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Il cristiano si ricorda che la vita è preparatio mortis

I cristiani, a partire da un certo momento della storia, si sono staccati dalla visione della vita propria del cristianesimo e hanno adottato la visione della cultura moderna: una visione nella quale la morte non è più la naturale conclusione del pellegrinaggio terreno e il dischiudersi della porta sull’eternità, cioè sull’eterna beatitudine o sull’eterna dannazione, ma un evento incerto e minaccioso, da tenere a bada il più a lungo possibile e di fronte al quale non ci sono esami di coscienza da fare, quanto medici da chiamare a consulto per scongiurarlo o rimandarlo a ogni costo. Quel momento è arrivato a partire dal XVII secolo, il secolo dei "lumi" e della Encyclopédie; e ad attestare il cambiamento esiste una documentazione precisa: l’esame degli atti testamentari. Basta confrontare i testamenti che venivano fatti fino al 1700 e quelli che si sono iniziati a redigere a partire dal 1700 per vedere la differenza di prospettiva. Non solo spariscono, o quasi, i riferimenti all’eternità e al giudizio divino; non solo si parla solo, o quasi solo, della ripartizione dei beni materiali del defunto, e si tralascia quanto attiene alla sua preparazione spirituale all’evento del trapasso: ma il testamento in sé cambia natura e cambia esecutore, a redigerlo non è più il parroco, ma un funzionario civile, e non si tratta più di un documento di carattere religioso (al punto che non averlo fatto può comportare il rifiuto, da parte del sacerdote, della sepoltura in terra consacrata) ma giuridico, e più precisamente di diritto privato. In altre parole: il morente non pensa più a fare i conti con Dio e a mettersi a posto, se possibile, dal lato spirituale per affrontare il gran viaggio; ma pensa alle cose materiali, si preoccupa di come ripartire i suoi beni fra gli eredi, e quindi la sua mente, fino all’ultimo, è rivolta alle cose di quaggiù e non a quelle di lassù.

Questo passaggio è stato bene illustrato da uno dei maggiori storici francesi del Novecento, Philippe Ariès (1914-1984) – anche se poi egli ne dà un’interpretazione diversa dalla nostra – nel libro Storia della morte in Occidente (titolo originale: Essais sur l’histoire de la mort en Occident, Éditions du Seuil, 1975; traduzione di Simona Vigezzi, Milano, Rizzoli, 1978, 2016, pp. 151-153):

Nella prima metà del XVIII secolo, lo stile e il tono dei testamenti sono cambiati, e anche la loro funzione: questo cambiamento è in rapporto con il senso della famiglia.

Fino ai primi del XVIII secolo, questa funzione era la stessa che era sempre stata dal Medioevo: religiosa, Lo scopo del testamento era costringere l’uomo a pensare alla morte mentre era ancora in tempo. Senza dubbio, nel XVII secolo, il testamento non era più registrato dai parroci, non era più considerato come un sufficiente "passaporto per il cielo", e non si estrometteva più dalla terra consacrata chi era morto intestato, come fosse scomunicato. Ma, se il testamento non era più un atto quasi sacramentale, restava pur sempre un atto religioso in cui il testatore esprimeva, per mezzo di formule più spontanee di quanto si creda, la sua fede, la sua fiducia nell’intercessione della "Corte celeste", e disponeva di quel che ancora gli era più caro: il suo corpo e la sua anima. La parte più lunga del testo è sempre "ad pias causas": la professione di fede, la confessione dei peccati e la riparazione dei torti, l’elezione della sepoltura e, infine, le numerosissime disposizioni a favore dell’anima: messe, preghiere, che cominciavamo fin dall’agonia ed erano celebrate a date fisse, in perpetuo. (…)

Che cosa avviene nel XVIII secolo? La famiglia, in apparenza, non è diventata molto più presente, ma il suo silenzio ha un diverso significato, perché la sua funzione e lo scopo del testamento sono mutati, e la famiglia si sostituita al testamento per l’adempimento dei voti pii.

Si nota, infatti, che le clausole religiose vengono sbrigate in poche frasi convenzionali, quando non scompaiono del tutto. Il testamento diventa semplicemente quel che rimasto fino ai nostri giorni, un atto di diritto privato, per la ripartizione dei beni del defunto.

