevettero», sebbene fosse venuto nella sua casa.

Non solo l’evangelista, ma anche i profeti mostrarono il loro stupore di fronte a questi fatti, con analoghe espressioni, e Paolo fece altrettanto. (…)

C’è di che restare veramente attoniti e perplessi,considerando che quelli che erano stati educati sui libri profetici e ogni giorno ascoltavano Mosè, dal quale erano state predette tante cose sulla venuta del Cristo, nonché i profeti dei periodi successivi, e che vedeva Cristo mentre compiva quotidianamente miracoli e s’intratteneva unicamente in mezzo a loro — non permettendo ancora che i discepoli prendessero la via delle altre genti o che entrassero nel territorio dei Samaritani, cosa che neppure lui stesso faceva, ripetendo, anzi, spesso di essere stato mandato soltanto alle pecorelle della casa d’Israele che si erano perse -; proprio essi, dopo tanti prodigi operati a loro vantaggio, nonostante ascoltassero quotidianamente la lettura dei profeti e la viva voce dello stesso Cristo che li ammaestrava senza concedersi riposo, furono ciechi e sordi fino a tal punto, da non lasciarsi condurre da nessuna di queste cose alla fede nel Cristo.

I gentili, invece non avevano goduto di alcuno di questi vantaggi, non avevamo mai udito divine rivelazioni, neppure in sogno, ma erano avvezzi a riempirsi la testa di favole composte da pazzi (così io chiamo, infatti, la loro profana filosofia) e dalle farneticazioni dei loro poeti, adoravano gli alberi e le pietre e non sapevano alcunché di giusto e di buono, né per quanto riguarda la dottrina, né per quanto riguarda l’etica, dato che la vita era altrettanto impura quanto la loro dottrina e più di questa detestabile. E che altro si poteva sperare da loro, dato che vedevano i loro dèi gozzovigliare in mezzo ad ogni sorta di peccati e venir venerati con parole oscene e con azioni ancora più oscene, tali azioni ritenendo feste celebrate in loro onore; ed inoltre venir venerati addirittura con sacrifici umani, cioè con l’uccisione di fanciulli (con la qual cosa non facevano altro che imitare i loro stessi dèi)? Benché fossero però caduti in tale abisso di perversità, come se fossero stati sollevati repentinamente da una macchina teatrale misteriosa, sono apparsi a noi nel più alto vertice del cielo steso. Come dunque e per quale causa è potuto accadere ciò? Ascoltate Paolo, che ce ne dà la spiegazione. Questo uomo beato, diligentemente indagando su questo fatto, non desistette finché non ne ebbe trovato la vera causa, per manifestarla a tutti. Qual è essa, dunque, e perché gli altri furono colpiti da così grande cecità? Ascoltate colui, cui tale compito era stato affidato. Che cosa, dunque, egli dice, per dissipare i dubbi di molti? «Ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria giustizia, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio» (Rom 10,3). Ecco perché hanno subito tante sciagure.

E ancora, spiegando in altra maniera la medesima cosa, dice: «che diremo, dunque? Che le genti, le quali non perseguivano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia, la giustizia, cioè, che si ha dalla fede. Israele, invece, che perseguiva la legge della giustizia, non pervenne alla legge della giustizia. Perché? Perché l’attendevano non per la fede, ma quasi per le opere, urtarono nella pietra d’inciampo» (Rom 9,30-32), ossia l’incredulità fu la causa dei loro mali; l’incredulità poi era frutto della loro superbia e ostinazione.

Infatti essi, che per l’innanzi erano in una condizione privilegiata rispetto ai gentili, avendo ricevuto la legge, conoscendo Dio e tutte le altre cose che Paolo enumera, dopo la venuta del Cristo videro che i gentili, per mezzo della fede, erano chiamati insieme a loro ad un uguale onore e, una volta che avevano abbracciato la fede, quelli che appartenevano ai circoncisi non avevano nulla in più di coloro che provenivano dalle genti. Allora, dalla superbia caddero all’invidia e non sopportarono tale immensa e ineffabile bontà del Signore; il che non derivò da altro se non da arroganza, perversità e odio implacabile.

