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Avete mai notato quanto sono brutti?

Non è necessario essere discepoli in senso stretto di Cesare Lombroso – il quale vedeva una chiara connessione fra l’aspetto fisico di una persona, e specialmente i tratti del volto, e la personalità criminale – per giungere alla conclusione, sulla base non di teorie, ma della concreta esperienza di vita, che il nostro carattere, il nostro vissuto, le nostre inclinazioni, la nostra interiorità si imprimono nel nostro corpo, compreso il modo di camminare e di portare la testa sulle spalle, ma specialmente nel nostro volto e più di tutto nello sguardo. È quasi impossibile ingannare un osservatore ben esercitato: pensieri e sentimenti si stampano un poco alla volta nel nostro aspetto, modellano l’espressione, conferiscono agli occhi una luce particolare. Attenzione: non stiamo affermando che una persona interiormente bella è anche avvenente sul piano fisico: questa era l’ossessione degli antichi greci, i quali la chiamavano kalokagathia, l’idea della inseparabilità di bellezza e bontà in una stessa persona. La bellezza è fatta di armonia e giuste proporzioni, oltre che di freschezza e perciò, necessariamente, di giovinezza; ciò tuttavia non toglie che una persona possa essere non bella e neppure giovane, e avere nondimeno fascino da vendere e così pure il contrario, una persona può essere sia giovane che bella, eppure non avere neanche un po’ di fascino o qualsiasi altra forma di attrattiva, tranne forse quella che si origina dal puro e semplice istinto sessuale, senza alcun elemento un po’ meno rozzo.

Però non stiamo parlando questo. Stiamo dicendo che un’anima vile, abietta, spregevole, quasi sempre si riflette nella figura del corpo, nella postura, nel modo complessivo di porsi, o quantomeno nei tratti del viso e nello sguardo, che, come si dice da sempre, è lo specchio dell’anima. Come pure vale la regola opposta: un’anima bella, pura, innocente, generosa e disinteressata ha uno sguardo limpido e trasparente, quanto quello della persona cattiva è torbido e inquietante. Non ci sono peraltro solo la bontà e la cattiveria, ma anche la serenità e l’angoscia, la decisione e l’indecisione, la comprensione e il rancore, la pace e la disperazione: e ciascuno di tali sentimenti e stati d’animo si riflette nello sguardo e, in una certa misura, negli altri particolari dell’aspetto. Quando uno stato d’animo perdura e tende a fissarsi, diviene un sentimento; e quando un sentimento s’insignorisce dell’anima, oscurando tutti gi altri, determina il carattere. Lo sguardo e gli altri elementi del corpo rispecchiano il carattere, che è un fattore durevole, mentre è relativamente più facile mascherare gli stati d’animo passeggeri. Nessuna emozione, tuttavia, e nessuna esperienza interiore scivola via come l’acqua sul greto d’un torrente; ciascuna di esse è un piccolo mondo, un frammento di eternità che s’incide nell’anima, e vi si incide con forza tanto maggiore, quanto più profonda e ricettiva è quella persona. Una persona superficiale può vivere ripetutamente le stesse esperienze, magari anche molto forti (sia in positivo che in negativo) e tuttavia non restarne "segnata", perché non aderisce intimamente a ciò che le accade sul piano della vita concreta; mentre un temperamento sensibile riceve influssi duraturi anche da esperienze che, misurate sulla scala temporale, o comunque considerate da un punto di vista esterno e oggettivo, sono brevissime e forse in apparenza insignificanti. All’estremo opposto della persona superficiale, che non si lascia influenzare perché è troppo piena di ego, sicché non rimane spazio per nient’altro, c’è la persona spiritualmente evoluta: anch’essa passa attraverso le proprie esperienze senza lasciarsene condizionare, ma per la ragione diametralmente opposta, ossia perché ha raggiunto un tale grado di distacco dall’ego e una tale capacità di contemplazione spassionata, che pur facendo tesoro di ogni esperienza, non permette ad alcuna di dominarla e condizionarla, ma conserva sempre intatta la propria libertà interiore. E tutte queste cose, inevitabilmente, lasciano la loro impronta sul corpo, sul viso e sullo sguardo: perché lo sguardo possiede due direzioni, da un lato è l’anima che, attraverso l’occhio, guarda il mondo esterno, ma dall’altro lato è il mondo esterno che, attraverso l’occhio, guarda l’anima di quel tale individuo.