La spiegazione del cambiamento che dà l’Autore, già anticipata all’inizio del suo discorso, è che l’indifferentismo religioso diffusosi nel XVIII secolo, sulla scia dell’illuminismo non c’entra, anche se — egli ammette — è la prima e più naturale spiegazione che si afaccia alla mente di fronte al fatto. Secondo lui, il cambiamento è dovuto non alla secolarizzazione e all’affievolirsi delle pratiche religiose, ma ad un rafforzarsi dei legami familiari, per cui il morente, che non si sente più solo di fronte alla morte, vede nei suoi cari le persone che lo assisteranno nell’estremo passaggio e quindi divide con loro la decisiva esperienza che prima era riservata a Dio soltanto. A noi pare che sia una spiegazione non solamente lambiccata, ma anche contraddittoria: se anche fosse vero, infatti, questo mutato atteggiamento non attesta già, di per se stesso, un indebolirsi del sentimento religioso? Se ora la famiglia diviene più "importante" del pensiero di Dio davanti alla mistero della morte, non è questo l’effetto e non la causa del processo di secolarizzazione? Oltre a ciò, è evidente che se il testamento perde ogni valenza religiosa e spirituale e si riduce a un contratto d’affari, a un arido documento notarile inteso a evitare litigi fra gli eredi, ciò significa che gli uomini non pensano più il fatto della morte in termini religiosi, e cioè come il coronamento della vita terrena in senso cristiano, ma come la fine, e perciò come un tragico evento che viene percepito essenzialmente in senso laico, come la perdita del bene più prezioso: la vita stessa. E cos’è tutto questo preoccuparsi dei beni materiali da lasciare, quando la posta in gioco è il destino eterno dell’anima immortale, se non la spia del fatto che l’uomo del XVIII secolo comincia a non pensare più la sua stessa vita e la sua stessa morte come un cristiano le dovrebbe pensare, e come sempre le avevano pensate, e vissute, le generazioni precedenti?

Negli ultimi anni si assiste poi a un fenomeno nuovo e impensabile solo due o tre decenni fa: la frequenza con cui delle persone che si dicono e si ritengono cristiane, e buone cattoliche, decidono per la cremazione del proprio cadavere, o lo decidono i loro parenti, altrettanto cristiani e cattolici sia di nome che come personale convinzione. Evidentemente si tratta di una nuova maniera di concepire la morte, nella quale la certezza della risurrezione finale dei corpi sembra essersi dissolta nelle nebbie del passato; ed è altamente significativo che il clero non abbia trovato nulla da eccepire in proposito. Infatti, se è vero che la sepoltura dei morti non è mai stata un dogma di fede – e infatti in circostanze eccezionali, come gravissime epidemie, i corpi potevano anche essere bruciati – di norma la cremazione era vista come una forma di esequie non cristiana, quale appunto era praticata dai pagani nel mondo antico, prima dell’avvento e dell’affermazione del cristianesimo. Certo, Dio è onnipotente e quindi può far risorgere i corpi anche dopo la loro corruzione: ma che dire di un corpo che è stato integralmente dissolto dalle fiamme? Per chi non lo sapesse, la cremazione di un cadavere richiede temperatura altissime; e chi ha avuto la possibilità di assistervi sa quanto sia impressionante il contorcersi di quelle povere membra sotto la pressione di una tale temperatura: è come se una forza interna si ribellasse a una violenza così terribile. Non vogliamo da ciò derivare la conclusione che Dio non possa far risorgere quel corpo anche da un pugnetto di cenere, perché dopo un simile procedimento non rimane più un corpo vero e proprio: e tuttavia, non vi è contraddizione — non diciamo teologica, ma psicologica – fra la credenza nella risurrezione dei corpi e la pratica della loro totale distruzione?

