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4 Marzo 2021Nella settima novella della Ottava giornata del Decameron, Giovanni Boccaccio, per bocca di Pampinea (e sotto il reggimento di Lauretta) narra la storia di uno studente che, tornato a Firenze da Parigi, s’innamora perdutamente di un bella vedova, la quale finge di ricambiare i suoi sentimenti per poi beffarlo crudelmente. Lo invita infatti a convegno nei giorni di Natale, una sera freddissima e nevosa, ma con un pretesto lo tiene in attesa nel cortile, facendo in modo che non possa uscirne e adducendo che la visita improvvisa di un fratello le impedisce di farlo entrare, ma che spera di infine di liberarsi e poterlo ricevere. Lo studente è mezzo congelato e va su e giù per tutta la notte, nel vano tentativo scaldarsi, mentre lei, da una piccola finestra, osserva la scene ne gode insieme a un suo giovane amante, con il quale si burla del malcapitato fra una seduta amorosa e l’altra. Di primo mattino, una serva impietosita apre il portone e permette allo studente di andarsene, più morto che vivo per il freddo; tornato a casa, questi deve mettersi a letto e far chiamare un dottore, restando in pericolo di vita per diversi giorni. Infine, guarito, decide di simulare di aver perdonato alla donna l’atroce beffa che gli ha giocato, e nei mesi seguenti trova il modo di riavvicinarsi a lei, che frattanto è stata abbandonata dal suo amante, e divenire suo amico e confidente. Alla fine, nel colmo dell’estate, in una giornata caldissima, riesce ad avere la vendetta lungamente accarezzata: ricambia la vedova della stessa moneta, la attira sul tetto di una cascina isolata in campagna, togliendo poi la scala, ove per tutto il giorno la disgraziata è tormentata dalla calura, delle mosche e dalle zanzare, dalla fame e della sete, e ridotta quasi alla disperazione, prima di potersi togliere da quella penosissima situazione. Lo studente ora può gioire e complimentarsi per se stesso: nascondendo il suo rancore e il suo desiderio di vendetta, è riuscito a cogliere la donna impreparata e a farle passare delle pene simili a quelle che aveva sofferto lui, con in più la volutà di averla udita pregare e supplicare, invocando invano compassione da lui, cosa che ha reso ancor più dolce e pieno il suo senso di appagamento.
Boccaccio ha rappresentato perfettamente tre sentimenti tipici dell’uomo spiritualmente poco o nulla evoluto: nella donna ha rappresentato la vanità unita al gusto di stuzzicare senza concedersi, anzi facendosi malignamente beffe di colui che la desidera; nello studente l’odio che nasce dalla sofferenza e dalla frustrazione, e la fredda volontà di vendicarsi, perseguita con la dote di una eccezionale capacità di simulazione, fino al punto di farsi credere amico dalla persona alla quale vuole causare il massimo danno. Sono entrambe nature primitive, egoiste, superficiali: e delle due la meno scusabile è lo studente, perché, avendo il dono dell’intelligenza e in più il vantaggio della cultura, da lui ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di meglio che una vendetta tanto raffinata quanto sadica; invece tutto quel che sa fare, dopo anni di studio nella più celebre università d’Europa, è mettersi sullo stesso piano egoico della donna che lo ha offeso e fatto soffrire più per stupida vanità e desiderio di compiacere il suo amante, che per cattiveria pura e semplice. Colpisce anche il fatto che verso il 1350, quando compone il Decameron, Boccaccio attribuisce ai suoi personaggi sentimenti così primitivi, del tutto privi di riflessione e spiritualità, come se oltre un millennio di cristianesimo fosse trascorso invano e la morale cattolica, con l’esortazione al perdono, fosse scivolata via senza lasciare alcuna traccia. Anche ammettendo che nella costruzione dei personaggi e delle storie entra più di quel che non sembri lo schema letterario del teatro classico, coi suoi intrecci obbligati e le sue schematizzazioni caratteriali, resta il fatto che a metà del XIV secolo, in quello che Johan Huizinga chiama l’autunno del Medioevo, ma pur sempre in pieno Medioevo, la nascente cultura umanistica ha già spazzato via quella cristiana, come se quest’ultima non fosse mai esistita; invano si cercherebbe, in questa novella o in qualsiasi altra del Decameron, qualche sia pur pallido riflesso del modello evangelico. Il gusto della beffa, spinta fino al limite estremo della crudeltà, non solo domina la psicologia dei personaggi, ma spegne in essi qualsiasi umanità e senso di umana fratellanza. Se pure imparano qualcosa dalle loro disavventure, come in questo caso la donna, ciò deriva solo dalle pene che hanno sofferto, e dalla paura di provarne di simili in futuro, non da una vera interiorizzazione di quanto hanno vissuto e tanto meno da una riflessione che stimoli in loro un processo di maturazione e di auto-consapevolezza.
