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Il “caso” William Joyce, o la vendetta dei vincitori

Uno dei tanti miti tramandati dalla storiografia sulla Seconda guerra mondiale è che nei Paesi dell’Asse si verificò ogni sorta di violazione dei diritti dell’uomo nel quadro di un’offensiva politica volta a predisporre le popolazioni all’instaurazione dell’Ordine Nuovo nazista e fascista, mentre nulla del genere si sarebbe verificato nello schieramento alleato, o quantomeno — essendo risultato impossibile negare ostinatamente i crimini di Stalin — nei Paesi democratici. Abbiamo provato a mostrare in una serie di scritti, non per un atteggiamento ideologico preconcetto, ma per rendere un servizio alla verità, che si tratta, appunto, di un mito di cartapesta: in particolare trattando i casi specifici e circostanziati dei processi intentati a freddo dai vincitori contro personaggi come Drieu La Rochelle, Mario Appelius, Carmelo Borg Pisani, Knut Hamsun e molti altri (cfr. in particolare: Drieu e gli altri, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 17/11/17; Stampa: il vizio d’origine c’è, e si vede, il 07/11/18; Gli intellettuali italiani alla svolta dell’8 settembre: non avevano capito nulla, oppure fin troppo?, il 16/07/19; Ricordare Carmelo Borg Pisani, patriota maltese impiccato dalla democratica Inghilterra, il 12/12/17; «Io, traditore»: il testamento spirituale di Knut Hamsun, e Patriota o traditore? Il processo a Knut Hamsun, rispettivamente il 17/12/17 e il 23/12/17).

In questa sede parleremo brevemente della vicenda di un patriota irlandese la cui memoria è andata ormai pressoché perduta, un po’ come a Malta quella di Borg Pisani: William Joyce (Brooklyn, 24 aprile 1906-Londra, 3 gennaio 1946), che portava lo stesso cognome del celebre scrittore, autore dei Dubliners e di Ulysses. Egli non fu mai cittadino britannico, perché nato negli Stati Uniti da genitori naturalizzati americani; aveva solo un anno quando venne fondato il partito nazionalista irlandese, il Sinn Fein, e 10 anni quando Dublino insorse nella tragica Rivolta di Pasqua del 1916 e i rivoltosi vennero repressi con durezza spietata dalle autorità britanniche. Come è noto, la Repubblica d’Irlanda nacque, fra penose vicende che a un certo punto sfociarono in una vera e propria guerra civile, con il patto di Londra del 6 dicembre 1921, senza però le sei contee dell’Ulster a maggioranza protestante, che rimasero legate al Regno Unito (e senza Londonderry che solo grazie ad una manipolazione dei dati demografici poté essere esclusa dallo Stato Libero d’Irlanda). Ciò lasciò molto insoddisfatti i nazionalisti radicali, i quali considerarono quasi un tradimento l’avere accettato l’indipendenza in simili condizioni, e continuarono a vedere la Gran Bretagna come un Paese nemico occupante. In questo clima maturò la coscienza politica di William Joyce, sebbene, come si è detto, egli non fosse nato in Irlanda e non fosse cittadino britannico (né, dopo il 1921, irlandese). La sua famiglia era tornata in Irlanda e lui aveva studiato presso il collegio dei gesuiti a Galway; in seguito si erano trasferirti tutti a Londra, perché il padre, benché irlandese e cattolico, era un leale suddito britannico e non condivideva assolutamente la causa indipendentista. A Londra il giovane Joyce si avvicinò, negli anni fra le due guerre mondiali, ai movimenti di estrema destra in ascesa, e dal 1932 militò attivamente e rumorosamente nel British Union of Fascists di Sir Oswald Mosley. Qualche tempo prima, quando ancora era iscritto al partito Conservatore, aveva ricevuto un tremendo colpo di rasoio durante uno dei numerosi tafferugli di strada fra gruppi degli opposti estremismi, che gli lasciò una vistosa cicatrice lungo tutta la faccia, dalla bocca fino all’orecchio. Per qualche tempo Joyce fu il più stretto collaboratore di Mosley, ma dopo l’avvento al potere di Hitler, nel 1933, si allontanò da lui perché spostò le sue simpatie dall’Italia di Mussolini alla Germania nazista e aderì anche all’antisemitismo da essa predicato. A quel punto Joyce, che conservava la cittadinanza americana, era più un irlandese con idee di estrema destra, affascinato dalla prospettiva di un Nuovo Ordine Europeo sotto l’egida di Hitler e Mussolini, che un nazionalista irlandese impegnato a rivendicare l’annessione dell’Ulster allo Stato dell’Eire e la totale autonomia di quest’ultimo dal Commonwealth. È importante precisare questo punto, che lo accomuna ad altri personaggi di quasi tutti i Pesi d’Europa, per inquadrare correttamente le successive vicende della sua vita movimentata.

