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30 Marzo 2021
«Venne nella sua casa e i suoi non lo ricevettero»
2 Aprile 2021Tommaso d’Aquino ha sempre sostenuto la conciliabilità e, anzi, la complementarità di ragione e fede, e al tempo stesso ha difeso l’autonomia della prima nei confronti della seconda. Possiamo considerare tutta la sua gigantesca opera come una mirabile cattedrale nella quale egli ha voluto mostrare la verità di questi due assunti: che la ragione è autonoma dalla fede e che al tempo stesso è la sua più preziosa e fedele ancella. C’è un punto, tuttavia, nel quale, malgrado tutti i suoi sforzi, non è riuscito a effettuare la sintesi tra le due sfere, e si è visto costretto a sospendere il giudizio: quello relativo alla natura temporale del modo, asserendo che non è possibile fornire le prove della creazione del mondo nel tempo, né della sua esistenza ab aeterno, nella mente di Dio. Infatti che l’esistenza del mondo presupponga l’esistenza del suo creatore, per lui è fuori discussione: sulla scia di Aristotele, il maestro di color che sanno, anche l’Aquinate pensa che non esista ente che non abbia la sua causa, né movimento che non sia originato da qualcosa che muove gli enti. Il problema, quindi, per Tommaso, non è certo la creazione, bensì la difficoltà di far coesistere l’insegnamento dogmatico sulla creazione ex nihilo con ciò che si può dire, sul piano della sola ragione naturale, a proposito dell’esistenza del mondo. In altre parole, Dio ha creato il mondo: ma lo ha creato nel tempo o prima del tempo? Perché se lo ha creato prima del tempo, allora il mondo è eterno anch’esso, sebbene certamente non debba a se stesso la propria esistenza, ma a qualcosa che è altro da sé, cioè a Dio creatore; quindi la sua eternità sarebbe di natura riflessa e non originaria. Questo problema è, per Tommaso, una diretta eredità di Aristotele, poiché questi postula l’eternità del mondo, e non ha alcuna difficoltà a conciliarla con l’idea della creazione divina: in pratica, Dio crea il mondo eternamente, e in questo senso si può dire che il mondo è eterno. Ma il cristianesimo insegna che il mondo è stato creato dal nulla, e che prima del mondo nulla esisteva, tranne lo Spirito divino; e che fra Dio e il mondo esiste una differenza ontologica incolmabile, perché Dio non diviene, essendo Causa Prima è sempre uguale a Se Stesso, mentre il mondo da Lui creato diviene, si trasforma, è soggetto a tutto ciò che comporta il mutamento.
San Tommaso ha trattato la questione in un breve saggio intitolato Tractatus de aeternitate mundi, composto probabilmente fra il 1270 e il 1271. Con il suo assoluto rigore logico, ma anche con la sua specchiata onestà intellettuale, il massimo pensatore dell’età medievale si rende conto che esiste uno iato fra ciò che insegna Aristotele, il quale rappresenta non solo il punto di vista della filosofia greca, ma anche della scienza che il Medioevo cristiano eredita dalla cultura greca e che accetta pressoché integralmente, e la questione dell’inizio del mondo nel tempo. Infatti, egli non riesce a trovare alcun argomento per confutare sul piano logico l’asserzione di Aristotele, che il mondo esiste da sempre; però non riesce nemmeno a trovare delle argomentazioni razionali per confutare ciò che insegna la dottrina cattolica a proposito dell’inizio del mondo nel tempo, per un libero atto della Volontà divina.
Osserva Paolo Bisogno nel suo libro Introduzione alla politica della scienza (Milano, Franco Angeli Editore, pp. 107-108):
Il modo migliore per tentar di chiarire l’influsso della scienza sulla religione e il rapporto che attualmente si stabilisce fra i due campi, sembra quello di rifarsi alla testimonianza offerta da alcuni momenti particolarmente significativi.
Fra i più gravi problemi connessi con la teologia che la scienza ha affrontato, vi è quello dell’origine dell’universo, che suscita interessi anche per il profano alle due scienze.
Questo esempio è altamente indicativo dell’effetto del progresso scientifico sulle posizioni del credente cristiano, tenuto per fede ad accettare la creazione dell’universo nel tempo. Mentre, infatti, la Bibbia indicava l’inizio del mondo nel tempo, il punto di vista scientifico, che coincideva con quello aristotelico, era nettamente contrario a tale cominciamento. La fede era perciò in contrasto con la religione [evidente refuso per "ragione"] circa l’essere DI FATTO e il DOVER essere, contrasto che rimase fino alla dimostrazione che la teoria aristotelica era errata.
Fu nel XIII secolo che Tommaso d’Aquino tentò d’inserire l’ipotesi di un INIZIO DEL TEMPO nel quadro della meccanica aristotelica, pur non riuscendo, per sua stessa ammissione, a dimostrare la validità del suo assunto.
Nella impossibilità di fornire prove a sostegno della sua idea, egli ritenne che la teoria aristotelica poggiasse su prove tanto deboli quanto quelle che egli poteva offrire a sostegno di un cominciamento e pertanto sostenne che l’affermazione che il mondo non sia sempre esistito non può essere né confermata, né smentita da parte della scienza. Tommaso concluse che l’esistenza d’un cominciamento del mondo fosse da considerare questione di fede, mentre non sarebbe stato possibile confutare l’opinione che l’universo durasse da sempre.
La scienza dell’epoca vedeva la creazione del mondo "ab aeterno" come analoga del propagarsi della luce, ritenuto simultaneo alla esistenza della sorgente, per cui min si poteva richiede una precedenza cronologica della causa sul suo effetto.
Da quanto [probabile refuso per "quando"] la scienza ha dimostrato che la propagazione della luce non è istantanea, è caduto l’unico esempio, allora valido, si simultaneità tra causa ed effetto, che induceva Tommaso ad accettare la possibilità teorica di una creazione senza inizio.
I motivi che spingevano Tommaso a ritenere che Dio avesse creato l’universo nel tempo vanno ricercato in ambiti diversi da quelli della ragione [?], ma al suo pensiero non era estranea l’intuizione del tempo come attributo del mondo materiale.
Ci permettiamo dissentire sul fatto che Tommaso difendesse l’idea cristiana della creazione per ragioni diverse da quelle razionali. Se c’è stato un filosofo che è sempre rimasto fedele alla ragione naturale, alla quale non contrapponeva la fede, ma che ad essa la integrava in un tutto armonico, pur senza confondere i due ambiti, quello è stato proprio l’Aquinate: con buona pace di tutti i seguaci dei razionalisti dell’età moderna, per i quali la ragione è comunque un’arma che è servita dapprima per escludere la metafisica, poi per demolirla e infine a ricostruire il pensiero totalmente senza di essa, cioè senza il fondamento dell’essere.
A noi sembra che abbia colto assai più nel segno un valente studioso del Dottore Angelico, il domenicano Innocenzo Taurisano (1877-1960), grande erudito ed esperto di paleografia, il quale lega la questione dell’eternità del mondo a quella sull’unità dell’intelletto umano, sostenuta da quanti si rifacevano all’interpretazione averroistica di Aristotele e che era, quella sì, totalmente inconciliabile con il dogma cattolico dell’unicità dell’anima individuale e del suo destino eterno. Scrisse una volta il grande studioso di filosofia tomista Étienne Gilson che «quando si vuol sapere se un pensatore medievale è averroista, basta chiedergli se il movimento e il mondo sono eterni, e se non v’è che un intelletto agente e un intelletto possibile per tutti gli uomini; la risposta [affermativa] a questa domanda è un sintomo indicativo» (in La philosophie au Moyen Age, 2 voll., 1922, traduzione di M. A. Del Torre, 1973, pp. 443-444). Tommaso quindi si tiene nel solco della dottrina cattolica, però non rinuncia a mostrare che se nulla si oppone all’idea della creazione nel tempo, nulla del pari si oppone sul piano razionale alla tesi contraria, per cui, a parità di argomenti, la preferenza va accordata a quello che si concilia con un importante dogma di fede. Questa posizione, intellettualmente ineccepibile gli permette poi di sferrare l’attacco con la massima energia, senza essere tacciato di fideismo, contro i sostenitori dell’unicità dell’intelletto umano. Perché è sul quel terreno, e non su quello della creazione del modo, che si gioca veramente la partita decisiva per la difesa o per la demolizione della fede cristiana: come oggi possiamo purtroppo vedere, con il trionfo (apparente) di quel neomodernismo che, tornando a contrapporre fede e ragione e fede e scienza, e sottomettendo la prima quest’ultima, giunge di fatto a negare tutti i dogmi fondamentali del cristianesimo, come acutamente aveva visto san Pio X nella Pascendi. E commette l’errore uguale e contrario di papa Urbano VII allorché volle opporsi al sistema copernicano sostenuto da Galilei, poiché pensano erroneamente che i risultati della scienza siano definitivi e che quindi sia la fede a doversi adattare ad essi, mentre i risultati della scienza sono provvisori e continuamente vengono smentiti da nuove teorie e nuove scoperte, come in questo caso la teoria della relatività di Einstein smentisce l’idea aristotelica di un tempo indipendente dallo spazio. E se Tommaso, fidando ciecamente nei risultati della scienza del suo secolo, si fosse appigliato ad essa per negare la creazione del mondo nel tempo, o se si preferisce all’inizio del tempo, si sarebbe poi trovato — non lui, ma i suoi discepoli, molto tempo più tardi — a vedere le proprie affermazioni smentite dal progresso della scienza stessa. A riprova del fatto che la filosofia e la teologia non devono mai andare a rimorchio della scienza, perché la scienza è sempre in divenire, mentre la metafisica è, così come l’essere è e non diviene.