Un mysteriun tremendum, dunque, abissale, sconcertante: quello del Messia lungamente atteso, desiderato, invocato, e che da lungo tempo si era fatto annunciare con segni e prodigi di potenza, ma che poi, quando finalmente giunge, non viene riconosciuto, non viene accettato, anzi viene deriso, insultato, odiato e messo a morte a furor di popolo. Il più grande mistero attorno al quale ruota il mistero della storia umana, sospesa fra il cielo e l’inferno, e con l’umanità che da un lato aspira a Dio quale meta finale della propria esistenza terrena, dall’altro è continuamente sedotta dalle arti del maligno, e discende, un passo dopo l’altro, verso l’abisso. Ed è anche il mistero della salvezza riservata a pochi: non perché il Cristo voglia salvarne pochi, poiché, al contrario, è venuto a sacrificarsi per tutti, ma perché pochi lo riconoscono, pochi lo accolgono, pochi si affidano a Lui, mentre la maggioranza, giunta l’ora della prova, sceglie le tenebre e respinge la luce, poiché la luce è venuta nel mondo, ma il mondo ha preferito le tenebre alla luce. Di questo grande e terribile mistero ci eravamo scordati, vivevamo come se non lo conoscessimo, mentre il Vangelo di Giovanni ce lo ricorda sin dal primo capitolo, sin dai primissimi versetti: ed è questo il segno più evidente di ciò che eravamo diventati, per mancanza di fede: dei credenti all’acqua di rose, dei cattolici alla camomilla. Ingannati e traditi, come se non bastasse, da falsi pastori, impegnati più che mai a lusingarci nei nostro errori, a carezzarci nelle nostre umane debolezze: dei falsi pastori i quali dicono e ripetono che tutti si salvano, o quasi tutti; che anche Giuda Iscariota si è salvato, sebbene si sia impiccato senza aver chiesto perdono a Dio, dopo l’orrendo misfatto di aver venduto per denaro il Figlio mandato dal Padre; che tutti gli uomini sono, automaticamente, figli di Dio, e non quelli che dicono sì alla chiamata, e quelli che mediante il Battesimo entrano a far pare della comunione dei Santi, cioè del Corpo mistico di Cristo.

Quanti errori, quanta ignavia, quanta ignoranza e quanta malafede, da parte del semplice credente e da pare del falso pastore, per essere caduti così in basso, e aver smarrito la coscienza dei concetti fondamentali della dottrina cattolica. Il credente ha perso la fede, pur restando, a parole, crescente; in molti casi poi ha rifiutato la fede dei padri, se ne è emancipato, l’ha gettata via come un vestito vecchio, inutile, ridicolo. In Francia, nazione che un tempo si considerava la figlia prediletta della Chiesa romana, il due per cento della popolazione si dichiara cattolico: intendendo per cattolico il fatto di partecipare alla santa Messa un paio di volte al mese, e di accettare, in teoria, i punti qualificanti della dottrina cattolica. In Spagna, altra nazione che si diceva particolarmente devota, si oltraggiano le chiese, di demoliscono le croci, e non da parte di qualche ignoto mascalzone, ma dalle pubbliche autorità. E ovunque si varano leggi anticattoliche e anticristiche, si legalizzano il divorzio e l’aborto, si proibisce l’esposizione di simboli religiosi in pubblico, si vietano i canti di Natale, si asportano crocifissi dalle aule scolastiche, si diffidano gli annunciatori televisivi dal comparire dinanzi al pubblico indossando anche solo una minuscola croce al collo; e ciò mentre le chiese vengono chiuse per mancanza di sacerdoti, vengono abbattute, vengono messe in vendita, vengono trasformate in palestre, in teatri, in locali pubblici, e intanto non si ferma la costruzione di sempre nuove moschee, e le massime autorità scendono in campo per deplorare la minima offesa che venga recata da qualche ignoto ad una sinagoga. Cristo è di nuovo scacciato, deriso, rifiutato; vi sono Paesi, anche non lontani dall’Europa, come la Siria, ove i cristiani vengono perseguitati a morte a motivo della loro fede, vengono crocifissi, vengono decapitati; il tutto mentre le nazioni cristiane stanno a guardare o, peggio, mentre i loro governi, o i loro servizi segreti, finanziano le bande degli assassini, animati da un cieco e antichissimo odio contro il nome cristiano, facendoli passare — suprema ironia – per "combattenti della libertà".