Uscito nel 1935 dal movimento fascista di Mosley per insormontabili contrasti con il capo, due anni dopo, nel 1937, Joyce fondò un proprio movimento, la National Socialist League (che richiamava anche nel nome l’ispirazione filo-nazista) invero con pochissimo seguito, nonostante la sua focosa partecipazione a tutti i comizi e a tutti gli scontri di piazza, che ne fecero una figura caratteristica e tuttavia marginale nella politica britannica degli anni immediatamente precedenti lo scoppio della Seconda guerra mondiale. Nell’agosto del 1939, appena pochi giorni prima dell’attacco tedesco alla Polonia e della dichiarazione di guerra anglo-francese alla Germania, Joyce si trasferì in questo Paese, appena in tempo prima che le frontiere venissero bloccate: l’anno prima aveva chiesto e ottenuto un passaporto britannico, asserendo falsamente di essere cittadino del Regno Unito. Come vedremo, quest’ultimo fatto gli sarebbe poi costato la vita. A Berlino le autorità naziste gli offrirono la direzione di una trasmissione radiofonica in lingua inglese destinata alla propaganda di guerra, intitolata Germany Calling, che egli accettò e che condusse per cinque anni, il che lo mise in una posizione analoga a quella del grande poeta americano Ezra Pound, impegnato a sostenere via radio la causa del fascismo italiano contro i suoi connazionali. La trasmissione provocò scalpore e, ovviamente, molto risentimento in Gran Bretagna, e un giornalista, Jonah Barrington, gli affibbiò il nomignolo spregiativo di Lord ah ah, ovvero Signor Sghignazzata, per il suo modo di parlare e per la veemenza ironica con cui inveiva contro il nemico. E anche questo soprannome contribuì a demonizzare Joyce e a costruire di lui l’immagine di un individuo moralmente spregevole, il che avrebbe avuto il suo peso nella vicenda del processo al termine del quale sarebbe stato condannato a morte. I servigi da lui resi alla Germania di Hitler non andarono oltre la conduzione del programma radiofonico, anche se ciò gli valse l’attribuzione della Croce di guerra di prima classe al merito di guerra da parte dei nazisti.

