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Gesuiti e preti operai, croci di Pio XII; il modello, Pio X

Negli ultimi anni del suo pontificato Pio XII è stato rattristato da due pesanti croci da portare: la crescente deviazione dottrinale dei gesuiti, catturati dallo spirito del mondo moderno e smaniosi di far vedere di non essere da meno di quest’ultimo nel loro modo di proporre il Vangelo, e i preti operai, che con l’intenzione dichiarata di portare Gesù nelle fabbriche, avevano finito per portare Marx nelle chiese, nei seminari, nelle parrocchie e nelle facoltà teologiche. In fondo, erano due facce di una stessa medaglia e avevano in comune un tratto essenziale: l’indebolirsi della fede, il soccombere della fede sotto le sfide delle ideologie moderne, sempre più aggressive e sempre più anticristiane. L’ultima cosa di cui c’era bisogno, in quegli anni, ossia negli anni ’50 del Novecento, era allentare la guardia e fare finta che i pericoli fossero scomparsi, che i nemici fossero dileguati, che ormai si potessero gettare ponti ovunque e abbattere ogni muro. Ciò avrebbe significato il suicidio del cristianesimo. Pio XII lo capiva, lo sapeva, e per questo il suo grande modello era Pio X: un papa di umili origini, un papa che era venuto dall’ambiente contadino, da quella società contadina del Nord-Est d’Italia dove, nella seconda metà del XIX secolo, la fede cattolica era ancora profondamente radicata e improntava di sé e dei suoi antichi valori la vita delle famiglie, né la massoneria era ancor giunta, come in Piemonte, in Toscana, in Romagna e in altre regioni, a dominare pressoché interamente la vita pubblica. Un papa che aveva saputo vedere in piena luce il pericolo mortale rappresentato dal tentativo di modernizzare il cattolicesimo, e che aveva reagito con la massima energia, lui di animo così buono e modesto, senza curarsi affatto se il mondo lo avrebbe compreso o se lo avrebbe condannato, come ha fatto in realtà, giudicandolo poco lungimirante, chiuso nel passato, incapace di cogliere i segni del rinnovamento che sgorgavamo da tante fonti della vita cristiana. No: Pio X aveva visto giusto perché aveva conservato una grandissima fede; e Pio XII voleva tenersi unito a quel modello, vivere all’ombra di quell’ideale.

Citiamo una pagina della biografia di Pio XII scritta da Antonio Spinosa (cit. in A. Spinosa, Pio XII. L’ultimo Papa, Milano, Mondadori,  1992, p. 385): 

Aveva qualcosa da dire sui gesuiti dei quali non era più soddisfatto come in passato, quando li chiamava "colonna della Chiesa". Ne parlava col confessore padre Hentrich, gesuita anche lui. Gli mostrava il libro degli esercizi spirituali di sant’Ignazio, in un’edizione originale spagnola, e diceva: Qui dentro troviamo la Compagnia di Gesù come Noi l’amiamo. Lo spirito di disciplina della Compagnia si è affievolito, non è più come ai tempi in cui studiavamo all’Università Gregoriana. Con la disciplina ha salvato la fede, la fede, la fede. Lei ne conosce la storia. Così deve rimanere la Compagnia di Gesù, non altrimenti, non altrimenti.  Noi siamo molto preoccupati dei gesuiti di oggi. Sentire "cum ecclesia" stimare la scolastica, e la sana dottrina, conservare il "depositum fidei". Noi ci sentiamo responsabili, e ce ne rivolgiamo un rimprovero, di non esser intervenuti in modo più energico."

Per circa tre mesi il papa fu tra la vita e la morte. Nell’aprile del ’54 le sue conduzioni di salute erano migliorate, ed egli aveva potuto cominciare a occuparsi delle celebrazioni per la canonizzazione di Pio X, da lui fermamente voluta, nonostante le resistenze che si frapponevamo all’elevazione agli altari del papa della dura "Pascendi" antimodernista Da secoli, cioè dal 1712 con papa Pio V, non si era più verificato che un papa salisse alla gloria degli altari. Pacelli vedeva nel prete di Riese, dagli umili natali, l’uomo che aveva saputo opporsi ai mali del modernismo cin maestria di nocchiero in gran tempesta, e scorgeva una sorta di parallelismo tra gli errori di quel tempo e le sciagure ideologiche che ora lui stesso era costretto ad affrontare.

E sulla controversa questione pastorale dei preti operai (op. cit., pp. 353-354):

Pacelli interveniva contro la nutrita pattuglia di preti operai francesi che da una decina d’anni svolgeva un’azione di evangelizzazione intesa a riportare la religiosità nelle fabbriche. Incoraggiati dall’arcivescovo di Parigi, cardinale Shuard, numerosi sacerdoti erano scesi fra gli operai indossando le loro tute, svolgendo i loro stessi lavori, confondendosi in alcuni casi con gli scaricatori del porto di Marsiglia. Volevamo così testimoniare la forza della fede e ricondurre alla religiosità almeno gli indecisi. Sul principio l’iniziativa non era dispiaciuta in Vaticano, anche perché si riallacciava all’apostolato che in Italia le Acli e l’Onarmo conducevano presso il proletariato. Ma i "prêtres-ouvriers" si erano a poco a poco immedesimati a tal punti nel nuovo ruolo da guidare essi stessi le agitazioni operaie e gli scioperi e da apparire vittime di deviazioni marxiste. Nell’estate del ’53il papa convocò a Roma i cardinali francesi Feltin, Liénart e Gerlier coi quali decise di porre fine all’esperimento, pur affermando ufficialmente che quella nuova azione missionaria poteva continuare in altra forma che non snaturasse il ruolo del prete.

Sappiamo, dunque, da una confidenza fatta da Pio XII al suo confessore privato, che fra l’altro era un gesuita lui stesso, padre P. Wilhelm Hentrich, confidenza che ha più il sapore di un amaro sfogo, che già anella prima metà degli anni Cinquanta del ‘900 il Santo Padre sapeva di non poter più contare sulla fedeltà dell’ordine dei gesuiti, come avevano potuto fare i suoi predecessori; di non potervi fare quell’assegnamento certo e totale che era in fondo la ragion stessa d’esistere dell’ordine di sant’Ignazio. Che altro ci stavano a fare, i gesuiti, se non ad assicurare una "copertura" sicura e incondizionata all’azione pastorale del vicario di Cristo, specie nei momenti difficili della storia della Chiesa? E invece c’erano state le avvisaglie della Nouvelle Théologie e c’era stato, soprattutto, l’affare Teilhard de Chardin, il famoso gesuita scienziato che si era improvvisato teologo e aveva cominciato a scrivere libri che sono una strana mescolanza di pseudo misticismo ed evoluzionismo, suscitando scandalo e che potevano fare, come di fatto fecero, molto male alle anime. E che dire di Henri De Lubac, altro gesuita di gran nome e altra pietra di scandalo, sia pure ammantata dietro i veli di una grande pietà cristiana, oggi molto amato e citato dal signor Bergoglio? Oppure di Jean Daniélou, gesuita a dir poco irrequieto, discusso e discutibile, fino all’ultimo respiro, visto che morì d’infarto sulle scale della casa d’una spogliarellista che frequentava abitualmente (secondo i suoi ammiratori per offrirle assistenza spirituale e materiale, visto che le aveva appena consegnato una grossa somma di denaro)? Oppure del più pericoloso di tutti, il più disonesto di tutti, il più deleterio di tutti: quel Karl Rahner, discepolo impenitente di Martin Heidegger, che sarebbe stato il cattivo genio, per non dire l’anima nera, del Concilio Vaticano II, al quale partecipò, su invito di Giovanni XXIII, in qualità di ‘perito’, e che allevò un discepolo della stessa pasta, Walter Kasper, primo e grande elettore di Bergoglio nello sciagurato conclave del marzo 2013? E il tristo elenco potrebbe seguitare. Una cosa è certa: Pio XII, con intuito infallibile, aveva "visto" per tempo quel che apparve evidente solo parecchi anni dopo ai suoi successori: non a Roncalli e neppure a Montini, ma certamente a Wojtyla, dato che il papa polacco arrivò a commissariare l’ordine dei gesuiti, rimproverando loro gravi deviazioni dottrinali, né si lasciò impietosire dalla malattia di Pedro Arrupe, colpito da un ictus che lo avrebbe condotto alla tomba (cfr. i nostri articoli: Teilhard ha creato una gnosi cristiana in cui la scienza prende il posto della fede, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 02/01/14; Che accidenti sta succedendo ai gesuiti?, sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 26/01/18; Processare i gesuiti, riappropriarsi della Chiesa, 06/70/18; Perché i gesuiti vogliono distruggere la Chiesa, 20/02/19; Quando Giovanni Paolo II commissariava i gesuiti, 23/02/19; Quali sono le sorgenti dell’eresia gesuita?, 24/02/19; Quando inizia la deriva dei gesuiti? Quattro secoli fa, 25/02/19; La fede di Teilhard è nel Mondo, più che in Cristo, 11/09/19; Pachamama o le fonti dell’indigenismo dei gesuiti, 08/12/19; Che c’entrano i gesuiti con il cattolicesimo?, il 06/01/20).

Anche sulla questione dei preti operai Pio XII non si era ingannato. Teoricamente, l’idea dei preti operai in se stessa non aveva, e non ha, nulla di sbagliato. San Paolo era tessitore di tende ed esortava i confratelli a guadagnarsi da vivere con il lavoro delle proprie mani (At 18,3; 20, 34-35), senza nulla aspettarsi per la predicazione del Vangelo di Gesù Cristo, che doveva essere gratuita e disinteressata, (1 Ts. 2,9): Voi ricordate infatti, fratelli, la nostra fatica e il nostro travaglio: lavorando notte e giorno per non essere di peso ad alcuno vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio. E nella Prima Lettera ai Corinzi, riferendosi al fatto che l’operaio avrebbe diritto a ricevere un compenso per il proprio lavoro (9,15-18):

15 Io però non ho fatto alcun uso di questi diritti, e non ho scritto questo perché si faccia così a mio riguardo; poiché preferirei morire, anziché vedere qualcuno rendere vano il mio vanto. 16 Perché se evangelizzo, non debbo vantarmi, poiché necessità me n’è imposta; e guai a me, se non evangelizzo! 17 Se lo faccio volenterosamente, ne ho ricompensa; ma se non lo faccio volenterosamente è sempre un’amministrazione che mi è affidata. 18 Qual è dunque la mia ricompensa? Questa: che annunciando il vangelo, io offra il vangelo gratuitamente, senza valermi del diritto che il vangelo mi dà.

E se lo faceva san Paolo, se lo facevano i primi cristiani, perché non avrebbero dovuto farlo i preti cattolici del XX secolo? Le ragioni sono parecchie, e Pio XII le aveva perfettamente comprese. Prima di tutto, il lavoro di fabbrica non ha nulla a che fare con il lavoro artigianale di tipo domestico: per il luogo in cui si svolge, per le condizioni generali che vi concorrono, e soprattutto per la secolarizzazione della società moderna. È molto più facile che sia il mondo ad attirare a sé il prete operaio, che non il prete operaio ad attirare il mondo a Cristo. Non vediamo forse ogni giorno dei preti che confondono le anime e allontanano i fedeli, e che hanno una cosa in comune: provengono dall’ambiente dell’operaismo cattolico, del sindacalismo cattolico, del cattolicesimo progressista, o anche direttamente dal marxismo, che li ha lasciati orfani dopo il crollo dei sistemi comunisti? Pio XII li conosceva bene, questi cattolici progressisti: li vedeva all’opera in Italia. Aveva visto Dossetti e Lazzati spargere il cattivo seme d’un cattolicesimo politicizzato di estrema sinistra; e vedeva il pirotecnico sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, assumere pose e adottare un linguaggio sempre più simili a quelli marxisti, fra l’altro intrattenendo rapporti con esponenti del PCUS e recandosi in Vietnam del Nord ad attestare la simpatia dei suoi concittadini alla causa dei vietcong. In teoria, ripetiamo, l’idea dei preti operai potrebbe funzionare: ma ci sarebbe bisogno di giganti della statura di san Paolo; o, per dir meglio, ci sarebbe bisogno di una fede gigantesca, come lo era quella di san Paolo. Quanti di quei preti operai avevano una fede così grande da non lasciarsi trascinare dalla mentalità marxista dello scontro di classe e da resistere alla sottile tentazione di piacere al mondo, cioè, in quel caso, ai loro compagni di lavoro, e far vede ai marxisti che un prete cattolico può essere più duro e rivendicativo di un marxista duro e puro? L’uomo è fragile, la carne è fragile: e il Diavolo, il grande tentatore, è sempre all’erta per cogliere tutte le occasioni, per sfruttare tutte le debolezze. Quanti ne ha presi e ne prende al laccio, senza che neppure se ne rendano conto! La sua abilità è proprio questa: servirsi d’una parvenza di giustizia per trascinare le anime nell’ingiustizia di voler fare da sé, con le sole forze umane, scordandosi che nulla può fare l’uomo senza Dio. Ogni volta che un essere umano – e ciò vale anche per i preti – si lascia prendere all’amo dell’ambizione, dell’orgoglio, della vanità, e si nasconde dietro i veli della buona causa, e crede di essere nella giustizia perché si batte contro l’ingiustizia, ma lo fa solo in senso umano, cioè in senso economico e materiale: ebbene, ogni volta che ciò accade, è un nuovo trionfo per il Diavolo, perché questi è risuscito a servirsi delle migliori intenzioni umane per portare gli uomini dalla sua parte, e sottrarli a Dio. Accecati dalla presunzione, gli uomini — e i cattolici non fanno eccezione – non si rendono conto che sono già stati presi al laccio, che sono già in balia del Nemico, mentre ancora si rallegrano con se stessi e si pavoneggiano davanti a se stessi, pensando di aver mostrato a sé e a gli altri di saper fare la propria parte al cospetto del mondo: a parole, nel nome di Cristo, ma nel profondo del loro cuore, a nome proprio.

A ben guardare la strategia del Diavolo è sempre la stessa, e la risposta del cristiano dovrebbe essere sempre quella di Gesù tentato nel deserto: affidarsi totalmente alla volontà del Signore. Quando il cristiano pensa di poter vincere il Diavolo con le sue forze, pecca di orgoglio e cade, senza rimedio…

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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