Si può leggere la novella del Decameron in controluce, come un riflesso, o, se si preferisce, come un’anticipazione dell’atteggiamento tipicamente moderno dell’uomo nei confronti della vendetta. Forse la più grande novità portata dal cristianesimo è stata la lotta contro il sentimento della vendetta: una lotta condotta su due fronti, contro la tradizione ebraica basata sulla legge del taglione, codificata anche da Mosè e dal Pentateuco (occhio per occhio, dente per dente) e contro la tradizione pagana, basata sulla legge delle pura forza, sia pure in qualche modo regolata dal diritto romano: il più forte prende tutto e può ridurre in schiavitù il nemico vinto, che, da parte sua, perde qualsiasi diritto, anche quello alla pietà. Si pensi al duello finale tra Ettore e Achille, nell’Iliade: non solo Achille respinge la richiesta del troiano morente di rendere il corpo al suo padre, Priamo (anche se più tardi, ma in un diverso contesto psicologico, muterà parere e accetterà il riscatto), ma si cruccia perché non può sbranarne lui stesso le carni, come una bestia feroce, dato che solo così potrebbe placare l’odio che nutre verso di lui a causa dell’uccisione di Patroclo. È il desiderio di vendetta ad alimentare quell’odio: un desiderio di vendetta che non si placa neppure coi grandiosi funerali celebrati per l’amico, e col sacrifico umano dei dodici giovinetti troiani sgozzati ai piedi della pira; e che per poco non provoca altre morti, poiché i guerrieri greci impegnati nei ludi funebri arrivano spesso a sfiorare l’estrema violenza reciproca, pur di vincere e aggiudicarsi i premi. Dunque per l’uomo antico la vendetta è sacra, così come lo è, sia pure in una diversa prospettiva, ossia una prospettiva religiosa, per gli ebrei: è Gesù Cristo che porta il sentimento dell’umana pietà e la capacitò di perdonare in mezzo a un mondo così feroce e spietato: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno, arriva a pregare mentre già gli stanno perforando i polsi e i piedi per appenderlo alla croce. Ora si direbbe che la civiltà moderna, proprio perché fondata sull’umanesimo, anzi sull’antropocentrismo, abbia ripreso la concezione pagana della vendetta come risposta alle offese: e non è che uno dei tanti aspetti del neopaganesimo che la caratterizza, a tutti i livelli della vita pubblica e privata (uno dei quali, sia detto per inciso, è il ritorno in grande stile della magia nera, della stregoneria e del culto dei demoni). Il che equivale anche ad un riallineamento con la cultura dell’ebraismo e con quella dell’islamismo, le quali sono rimaste ferme alla morale mosaica e ignorano quella di Cristo. I cattolici fautori dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso a tutto campo, ideologicamente figli della Nostra aetate e della Dignitatis humane, non lo sanno e non se ne rendono conto, ma la verità è che, sul terreno della morale pratica, ormai c’è poca differenza fra i seguaci delle tre religioni del Libro, proprio perché i cristiani, in quanto uomini moderni e non già in quanto cristiani (visto che il concetto di un cristianesimo moderno è un non senso) sono ritornati di fatto su posizioni analoghe a quelle del mondo precristiano, e dunque hanno smarrito appunto l’essenza della loro fede, quel quid assolutamente specifico e irriducibile che fa del Vangelo un unicum nel panorama delle diverse visioni del mondo, con i rispettivi codici morali. Ed è logico che sia così: non è forse impegno costante del clero progressista e dei teologi post-conciliari quello di smorzare tutto ciò che nel cattolicesimo è differenza, per sviluppare e celebrare al massimo quel che invece lo accomuna alle altre fedi e alle altre culture, sempre in nome del dialogo, dell’accoglienza e dell’inclusione (a senso unico)?