Joyce a suo modo era un idealista e rimase fermo al suo posto sino alla fine: la sua ultima trasmissione radio andò in onda il 30 aprile del 1945, quando sia Mussolini che Hitler erano già morti e i russi stavano penetrando nel cuore di Berlino. Nel corso degli ultimi giorni aveva cercato di richiamare gli Alleati alla necessità di fare fronte comune con la Germania per contenere l’avanzata minacciosa dell’Armata Rossa nel cuore dell’Europa, ossia la stessa linea che alcuni capi nazisti cercarono di imprimere alla politica tedesca in quella tormentata primavera del 1945, e che lo stesso Führer aveva accarezzato fra sé e sé, pur senza concretizzarla con precise proposte politiche (che sarebbero state del tutto inutili visto che fin dalla conferenza di Casablanca del gennaio 1943 gli Alleati avevano posto la resa incondizionata delle potenze del Patto Tripartito come condizione imprescindibile per l’apertura di qualunque negoziato). Ironia della sorte per l’antisemita Joyce, fu un soldato tedesco di origini ebraiche, combattente nelle forze armate alleate, a riconoscerlo e a provocarne la drammatica cattura: mentre egli infilava la mano sotto la giacca per estrarre il passaporto britannico, il suo gesto venne interpretato in senso ostile e gli spararono addosso, ferendolo quattro volte, ma non mortalmente (cfr. The heroes of Churchill’s German Army tells their stories, in https://www.thesun.co.uk/topic/features/). In seguito, fallito anche un tentativo di trasferirsi in Danimarca, vene nuovamente riconosciuto e arrestato da agenti dei servizi segreti britannici a Flensburg, presso la frontiera, e tradotto come prigioniero di guerra in Inghilterra, a Londra, dove rapidamente venne istruito il processo contro di lui. I capi d’accusa erano tre: alto tradimento, lesa maestà e vilipendio alla Corona: illegittimi tutti e tre, per la semplice ragione che non si trattava di un suddito britannico. Tuttavia le autorità inglesi volevano fargliela pagare, e il procuratore generale Sir Hartley Shawcross (1902-2003), già consigliere del re e presidente dell’Enemy Aliens Tribunal, il tribunale contro i cittadini stranieri, colui che in seguito avrebbe rappresentato la Gran Bretagna al Processo di Norimberga, fondò la sua richiesta della pena capitale con l’asserzione che Joyce, chiedendo nel 1938 il passaporto britannico e mentendo sulla propria nazionalità, si era reso comunque colpevole di condotta sleale e fraudolenta nei confronti della Corona e del governo britannico, i quali, concedendoglielo, gli avevano offerto la loro protezione. La Camera dei Lord, cui spettava la ratifica, in considerazione delle notevoli anomalie giuridiche avrebbe potuto opporsi alla sentenza, ma non lo fece, per cui essa venne eseguita immediatamente, il 3 gennaio 1946, mediante impiccagione.

La vicenda è stata riassunta in modo sintetico, ma completo e obiettivo, da Alan John Percival Taylor (1906-1990) – probabilmente lo storico inglese più obiettivo fra quelli della scuola politicamente corretta (e quindi escludendo figure come quella di David Irving), ad esempio riconoscendo che furono gl’inglesi, e non i tedeschi, a iniziare i bombardamenti aerei indiscriminati sulle popolazioni civili) – nella sua Storia dell’Inghilterra contemporanea (titolo originale: English History 1914-1945, Oxford University Press, 1965; traduzione dall’inglese di Lucia Biocca Marghieri, Bari, Laterza, 12975, vol. 2, pp. 635-636 e 656-657):

I tedeschi combatterono la guerra politica [=radiofonica] con altrettanto scarsi successi [dei britannici]; William Joyce, il loro principale oratore in lingua inglese alla radio (noto come "Lord ah! ah! Per il suo modo di parlare) suscitava ilarità, non paura, anche se questo non gli impedì di essere condannato a morte, alla fine della guerra, in base a prove artificialmente fabbricate. (…)

Joyce era nato a New York. Suo padre era naturalizzato cittadino Americano. Joyce non ebbe mai la cittadinanza britannica benché avesse trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra e fosse un patriota fanatico [irlandese]; divenne un fascista per cui Sir Oswald Mosley, il "sanguinario", era troppo moderato. Nel 1938 Joyce chiese e ottenne un passaporto britannico, affermando, falsamente, di essere cittadino britannico Nell’agosto 1939 rinnovò questo passaporto per un anno e si recò in Germania. Nel settembre 1940 ebbe la cittadinanza tedesca. Dal momento che Joyce non era mai stato cittadino britannico, sembrava al riparo dall’accusa di alto tradimento. Si affermò tuttavia che Joyce aveva ricercato la protezione della Corona prendendo un passaporto britannico, e che perciò era in obbligo di fedeltà finché ne rimaneva in possesso. Persino su una base così poco convincente l’accusa contro Joyce non fu provata. Non si riuscì a dimostrare che egli aveva conservato il passaporto una volta in Germania, anche se probabilmente lo fece; né fu prodotta alcuna prova convincente che egli parlasse alla radio tedesca nel periodo di validità del passaporto. Da un punto di vista tecnico, Joyce fu impiccato per aver affermato il falso quando aveva richiesto il passaporto, reato per cui è prevista in genere una piccola multa. La sua vera colpa consisteva nell’essersi attirato la mitica reputazione come "Lord ah! Ah!". La maggior parte delle trasmissioni attribuite a Joyce non erano state fatte veramente né da Joyce né da nessun altro. In nessuna trasmissione tedesca, per esempio, furono mai dati i nomi delle città inglesi che la "Luftwaffe" avrebbe bombardato la notte seguente, né si affermò che l’orologio di Banstead era in ritardo di dieci minuti. Queste leggende erano opera della guerra psicologica.