Ma che razza di cristiani, che razza di cattolici sono quelli che approvano l’aborto, che dichiarano lecito e perfino doveroso assumere un vaccino prodotto con cellule di feti umani fatti abortire appositamente, che esigono e pretendono la benedizione ecclesiastica per le nozze delle coppie "diverse", come se Iddio fosse un distributore di benedizioni a tutto ciò che gli uomini desiderano, anche alle cose più lontane dalla Sua santa volontà, anche alle cose che offendono il Vangelo insegnato da Gesù Cristo? Ecco: questo è il mistero dell’iniquità: la luce venuta fra noi, da duemila anni, ma il mondo non l’ha accolta; è sembrato, a un certo punto, che l’accogliesse, ma poi ci ha ripensato, si è accorto che la croce è pesante, è faticosa, e ha voluto gettarla via, lontano da sé, ha preferito ascoltarle le lusinghe del nemico, quel nemico che Gesù stesso ha affrontato a viso aperto nel deserto, e che ha dispiegato tutta la sua capacità di seduzione per tentarlo, ma non c’è riuscito e che, sconfitto, schiumante di rabbia, è stato costretto ad andarsene, senza però rinunciare mai, neanche per un attimo, al suo disegno di allontanare gli uomini da Dio; senza mai desistere dal suo sforzo di traviare le anime e vanificare gli effetti della Redenzione. Lui ha sempre continuata a fare il suo tristo mestiere, per tutti questi duemila anni, anzi dopo la venuta di Cristo ha raddoppiato e moltiplicato i suoi sforzi, ben sapendo che la venuta di Cristo annunciava l’inizio della fine del suo regno tenebroso. Siamo noi che non abbiamo saputo fare il nostro mestiere, siamo noi che non abbiamo saputo vegliare e pregare, ma ci siamo comportato come i discepoli nell’orto degli ulivi: ci siamo addormentati nell’ora della prova, nell’ora del massimo pericolo, e così abbiamo lasciato che il nemico agisse pressoché indisturbato, contro di noi e contro di Lui, attirando su noi stessi la severità del Giudizio che infallibilmente verrà, a suggello della Giustizia di Dio e a chiusura della stria umana, la nostra storia.

Perciò non chiediamoci quale mistero si celi dietro la parabola dei vignaioli omicidi, o dietro la parabola del buon seminatore. Il Buon Seminatore è venuto e ha seminato, offrendo la Sua stessa vita per amor nostro; ma noi abbiamo lasciato avvizzire quel seme, non lo abbiamo accolto, non gli abbiamo permesso di fruttificare. Peggio: noi ci siamo comportati come i vignaioli omicidi, abbiamo voluto uccidere il Figlio del Padrone della vigna, pensando che così la vigna sarebbe stata nostra, una volta per tutte. E quando, chiederete voi, abbiano fatto queste cose? Quando abbiano lasciato che si approvassero le leggi come quella che legalizza l’aborto, o le abbiamo votate noi stessi; quando abbiamo lasciato che si incendiassero le chiese, senza scomporci; quando abbiamo assistito al martirio dei nostri fratelli di fede, e ci siamo girati dall’altra parte; quando i falsi pastori si sono scatenati come cinghiali furiosi nella vigna, distruggendo i tralci e calpestando i grappoli; quando abbiamo applaudito i figli delle tenebre, li abbiamo lodati, li abbiamo onorati, e intanto abbiamo permesso che i figli della luce venissero derisi, emarginati, scacciati come lebbrosi, mentre erano loro, pochi e isolati, a tenere accesa la lucerna per la venuta dello Sposo, e facendo ciò, tenevano vivo un filo di speranza anche per noi. Perciò siamo colpevoli, e tutto quello che ora ci sta capitando lo abbiamo meritato, anzi lo abbiamo preparato, per anni, comportandoci come quelli che hanno per padre il diavolo (cfr. Gv 8, 44) e non l’Altissimo. Che faremo adesso? Con quale diritto ci lamenteremo, da chi andremo a reclamare? Una sola cosa possiamo e dobbiamo fare: gettarci in ginocchio dinanzi all’Agnello, confessare le nostre colpe e supplicare il suo perdono, dicendo: Padre, abbiamo peccato contro il cielo e contro di Te: non siamo degni di essere chiamato tuoi figli; ma Tu di’ soltanto una parola, e noi saremo salvati.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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