«Ma dunque», obietteranno i nostri critici, «che avrebbe dovuto fare lo studente, dopo essere stato così amaramente e gratuitamente beffato dalla bella vedova? Che dovrebbe fare l’individuo che è stato offeso, che ha ricevuto un danno intenzionale, che ha patito una crudele ingiustizia da parte di un altro? Deve forse tenere dentro di sé la propria rabbia impotente, col risultato di consumarsi nella frustrazione e, alla fine, nella depressione? La vendetta non è forse il mezzo per spegnere le fiamme del risentimento e nello stesso tempo ristabilire la giustizia oltraggiata, rendendo al malvagio la stessa moneta che ha dato al prossimo? E se agire in tal modo significa non tener conto del Vangelo, ebbene, pazienza: vuol dire che il Vangelo punta troppo in alto e non tiene conto della natura profonda degli esseri umani. Inoltre, per dirla tutta, c’è anche una punta di viltà nel rifiuto di volersi vendicare; vi è dell’auto-disprezzo, come in fondo bene aveva visto il vecchio Nietzsche. Perché chi non sa farsi giustizia da sé, sa di non esser degno che gliela rendano altri, e dunque merita di essere trattato come uno schiavo, che, preso a calci, non si sogna neppure di accennare un gesto di ribellione». Per rispondere a questo tipo di obiezioni, sin troppo frequenti anche fra i cattolici, e che mostrano quanto essi non si siano mai dati la pena di approfondire le ragioni della morale evangelica, bisogna anzitutto fare chiarezza sul piani linguistico: non che si possano risolvere i problemi con le sole parole, ma è importante che le parole chiariscano adeguatamente i concetti. La vendetta è una cosa e la giustizia è un’altra. Chi dice che il cristiano è un debole e forse un vile, perché rifiuta di vendicarsi, non considera che ciò di cui sta parlando non è la giustizia, ma la vendetta: e che la vendetta sta alla giustizia come una palude miasmatica e fangosa sta ad un limpidissimo e salubre laghetto di montagna. Vi è molto di torbido e di fangoso nella vendetta, perché è fatta della stessa sostanza di cui è fatta l’offesa ingiusta: colui che ha subito un’ingiusta offesa medita di rendere la pariglia all’offensore. Ciò dimostra che i due individui in realtà si somigliano: stanno sullo stesso piano di consapevolezza spirituale, vale a dire su un piano molto, molto basso. La bella vedeva che trae piacere nel far soffrire lo studente innamorato, quando potrebbe godersi il proprio amante senza nuocere ad alcuno, sta su un piano morale e spirituale molto basso; ma lo studente che cova per mesi la vedetta e intanto nasconde i propri sentimenti, e riesce a fingere così bene di averla perdonata da conquistarne l’amicizia, sta su un piano identico, se non perfino più basso. Da una parte, la crudeltà gratuita; dall’altra, una diabolica capacità di dissimulazione: ed entrambi non hanno di mira che una cosa, per vie diverse: la gratificazione illimitata del proprio ego. La persona spiritualmente non evoluta è schiava dell’ego e delle sue passioni: il desiderio e il timore. Sempre desidera o teme qualcosa; non è mai in pace con se stessa, non poggia mai sopra una base solida, perché non ha un baricentro interiore. Fluttua e vaga qua e là, dove la portano le sue passioni disordinate: la brama e il timore. Vuole afferrare tutto il piacere possibile, a qualsiasi costo, e al tempo stesso vuole scansare qualunque tipo di male, come se nella vita non vi fossero anche dei mali necessari, che poi sono i passaggi dolorosi, ma obbligati, per la crescita spirituale.
Dicevamo che la vendetta è cosa ben diversa dalla giustizia, perché a volerla è colui che è stato offeso; ma colui che è stato offeso ben difficilmente possiede l’equilibrio necessario per giudicare le cose con serenità. Se i giudici fossero quelli stessi che hanno subito ingiustizia, si può stare certi che userebbero la massima severità, senza mai considerare le circostanze che in qualche misura possono attenuare la colpa di chi li ha offesi, e fra le quali può esserci stato un comportamento leggero e imprudente da parte loro. Infatti nelle società civili chi esercita la giustizia è un terzo, di solito lo Stato; nel caso della religione cattolica è sempre Gesù Cristo, che parla, assolve o non assolve per mezzo del sacerdote che a Lui è stato consacrato legittimamente, e che, in quel momento, agisce come fosse un alter Christus. Dunque non è vero che il cristiano è un debole e un vile: al contrario, è un forte; talmente forte da aver superato le passioni disordinate dell’ego, da aver crocifisso il proprio io vecchio, sul modello di Gesù Cristo, per vestire il nuovo io, che è fatto di abbandono totale e incondizionato alla Sua volontà. «Mia è la vendetta, dice il Signore; non giudicare il tuo fratello per non essere giudicato con la stessa misura. E rimetti a noi i nostro debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori». Pertanto, il cristiano non è un individuo che rinuncia a ristabilire la giustizia; al contrario, si batte per la giustizia, ma sa che egli, quando è parte direttamente in causa, non potrà mai essere giusto verso l’altro, perciò affida la propria causa a Dio, che è il solo giusto Giudice. La vendetta non consumata gli farà male, gli provocherà una nevrosi, come dicono tanti, imbevuti di psicanalisi a un tanto il chilo? Certamente sì, se è rimasto schiavo del proprio ego; certamente no, se, da vero cristiano, ha deposto per sempre il proprio ego nelle mani del Signore, e ha lasciato a Lui di essere giudice in qualsiasi contesa fra sé e gli altri.
C’è poi un’altra cosa da dire. Chi rinuncia a vendicarsi, oltre a non contaminarsi con l’odio e i sentimenti negativi che appartengono al suo nemico, in qualche modo gli "rimanda indietro" quei sentimenti. Si osserva infatti che la non risposta al male provoca una reazione energetica nella dimensione sottile, per cui la cattiveria ritorna a colui che l’ha compiuta e lo punisce per le sue azioni.
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