Rosenberg: pensieri scomodi sui quali riflettere
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30 Marzo 2021La teologia (nell’etimologia greca, il discorso su Dio) come la intendono i cattolici è un unicum che non trova riscontri nelle altre religioni. Solo in senso molto improprio si può parlare di una teologia greca e romana, perché gli dèi, nel mondo antico, non si abbassano fino all’uomo e quindi non si rivelano mai del tutto, non si fanno conoscere pienamente; perciò all’uomo non resta che speculare sulla loro natura, e la speculazione di un filosofo vale quella di un altro, ciascuno ha la sua idea soggettiva, senza un comune denominatore. Per l’islam è dubbio che si possa parlare di una vera teologia: tutt’al più esiste una teologia dogmatica, perché il Corano va letto e preso alla lettera, non c’è niente da speculare, si deve solo osservarlo in tutte le sue prescrizioni. La sola religione non cristiana nella quale esiste una robusta e antica tradizione teologica è il giudaismo, ma anche in questo caso con una grossa differenza rispetto a quella cristiana: in esso, come nell’islamismo, Dio si rivela solo ai profeti e mai in forma totalmente esplicita, meno che meno assume la dimensione umana. Perciò anche in esso permane una distanza abissale fra Dio e l’uomo, e tutto quel che può fare l’uomo è attenersi alla legge: la Torah e la Mishnah orale nell’epoca pre-cristiana, la Mishnah scritta e soprattutto il Talmud in quella post-cristiana. Il cristianesimo, da parte sua, ha sempre incoraggiato lo sforzo intellettuale dell’uomo per conoscere Dio, e al tempo stesso ha sempre vigilato affinché tale sforzo proceda di pari passo con i dati della Rivelazione e così sia d’aiuto al credente a comprendere sempre meglio i contenuti della propria fede; cosa resa più facile dal fatto che per il cristiano Gesù Cristo è Dio che si fa uomo, e quindi si rivela pienamente agli uomini (Gv 17,6-11):
6 Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me ed essi hanno osservato la tua parola. 7 Ora essi sanno che tutte le cose che mi hai dato vengono da te, 8 perché le parole che hai dato a me io le ho date a loro; essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato. 9 Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che mi hai dato, perché sono tuoi. 10 Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11 Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi.
E lo stesso concetto di una Rivelazione completa ed esaustiva Gesù lo esprime anche rivolgendosi direttamente ai suoi discepoli (Gv 15,12-17):
12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. 13 Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. 14 Voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando. 15 Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi. 16 Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. 17 Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri.
Ed ecco cosa dice a proposito dell’Inferno il gesuita spagnolo Luis Alonso Schöckel (Madrid 1920-Salamanca 1998) nel suo libro I miei occhi hanno visto la tua salvezza. Meditazioni bibliche sulla speranza (titolo originale: Esperanza. Meditaciones biblicas para la Tercera Edad, Santander, Sal Terrae, 1991; traduzione di Lucio Sembrano, Edizioni Piemme, 1991, pp. 243-245):
Ora, poiché questo fuoco dell’Antico Testamento [ad es., quello che distrusse Sodoma] è segno o simbolo del castigo escatologico definitivo, non è strano che teologi cristiani lo abbiamo incorporato alle loro speculazioni al castigo ultimo, l’inferno; ma non si giustifica una interpretazione realistica letteralistica dei simboli senza fare una critica del linguaggio.
I due aspetti descritti [il fuoco divino dal punto di vista del Giudice e da quello del colpevole] ci possono servire per una riflessione immaginativa, cioè in immagini, sul mistero del castigo finale (anche Ignazio si serve di immagini in questa meditazione).
a) L’aspetto oggettivo del fuoco che consuma ci aiuterà a sottolineare l’aspetto definitivo del castigo. Non ci sarà indulto né sospensione né interruzione del castigo. Lo strumento compirà la sua opera fino alla fine.
b) L’aspetto personale ci può aiutare a meditare sulla cosiddetta pena del danno; l’uomo finalmente conscio della necessità di unirsi con Dio per vivere per sempre, lo incontra adirato, indignato e sente con piena coscienza il terribile distacco da Dio: la sua ira accesa.