Le trasmissioni radio dalle stazioni nemiche produssero altri scopi di isterismo. Il romanziere P. G. Wodehouse fu catturato dai tedeschi ed internato. Egli fece un allegro discorso alla radio tedesca descrivendo la vita del campo di internamento (dove continuò a scrivere romanzi in condizioni difficili. I tedeschi lo liberarono quando compì i 60 anni ed egli tornò in Francia. Alla liberazione, si dette ordine di arrestarlo e rimandarlo in Inghilterra per subirvi un processo. Un ufficiale di buon senso del servizio segreto britannico lo protesse finché non si poté farlo passare clandestinamente in Svizzera. Ma per alcuni anni gli editori inglesi cercarono di evitare di pubblicare i romanzi di Wodehouse, che non ritornò mai nel suo paese natale.

La vicenda pressoché dimenticata di William Joyce è ancora oggi una pagina scottante nella storia dell’Inghilterra contemporanea, e ad A. J. P. Taylor va reso atto dell’onestà e dell’imparzialità con cui l’ha trattata in uno dei suoi libri più noti, sdegnando, come suo costume, le critiche del pubblico e le perplessità dei suoi colleghi. Dal punto di vista giudiziario, si è trattato più o meno di un assassinio legalizzato, e ciò ne fa un nervo sempre scoperto per un sistema giudiziario che di scheletri nell’armadio, anche recenti e recentissimi, ne ha diversi, come la Domenica di Sangue a Derry del 30 gennaio 1972, nella quale persero la vita quattordici cittadini inermi sotto il fuoco dell’esercito britannico. Tuttavia la ragione più profonda per cui è scomodo parlare di William Joyce, anche al di fuori della storiografia britannica, è un’altra: quella vicenda, infatti, suggerisce che non furono poi così pochi, nell’Europa di settanta anni fa, a scegliere di schierarsi dalla parte dell’Asse e del Nuovo Ordine Europeo. E questo non solo, e non sempre, per una particolare simpatia nei confronti di Hitler e del nazismo, né per una forma di parossismo nazionalista o di delirio razzista, ma perché la verità è che, a quell’epoca, non esistevano, come poi si è voluto far credere e si è seguitato a raccontare, due schieramenti nettamente distinti, quello del Bene contro il Male, ma una situazione assai più sfumata e complessa. Una situazione nella quale le ideologie che si contendevano il mondo erano tre, la fascista (con la variante nazista), la comunista e la liberal-capitalista; che nessuna delle tre era senza macchia e nessuna, forse, era totalmente cattiva, ma ciascuna di esse conteneva degli elementi parzialmente validi e suscettibili di sviluppi postivi; ma che tali possibilità di evoluzione abortirono di fronte alla ferocia di uno scontro spietato, senza quartiere, dettato più che da quelle ideologie e dai rispettivi governi, dalle forze oscure della finanza che agivano da dietro le quinte, e si servivano dei vari Paesi come di altrettanti pedine nella loro personale partita per la conquista del mondo. Tutte cose delle quali è scorrettissimo parlare, specialmente oggi che quelle stesse forze oscure sono passate alla fase finale del loro progetto d’instaurazione del Nuovo Ordine Mondiale, servendosi non più di guerre convenzionali e di confitti armati fra gli Stati, ma di crisi finanziarie pilotate dall’alto, virus, pandemie dichiarate ma non accertate, terrore mediatico e totalitarismo sanitario imposto per legge con il pretesto di salvaguardare la salute e la vita dei cittadini.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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