È curioso: la cultura cristiana è stata sempre accusata dagli illuministi di essere nemica del corpo e di tutto ciò che la dimensione corporea implica: eppure gli ultimi a credere che il corpo sia importante, così importante che Gesù, il Figlio di Dio, ha assunto un corpo e ha sofferto ed è morto in un corpo, e così importante che il corpo di ciascun essere umano risorgerà dalla morte, trasfigurato e luminoso, nel giorno del Giudizio, sono proprio i cristiani rimasti strettamente uniti alla visione della vita che è specifica del cristianesimo. Gli altri, vale a dire sia i non cristiani, sia i cristiani moderni, adulti e vaccinati, non vedono l’ora di sbarazzarsi del corpo, considerato come un peso ulteriore per la Madre Terra, che deve esserne sollevata per amore dell’ambiente, del futuro e delle altre specie viventi. È la visione maltusiana della vita: edonismo fin che si è in salute; rapida eliminazione quando si è morti. Aborto ed eutanasia sono i logici corollari di tale visione: l’aborto per eliminare gli indesiderati, l’eutanasia per eliminare gli inutili. Può sembrare eccessivo un tale accostamento al tema del corpo dopo la morte, ma a ben guardare non lo è: si tratta della stessa visione della vita e della morte. Una visione in sostanza materialista, che non lascia spazio all’idea dell’uomo come creatura spirituale incarnata in un corpo. In questa visione, l’uomo è un corpo dotato di una serie di facoltà: ma se quelle facoltà vengono meno, come nel caso della demenza senile e di altre epatologie gravi legate specialmente alla vecchiaia, ecco che il corpo torna ad essere quello che è sostanzialmente, e che è sempre stato fin dal principio: nient’altro che il supporto materiale per l’esplicazione di quelle funzioni. E se il supporto viene meno alla sua ragion d’essere, e quindi le funzioni si spengono, a che scopo tenerlo in vita? Meglio lasciare che si "spenga" esso pure, magari per disidratazione, negandogli le sostanze alimentari, come nel caso che allora fece tanto parlare di sé, e che oggi pare già archiviato, della povera Eluana Englaro. Stesso ragionamento per quanto riguarda l’aborto: se la nuova vita non era prevista, non era voluta, non era amata, a che scopo far nascere un nuovo corpo, capace di sviluppare quelle tali funzioni? Il corpo è un funzione delle funzioni (ci si perdoni il bisticcio di parole); ma se la vita in arrivo non è gradita, a che servirebbero quelle funzioni, se non a pretendere attenzioni per il corpo che le sostiene, attenzioni che però la madre (o il padre) non sono disposti ad accordargli? Ed ecco che lo stesso clero che comincia ad essere comprensivo e indulgente verso l’aborto (Bergoglio ha stabilito che d’ora in poi chi lo ha commesso non deve più ricevere l’assoluzione dal vescovo ma da un prete qualsiasi, come per i peccati lievi) e verso l’eutanasia, magari truccando le carte e facendo finta che essa non sia tale (si veda la tristissima vicenda del piccolo Alfie Evans, nella quale il vescovo ringraziò il personale ospedaliero per aver fatto tutto il possibile!), è divenuto altrettanto comprensivo e indulgente verso la cremazione dei cadaveri, e anche verso le esequie in chiesa ai non cristiani. È un clero che accetta di celebrare le esequie senza la santa Messa, senza la benedizione del defunto, senza una preghiera, "per rispetto verso le opinioni del defunto e dei suoi familiari": e dunque niente canti liturgici, ma canzoni beat, o pop, o rock, o rap, e altre simili facezie e pagliacciate, il tutto di fronte all’altare col Santissimo Corpo del Signore Gesù Cristo. Fino a un tal punto di abiezione è sceso il clero dei nostri giorni, una volta imboccata — col Vaticano II, non lo si ripeterà mai abbastanza — la strada di un malinteso "dialogo" col mondo, che è invece la strada della resa e della piena sottomissione al mondo.

Arrivati a questo punto si capisce quanto fosse importante il testamento di una volta, quando non era un atto notarile, ma un fare i conti con Dio: una professione di fede (credo la resurrezione della carne e la vita eterna), una confessione dei peccati, un tentativo di riparare ad essi, una richiesta di perdono a Dio e una richiesta di preghiera ai propri cari (col numero delle sante Messe di suffragio scrupolosamente indicato, come annota Philppe Ariès, che però ne trae le conclusioni sbagliate, cioè che il morente non si fidava della moglie o dei figli). Per mezzo del testamento il cristiano si preparava alla morte, si abituava all’idea della propria morte, e faceva il punto sulla propria vita terrena in vista dell’eternità. Ciò rientrava nella frequente abitudine all’esame di coscienza, che ancora i nostri nonni conservavano e cercavano di trasmettere alle nuove generazioni: ogni sera, prima di dormire, il buon cristiano faceva mentalmente l’esame di coscienza e chiedeva perdono a Dio dei propri peccati, e il suo aiuto per non commetterli più. L’idea di un esame di coscienza finale giungeva perciò naturale: non era qualcosa di sconvolgente e quasi d’impensabile, ma il logico approdo di quel pellegrinaggio che è la vita terrena. Ma ora l’idea del pellegrinaggio è stata sostituita dall’idea del picnic: la vita è divenuta più o meno una bella scampagnata, con l’aiuto della tecnologia e del benessere materiale; e se per caso comincia a diventare meno bella, se diviene addirittura brutta, allora è meglio interromperla, prima che si faccia ancor più dolorosa (e odiosa). L’uomo si fa Dio e vuol decidere quando morire, così come si è arrogato il diritto di decidere chi può nascere e chi no. È evidente che siamo ormai completamente al di là e al di fuori della prospettiva cristiana; e se c’è un clero disposto ad avallare un tale atteggiamento, magari non a parole, ma di certo nella pratica, allora è chiaro che un simile clero, pur seguitando a dirsi cattolico, cattolico non lo è più, anzi è divenuto un contro-clero satanico, che non svolge la sua funzione di guidare, illuminare e condurre le anime verso la salvezza, ma che le spinge verso la perdizione. Dio lo perdoni. Ma Egli può suscitare dei veri sacerdoti e dei veri credenti anche dai sassi di un deserto…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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