Oggi la fisiognomica viene considerata una pseudo-scienza e la cultura moderna guarda dall’alto la credulità e l’inverosimile superstizione degli studiosi dei secoli passati, che pretendevano di dedurre le caratteristiche psicologiche e spirituali di un individuo osservando i tratti del suo aspetto fisico. Il fatto che a tale pseudo-scienza si siano dedicati, con la massima serietà, due fra i più grandi geni di tutti i tempi, Aristotele e Leonardo da Vinci, non li turba minimamente. Da parte nostra, invece, che ci sentiamo molto piccoli a paragone di un Aristotele e di un Leonardo, e desiderosi d’imparare da essi, sorge il dubbio se la cultura moderna abbia avuto troppa fretta a liquidare come improbabili e assurde le teorie della fisiognomica, e ancor più le sue applicazioni pratiche; e spingiamo la nostra irriverenza fino a sospettare che sia la tanto decantata scienza moderna, intesa come sapere puramente matematico, strumentale e calcolante, ad avere in sé qualcosa di anti-scientifico, visto che non vuole prendersi il disturbo di studiare la scienza antica e magari imparare qualcosa da essa, ma pretende di distruggere ogni sapere passato per edificare un edificio totalmente nuovo. E non solamente ai lineamenti del viso e alla figura del corpo rivolgevano la loro attenzione gli studiosi di fisiognomica, ma anche alla cura del corpo e quindi all’ordine, alla pulizia, alla proprietà dell’abbigliamento: tutte cose che oggi sono considerate irrilevanti e in ogni caso non significative circa la natura intima delle persone. Cosa spiegabilissima dal momento che in pochi altri ambiti come nell’abbigliamento si è diffuso un conformismo universale, che appiattisce ogni individualità e livella qualsiasi caratteristica specificamente personale.

Ecco, per esempio, cosa pensava della sporcizia il filosofo Teofrasto, vissuto a cavallo fra il IV e il III secolo a. C., e come la poneva in relazione con un comportamento socialmente disdicevole (da: I caratteri, in Giuseppe Rosati, Scrittori di Grecia, Firenze, Sansoni Editore, vol. 2, Il periodo attico, pp. 868-869):

La sudiceria è trascuranza del proprio corpo capace di produr fastidio, e il sudicione suppergiù un tale che va in giro con addosso lebbra e croste bianche e con le unghie nere, e racconta che questi sono per lui incomodi di famiglia, perché, prima di lui, li avevano già il suo babbo e il suo nonno, e che non è facole insinuarsi di straforo nella loro prosapia. Evidentemente egli è capace di avere piaghe negli stinchi e scorticature nelle dita dei piedi e, piuttosto che curarle, di lasciarle divenire maligne, e di tenersi le ascelle tutte coperte di peli, come una bestia, fin giù per un buon tratto delle costole, e di ve ei denti neri e tutti mangiati, [sì da riuscir disgustoso a starci insieme e ributtante].

E simili particolarità: soffiarsi il naso a tavola [com’è probabile, non con il fazzoletto, n. d. trad.]; grattarsi mentre sacrifica; schizzare con la bocca, mentre conversa; ruttare tra il bere; mettersi a letto con la moglie senz’essersi lavato; ungersi nel bagno pubblico con olio rancido; uscire in piazza con addosso una camiciola grave e un abito leggerissimo e pieno di macchie.

E, mentre la mamma è avviata dall’indovino, profferisce parole di malaugurio. E, mentre stanno dicendo la preghiera e libando, getta via la sua coppa e dà in uno scroscio di risa, quasi avesse compiuto una prodezza mirabile. E, assistendo a un’audizione di flauto, solo fra tutti batte il tempo con le mani e accompagna l’istrumento a voce spiegata, e chiede con aria di rimprovero alla flautista, perché abbia smesso così presto. E, volendo sputare di là dalla tavola, sputa in faccia al coppiere.