Nessuna relazione può impadronirsi dell’uomo come la relazione amichevole cin Dio: molti santi hanno dato testimonianza in vita di questa forza. L’incontro oltre la morte metterà a nudo la preoccupazione, lascerà nella carne viva l’ansia, e il desiderio resterà frustrato. Sarà un momento di un’atroce densità, indescrivibile. L’immagine del volto adirato, dello sguardo indignato, ci aiuterà nella nostra meditazione.
Passiamo al secondo punto: la durata. Nelle traduzioni latina e volgari dell’Antico Testamento, ricorre con frequenza l’aggettivo "eterno"; l’avverbio "eternamente" e i loro corrispondenti. In ebraico, la parola più frequente è "’olam, le ‘olam", da sola o composta. Il termine ha un’ampia varietà di significati, può significare duraturo, vitalizio, perpetuo e anche definitivo. La distinzione si percepisce meglio nelle costruzioni negative: non perpetuamente = provvisoriamente, temporaneamente; perpetuamente no = mai, mai e poi mai. Il significato concreto dipende dal soggetto, dal contesto: "Ti loderò per sempre" significa finché sono in vita. Ma non c’è simmetria degli opposti: una vita definitiva deve essere perpetua; una morte definitiva non sarà duratura. La distinzione concettuale tra indefinito e definitivo, ci permetterà di maneggiare e leggere molti passi dell’Antico Testamento. Il capitolo 20 dell’Apocalisse [che però appartiene al Nuovo, nota nostra] si chiude con questo paragrafo:
«La morte e l’abisso furono gettati nel lago di fuoco; questa è la seconda morte, il lago di fuoco. E chi non era scritto nel registro dei vivi fu gettato nel lago di fuoco» (20,14-15).
Al margine della riflessione biblica, possiamo pensare l’inferno o la perdizione finale come la contingenza della salvezza.
L’esistenza umana, tutta intera, è contingente, qualunque suo punto è tangente al non essere e nella misurai cui passa, cessa di essere. La morte è evidenza e consumazione dell’esistere contingente. In modo analogo, la salvezza dell’uomo è contingente, tutta intera è circondata di perdizione, e l’uomo non può forzare né assicurarsi per conto suo la salvezza; solo Dio può controbilanciare la perdizione per mantenere e consumare la salvezza. La salvezza ultima e definitiva non sarà più contingente, grazie all’azione di Dio, perpetuamente salvatore. Finché vivo, devo sentire la mia salvezza minacciata dalla perdizione, temere per me e fidare in Dio. Guardando al mio passato, posso scoprire momenti o tappe nei quali la perdizione definitiva è divenuta prossima, incombente; la sua contingenza mi si rivela ora, nel farne memoria. In quel momento o in quella tappa, Dio ha sostenuto la mia salvezza contingente. Guardando al mio passato, mi vedo ripetutamente salvato da Dio, dalla morte, per la mediazione di Cristo. Impressionato da ciò che è potuto essere, torno a guardare e a parlare con Cristo sulla croce (qui rientra il colloquio di Ignazio).
Qui l’autore conclude quelli che modestamente chiama i suoi appunti sull’Inferno, ma a noi vien fatto di chiamarli sproloqui, e passa a parlare d’altro: ha seminato abbastanza confusione nel lettore, ma soprattutto gli ha inoculato la sua brava dose di veleno; veleno omeopatico, in modo che non se ne accorga se non molto più tardi, o forse mai, e possa morire contento, col sorriso sulle labbra. Ci avete capito qualcosa, voi, di questo guazzabuglio di parole che sembrano usate allo scopo di dire e non dire, di complicare quello che è semplice e di sconcertare il cattolico in buona fede? È il tipico stile dei gesuiti, con la loro doppia verità: una per se stessi e per i cristiani colti e "adulti" (leggi: gnostici e massoni), l’altra per le persone comuni, le quali non importa se non capiscono, forse capiranno più tardi, ma in ogni caso si tratta del loro bene; quindi non è un volgare inganno ma una sapiente pedagogia della manipolazione in dosi graduali e prudenti. Il cristiano "adulto" conosce le lingue antiche, sa come si deve leggere la Bibbia, sa di quali metafore si servono gli autori del Vecchio e del Nuovo Testamento, nel loro parlare colorito; dunque lui sa meglio di chiunque altro cosa volesse realmente dire Iddio quando parlava per mezzo di quegli autori. Sa, per esempio, che per esprimere il concetto di durata infinita la parola più frequente da essi usata è olam, le ‘olam, da sola o composta; e tanto peggio per i comuni mortali che lo ignorano. Chi sa perché, ma quando una persona indubbiamente colta e intelligente si mette a parlare, o a scrivere, in maniera palesemente incomprensibile, ci accade di drizzare le antenne, come se un campanello d’allarme iniziasse a squillare nella nostra mente. Siamo troppo sospettosi? Eppure non possiamo fare a meno di chiederci: davvero costui non si rende contro che il pubblico si sente preso in giro, come Renzo dal latinorum di don Abbondio, oppure si serve di quella voluta incomprensibilità per inoculargli qualche goccia di veleno senza che se ne renda conto? Ci capita, ad esempio, quando tentiamo di leggere i numerosi e ponderosi libri di un altro teologo che ora va per la maggiore nella chiesa di Bergoglio, monsignor Bruno Forte, del quale abbiamo già parlato (cfr. Le priorità della contro-chiesa: ecologia e unioni gay, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 22/12/20); ed è la stessa cosa coi quasi 100 libri e le centinaia di articoli di Schökel.