Scriveva dunque Innocenzo Taurisano nel volume San Tommaso d’Aquino, edito nella prestigiosa collana di biografie I grandi italiani diretta da Luigi Federzoni (Torino, U.T.E.T., 1941, pp. 130-131):
Ma su due problemi fissa la sua attenzione. Il primo sull’eternità del mondo, e scrive "contra murmurantes", contro i mormoratori, cioè i vecchi attaccati come ostriche alla tradizione, e colpisce in pieno, dimostrando che la sola ragione non può provare la creazione nel tempo e che il concetto di un modo eterno non ha nulla di assurdo. «A sentir loro — egli dice — quelli cioè che vedono con tanta perspicacia questo assurdo, essi soli sono veramente esseri ragionevoli, anzi con essi soli sorge l’aurora della sapienza». La superiorità di questo pensatore non gli impedì di caricare a fondo i "murmurantes" e servirli a dovere con finissima ironia.
Ma il vero fulcro della lotta, che toccava non solo il sistema suo filosofico, ma la stessa fede e l’attività finale della sua vita: di portare cioè tutto a Dio, era il problema degli averroisti: sull’unità dell’intelletto umano, che distruggeva di colpo l’uomo con la sua immortalità, la responsabilità morale, la vita futura ed il premio eterno. Era la negazione più completa, i giovani, in adorazione davanti ad Aristotele ed Averroè, volevano giungere.
La Chiesa trovò in Tommaso la spada più temprata per attaccare il sistema sullo stesso campo filosofico. Forzare il pensiero aristotelico per portarlo alla negazione voluta da Averroè era un vero sacrilegio, un’offesa alla verità. Tommaso, con la conoscenza profonda di Aristotele, lotta contro Sigieri di Brabante in un magnifico duello intellettuale, dove riscatta alla vera filosofia la sua suprema dignità, si erge fieramente a paladino della ragione, della libertà e della immoralità dell’anima; in una parola, dell’uomo intero con i suoi destini umani e soprannaturali.
E anche un altro aspetto emerge da questa prospettiva, cioè la continua preoccupazione del Dottore Angelico per il bene delle anime: il bene in senso intellettuale e il bene in senso religioso, essendo del resto le due cose di fatto inseparabili. Se una proposizione filosofica, magari male interpretata, può essere d’inciampo al cammino delle anime verso il Bene e verso il Vero, ecco che san Tommaso si affretta a chiarire, o sospende il giudizio: e offre comunque al lettore gli strumenti necessari per comprendere quale sia il suo vero pensiero, che — cristianamente – è nemico di qualsiasi ambiguità. Quale differenza abissale con i tanti, troppi minifilosofi di oggi, i quali sguazzano più che volentieri nell’ambiguità, o addirittura si fanno un vanto di seminare dubbi intellettuali e morali, come se la loro capacità di sorprendere e scandalizzare fosse la prova della loro eccellenza. Ce ne viene in mente uno fra tutti, Umberto Eco, filosofo incredibilmente monocorde e banalmente scientista, il quale ha avuto l’ardire d’impugnare proprio la questione tomista dell’eternità del mondo per arruolare il Nostro nelle schiere, se non proprio degli scettici, quanto meno dei potenziali critici della Verità cristiana. Povero Eco, il nano che vuol farsi bello con le penne del gigante; e che, come se ciò non bastasse, si permette di forzare la similitudine ai fini della sua personale filosofia: ateista, nominalista, sostanzialmente nichilista. E quanti applausi ricevono dal mondo, i minuscoli filosofi della modernità; quanto piacciono proprio per la loro costante volontà di sbalordire e sconcertare, demolendo pezzo a pezzo la meravigliosa cattedrale eretta dai giganti del pensiero medievale. La malattia della modernità, però, come si è visto, parte da lontano: covava già nel cuore del Medioevo con Abelardo, Sigieri di Brabante e Guglielmo di Occam e con la loro frenesia di novità spettacolari.
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