Per quanto colorito e, a suo modo, pittoresco, questo ritratto dello sporcaccione (anche nell’italiano moderno è passato nella parola il senso prioritario di sporcizia morale, che si sovrappone a quella materiale) non brilla per acutezza psicologica, e soprattutto non approfondisce l’aspetto filosofico insito nella teoria fisiognomica: che il corpo e lo sguardo sono il riflesso della personalità e della vita interiore. Inoltre Teofrasto passa in rassegna una serie di caratteri — oltre al sudicione, ci sono lo spilorcio, l’adulatore, il chiacchierone, il selvatico, il maleducato, il sospettoso — tutta una galleria a tratti spassosissima e perfino esilarante — colti nella loro individualità e posti un po’ meccanicamente sul palcoscenico della società ateniese, ove spiccano come dei barbari piovuti da contrade remote. A noi pare invece che molto abbia da insegnarci i caratteri umani, messi in rapporto con l’aspetto esteriore, se colti nella loro universalità, non come tipi strani, ma come figure abituali del paesaggio umano nel quale ci muoviamo; e al tempo stesso colti nella relazione logica e necessaria con la società da cui provengono e nella quale si muovono per lo più disinvoltamente, con l’aria di trovarcisi benissimo, tanto meglio quanto più cialtroni e sfrontati — un po’ meno bene quelli che, formati sui sani valori del buon tempo antico, devono subirne ogni giorno la presenza e la prepotenza. Infatti questo non è un momento storico come tanti altri, ma un momento di svolta radicale: mai come oggi l’umanità si è trovata di fronte a un cambiamento così rapido e così totale. È logico, pertanto, che anche il paesaggio umano muti con straordinaria velocità: nell’arco di una sola generazione è già possibile osservarne parecchie varianti, al punto che un diciottenne, oggi, stenta alquanto a riconoscere il se stesso di dieci anni prima nei bambini di adesso. Non è cambiata solo la tecnologia, ma tutto il modo di sentire, di pensare e di vivere, perché la tecnologia, quando viene usata in maniera indiscriminata, come avviene allorché si mette un telefonino cellulare nelle mani di un bambino di sei anni, ha il (malvagio) potere di far sì che le persone non siano più loro. Altro esempio: date le chiavi di una Ferrari all’ometto più mite e prudente di questo mondo; ditegli che può servirsene per andare dove vuole, e vedrete che non solo il suo modo di guidare, ma proprio tutto il suo essere subirà una trasformazione radicale e pressoché immediata. Inebriato dalla velocità e dal senso di potenza che ne ricava, diverrà impaziente nei confronti delle altre auto che viaggiano più lente, per non parlare dei ciclisti o dei pedoni che vogliono attraversare la strada. Tale trasformazione non è automatica, ma riguarda il novantacinque per cento delle persone; per rimaner se stessi, almeno sino a un cero punto, in circostanze così mutate, bisogna essere veramente persone ben centrate in se stesse, che non s’identificano con gli strumenti dei quali dispongono. E persone cosiffatte, ormai, ne nascono sempre meno. Da ciò la caratteristica fragilità dell’ego degli uomini odierni: basta un niente a dar loro ombra, perché hanno pochissima autostima. Sanno, nel profondo, di valere poco, ed è per questo che sono smaniosi di apparire più di quel che sono.

Ma torniamo alla fisiognomica e alla lezione di Teofrasto. Il mondo di oggi ha creato un ambiente sociale particolarmente adatto agli arrivisti, ai presuntuosi, ai ciarlatani, ai narcisisti, agli spudorati, ai viziosi e ai disonesti: è un mondo nel quale i nostri nonni si troverebbero gravemente a disagio e forse desidererebbero uscirne, con la morte — che a loro non faceva la stessa paura che fa agli uomini d’oggi, perché avevano l’immensa risorsa della fede, e la vedevano come il desiderato ritorno a Dio – il più presto possibile. Si pensi alla politica, ma anche alla magistratura, al giornalismo, alla medicina, alla docenza universitaria; si pensi soprattutto all’economia e alla finanza, specie a quest’ultima, divenuta il cancro che divora i tessuti vivi della società e si gonfia mostruosamente, come una sanguisuga gonfia di sangue: i tipi umani caratteristici di tali ambiti sono fisicamente riconoscibili dal modo di porsi, dai tratti del volto, dalla mimica facciale, dallo sguardo nel quale si leggono un’immensa avidità, un’astuzia perversa e una totale mancanza di scrupoli. Chi non è così non fa carriera, e quindi non lo si vede, non compare, non svolge un ruolo di primo piano. Poiché non vogliamo fornire ulteriori armi al nemico, che ne ha già tante per ridurci al silenzio, non faremo nomi e cognomi: domandiamo a chi ci legge o ci ascolta d’immaginare lui stesso, come assistesse a un filmino, i volti dei personaggi corrispondenti alle varie categorie. Provi a immaginare il volto e lo sguardo del giudice dalla faccia di tonno, del politico cialtrone, del giornalista venduto, dell’intellettuale arrogante, dello scrittore saccente e progressista, del cantante stralunato, dell’attore o dell’attrice narcisista (e satanista). Provi a immaginare i volti dei responsabili della politica, della pubblica amministrazione e soprattutto della sanità, i quali ci hanno chiusi in casa, costretti a fermare gli esercizi commerciali e obbligati a girare con la mascherina, come fossimo banditi, e a mettere la mascherina ai nostri bambini di sei anni, per tutte le ore che devono stare a scuola. Osservate bene le loro facce, le loro espressioni, la luce dei loro occhi. E gli occhi di un signore biancovestito che dice di essere il capo spirituale di oltre un miliardo di persone: osservateli quando ride, sfilando la mano dalle dita dei fedeli che vorrebbero baciargli l’anello, oppure quando si gira infuriato perché, nella folla, qualcuno gli ha tirato il braccio o la veste, per richiamare la sua attenzione. Guardate bene quei tratti, quello sguardo. Cosa vedete in tutti quei volti, in quelle espressioni, in quei sorrisi, in quelle bocche, in quegli occhi? Gesù dice che dove c’è il tesoro di un uomo, lì c’è anche il suo cuore (cfr. Mt 6,21). Ebbene: dov’è il tesoro di tutti costoro?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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