Comunque, quel che riusciamo a capire nel guazzabuglio di sofismi sopra citato, è che: 1) per descrivere l’Inferno, gli autori biblici usano l’immagine del fuoco, ma tutto sommato è solo una metafora, per cui avrebbero potuto anche usarne un’altra (e pazienza se fior di Santi lo hanno visto, quel fuoco infernale, con tutte le anime dannate che ci cadono dentro; 2) l’esistenza umana è contingente (bella scoperta), dunque anche la salvezza è contingente (qui veramente la logica comincia a zoppicare in maniera vistosa); 3) possiamo pensare (non c’è più la dottrina, certa e oggettiva, ma c’è il soggettivismo ermeneutico) che l’inferno sia la contingenza della salvezza, continuamente minacciata e quindi piena d’angoscia e di spavento; 4) la salvezza ultima e definitiva tuttavia non può essere contingente, ma solo Dio la può dare (e qui si torna in carreggiata); 5) noi capiamo cos’è l’Inferno ripensando a tutte le volte in cui la nostra anima è stata in pericolo mortale ed è stata sempre soccorsa da Dio. Conclusione: non solo all’Inferno non c’è la pena del fuoco, ma non c’è neppure l’Inferno inteso come dannazione definitiva; infatti Schökel opportunamente ci spiega che non c’è simmetria degli opposti: una vita definitiva deve essere perpetua; una morte definitiva non sarà duratura, pertanto l’inferno, che è la morte dell’anima, non può essere perpetuo, ma solo temporaneo. Almeno un altro gesuita, Hans Urs von Balthasar, ipotizzava che l’Inferno c’è, ma potrebbe anche essere vuoto; per Schökel non c’è affatto, è solo l’angoscia che proviamo in vita davanti alla possibilità della dannazione eterna. Ma la dannazione eterna è una contraddizione in termini, Dio è troppo buono per dannare qualcuno, e così alla fine salva tutti: buoni e cattivi, pentiti e impenitenti. Questo, almeno, è quel che siamo riusciti a capire noi, spremendoci le meningi e rileggendo almeno otto volte le parole di questo celebre teologo spagnolo: così celebre, sebbene in Italia quasi nessuno lo conosca, che non appena scrive un libro, subito trova chi glielo traduce e lo pubblica da noi. Potenza proverbiale dei gesuiti. Ma no, stavamo scherzando: ciò si deve solo ai meriti evidenti del suo stile e della sua teologia. Perché lui è il classico esempio di come un biblista si fa teologo, e come da teologo gonfio di erudizione ci spiega come si deve leggere la Bibbia (e quindi qual è la nostra fede); ossia non come la leggono i preti e come l’ha sempre insegnata la Chiesa, ma con gli strumenti della filologia e della linguistica comparata, come da un pezzo hanno insegnato a fare i teologi protestanti. Come dite? Che Gesù parla più volte dell’Inferno e del fuoco che vi arde perpetuamente, ad esempio quando dice (Mt 25,41): Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli? Eh, via, non stiamo a sottilizzare troppo. Anche Gesù parlava per metafore, il fuoco è una metafora e anche l’Inferno lo è. E se non ci credete il problema è vostro, che avete così poca fede (nei gesuiti).
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI