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Il carattere va formato come abito del dovere

La stretta totalitaria e sincronizzata che sta investendo quasi tutti il mondo, attuata sfruttando il terrore di un virus che non produce più morti di una normale influenza, manipolando i numeri dei contagiati e dei deceduti e confondendo i dati oggettivi, grazie al dominio pressoché totale esercitato sui mezzi d’informazione di massa, è l’ultimo atto di un processo degenerativo che la nostra società stava già vivendo da molto tempo, e che aspettava solo l’occasione giusta per manifestarsi in tutta la sua potenza autodistruttiva. Tale processo si può riconoscere in quanto caratterizzato da una profonda, triplice crisi: intellettuale, educativa e spirituale. Tralasciamo qui gli aspetti materiali della crisi, quelli economici, quelli produttivi, quelli tecnologici, e anche gli aspetti politici, poiché sono già stati analizzati in lungo e in largo da altri, e soprattutto perché siamo convinti che essi, in linea generale, non sono – come potrebbe apparire – la causa, ma al massimo la concausa, e più spesso l’effetto, della crisi che travaglia il nostro mondo, e che da molti indizi appare come la crisi finale di un sistema di vita, di una visione del mondo, in breve di una civiltà, avviata all’estinzione dopo un’agonia di quattro secoli, che è iniziata in effetti con il sorgere stesso della modernità.

La crisi intellettuale ruota attorno all’abbandono del concetto della verità: in una cultura relativista, ciascuno rivendica la sua piccola, limitata verità soggettiva e rimane appagato da essa, purché nessuno gliela venga a contestare, sicché coesistono innumerevoli verità le quali hanno il diritto ad esistere per statuto democratico legalmente riconosciuto; né tollerano il confronto con chi affermi l’universalità, l’oggettività e la necessità del concetto di verità al singolare. Ma di ciò abbiamo già parlato in un recente articolo (La verità è e resta la questione ineludibile e decisiva, pubblicato sul sto dell’Accademia Nuova Italia il 14/01/2021), oltre che in alcune conferenze (Lectio magistralis su verità e relativismo del 13/12/18: https://www.youtube.com/watch?v=OajeluV0wwQ); mentre alla crisi spirituale abbiamo dedicato una unga serie d’interventi. Perciò vogliamo ora focalizzare l’attenzione intorno alla crisi educativa che ci ha portati a perdere ogni vera influenza sui giovani, affidati a una scuola che ha smarrito i contatti con la realtà e se ne va, in apparenza contenta di sé, dietro le sirene del Politicamente Corretto, spegnendo in loro ogni senso critico e ogni possibilità di pensiero libero; giovani d’altro canto abbandonati al sistematico lavaggio del cervello operato su di essi dai mezzi d’informazione di massa, dal cinema, e più in generale da un clima sociale e culturale più che mai omologato e mortificante, quale non si era visto né respirato neppure sotto le spietate dittature "tradizionali" del XX secolo, comunismo e nazismo.

La dissoluzione educativa è in atto da svariate generazioni, ma ha assunto un ritmo frenetico nel corso delle ultime due o tre. La scuola è andata completamente alla deriva: la cosiddetta didattica a distanza, fatta via computer perfino per le tesi di laurea, ma con l’obbligo, o il caldo invito, a indossare la mascherina anche stando a casa, le ha dato il colpo di grazia. La famiglia (ed è quasi superfluo precisare che per "famiglia" intendiamo un uomo e una donna stabilmente uniti ed aperti alla procreazione) annaspa, fa quel che può: ma è evidente che l’educazione dei figli le sta sfuggendo inesorabilmente di mano e sta passando a delle agenzie private, televisioni e social network, le quali hanno la possibilità di distruggere sistematicamente tutto ciò che due bravi genitori possono sforzarsi di trasmettere a un figlio in termini di valori morali, riflessione personale, senso del limite e del pudore, capacità di ascoltare l’altro e soprattutto assunzione di responsabilità quale strada maestra verso la crescita e la maturazione. E a proposito di educazione, come scordare che nei secoli passati la musica era parte integrante e fondamentale di essa, mentre oggi una musica "leggera" di pessima qualità, e forme ancor più orribili di oscene cacofonie spacciate per musica, occupano le menti e i cuori di milioni di giovani, più e più ore al giorno? Così, da nobile strumento di educazione al bello, la musica è divenuta parte della sua distruzione.

Il punto essenziale della presente emergenza educativa è questo: tutti quanti gli adulti, famiglia, scuola, chiesa, collegi, seminari, sembrano essersi dimenticati che il carattere è l’abito morale della persona e che lo si può, anzi lo si deve formare, coltivare, potare, irrigare, proteggere dai parassiti, esattamente come il bravo agricoltore fa con il suo campo di frumento o con il suo frutteto. Oggi, al contrario, si è largamente diffusa l’idea che il carattere di una persona sia qualcosa d’immutabile, un modo di essere che ognuno si porta dietro per tutta la vita, dall’infanzia alla vecchiaia, come un dato di fatto e non come un movimento, ciò che in realtà è. Se prendiamo un buon vocabolario della lingua italiana, ad esempio quello della Treccani, alla voce carattere leggiamo:

Il complesso delle doti individuali e delle disposizioni psichiche che distinguono una personalità umana dall’altra, e che si manifesta soprattutto nel comportamento sociale, nella disposizione affettiva dominante, nell’umore abituale.

Quel che non viene detto, però, è che il carattere può essere forgiato secondo certi princìpi, con l’impegno della volontà e sotto la guida di figure capaci di orientare il bambino, e poi l’adolescente, nel senso di fargli imparare ad essere ciò che un uomo deve essere, e non semplicemente a fare quel che gli va di fare, come oggi sembra essere divenuto abituale, grazie alla disastrosa eredità degli anni ’60, che non ha mai finito di provocare danni colossali e spargere ovunque macerie d’ogni tipo. In effetti, la maggior parte delle persone rimane stupita sentendo questo discorso, che appena due generazioni fa era addirittura ovvio e scontato: il carattere si forma; formare il carattere è compito della società, innanzitutto della famiglia, ma richiede anche il massimo impegno da parte dell’educando; quest’ultimo, d’altra parte, non si sottoporrà mai agli sforzi e ai sacrifici che la formazione del proprio carattere richiede, se non gli viene fatto capire che tale è la chiamata cui ogni essere umano è invitato a rispondere; e che un uomo non può in definitiva dirsi tale se non ha imparato a comandare a se stesso, a dominare se stesso, a controllare le proprie passioni, ad affinare la propria intelligenza, a temprare la propria volontà. In breve, ad assumersi la responsabilità di diventare ciò che deve diventare.

Ci sembrano degne d’interesse le riflessioni svolte su questo tema, quasi un secolo fa, da monsignor Carlo Pellegrini nella sua corposa e assai ben documentata biografia La vita di Contardo Ferrini (Torino, S.E.I., 1928, pp. 33-34):

DOVERE DEL GIOVANE DI FORMARSI UN CARATTERE.

Un mistero di forze e di debolezze, d’entusiasmi e di scoraggiamenti è il cuore del giovane, dove sono in lotta le più elevate idealità e le tendenze più basse, mentre l’inesperienza e l’irrequietezza in lui naturali lo portano quasi con la medesima energia al bene e al male. In mezzo a questo scompiglio morale, soltanto una forte volontà diretta da principi pratici giusti potrà mettere un po’ di ordine. Quindi l’obbligo morale per il giovane di formarsi quella forte volontà, saggiamente diretta, che costituisce il carattere: obbligo che appare gravissimo, se si considera che nella giovinezza si pongono i fondamenti di tutta la nostra vita. Il CARATTERE può definirsi L’ABITO DEL DOVERE (è la definizione che dà Augusto Alfani, "Il carattere degl’Italiani", cap. II, Firenze, 1878). L’ABITO si acquista con la continua ripetizione degli atti, poiché la volontà, come del resto tutte le nostre facoltà fisiche e morali, si perfeziona coll’esercizio prolungato e costante di atti virtuosi; il DOVERE poi è cosa tanto sacra per l’uomo, che tutta la forza della sua volontà meglio non può essere impiegata che per il compimento di esso.

Oggidì, forse, troppo si esalta e si cura l’educazione dell’intelletto a detrimento della volontà, mentre quest’appunto ha un valore morale e sociale assai maggiore di quella. Esercitare la volontà col comandare a se stesso, sostenere le proprie convinzioni e compiere il proprio dovere non ostante che l’ambiente sociale e la folla ci siano contrari, non ostante che in noi ruggisca la nostra parte bruta, e le passioni si agitino, ecco in che cosa consiste la formazione del carattere.

Del resto le passioni sono forze morali pericolose, ma anche preziose, che noi non possiamo distruggere, ma possiamo governare e drizzarle al bene. L’utilizzazione delle passioni è quanto v’ha di più bello nella morale cristiana; e noi possiamo giungere a tanto, solo che ci proponiamo un ideale sublime da raggiungere e attuare. Poiché l’efficacia dell’ideale, specialmente sopra i cuori giovanili, è somma; attorno ad esso vagheggiato, amato e voluto, si drizzano e si concentrano tutte le forze dell’anima; le stesse passioni nostre ne sentono il fascino, e diventano come ancelle al servizio dell’ideale amato e voluto. Ho detto AMATO e VOLUTO perché non basta la visone, né l’approvazione della bellezza dell’ideale che si vagheggia, affinché esso diventi realtà; è necessario che lo vogliamo fortemente, anzi che noi lo si viva: solo così l’ideale diventa azione e può infornare e trasformare la vita nostra. Tutti i santi ebbero un ideale sublime che informò la loro vita, dandole unità e stabilità, le due note che caratterizzano l’uomo moralmente forte. (…)

Lacordaire disse: «Si può avere ingegno scienza, anche genio, e non avere né volontà né carattere».

Che bei tempi quelli in cui c’erano sacerdoti come monsignor Carlo Pellegrini, che indicavano con tanta chiarezza, saggezza e umanità alle giovani anime la strada del dovere e del sacrificio; in cui c’erano professori che facevano innamorare i loro studenti della propria materia, ma che sapevano anche trasmettere loro, più in generale, l’amore per la ricerca, per il conoscere, per il ragionare; in cui c’erano padri e madri, magari con la quinta elementare o con la terza media come titolo di studio, che però si ponevano come modelli credibili e autorevoli per i loro figli, che insegnavano loro con gli atti della vita pratica il significato di parole come lavoro, impegno, sacrificio, responsabilità, onore, lealtà, costanza, altruismo, disinteresse; in cui tutta la società, salvo qualche stonatura marginale, orientava i piccoli e i ragazzi in senso costruttivo, operoso, generoso, insegnando loro che entrare nella vita è un privilegio e una missione, e che ciò richiede coraggio e perseveranza, senza i quali nulla si ottiene che duri, nulla che abbia un reale valore. Oggi, al contrario, è passata la filosofia cialtrona del tutto e subito, del massimo senza fatica, del dare poco aspettandosi moltissimo: per cui ogni cretino si crede un Aristotele, ogni fannullone si crede destinato a ricoprire posti di alta responsabilità, e ogni incapace si ritiene degno e meritevole di assolvere i ruoli più delicati e impegnativi. E se un ragazzo prende sette nella tema d’italiano, ecco che la sua mammina si precipita al colloquio con il professore e gli domanda come mai il suo piccolo genio non sia stato giudicato meritevole dell’otto; ecco che il principiante di arrampicata, che è salito in parete una dozzina di volte in tutto, si sente pronto e qualificato per scalare il versante Nord dell’Eiger, se non addirittura l’Annapurna o il Cerro Torre; ed ecco che l’ultimo strimpellatore di chitarra pensa e s’immagina di aver diritto a un radioso futuro di musicista, di membro di qualche orchestra prestigiosa o di direttore d’orchestra. Abbiamo tracciato un quadro esagerato? Niente affatto: semmai siamo stati al di qua di molte situazioni reali, alcune delle quali senza dubbio ciascuno di noi ha conosciuto di persona; solo che ormai, proprio perché frequentissime, hanno smesso di colpirci come dovrebbero, mostrando tutto il velleitarismo, il dilettantismo e il narcisismo che imperversano nella nostra società. E tutto questo è riconducibile, fondamentalmente, sempre alla stessa causa: l’ipertrofia dell’ego, il culto paranoide di se stessi, delle proprie doti presunte o immaginarie, alimentato da una contro-educazione che non insegna né il senso del limite, né quello del dovere, ma suggerisce che ciascuno è splendido e meraviglioso così com’è, senza bisogno di lavorare su se stesso, di migliorarsi, di rafforzarsi mediante le prove, e che pertanto ha diritto, adesso, immediatamente, ad ogni riconoscimento e soddisfazione. E se poi questi tardano a venire, non può esserci che una sola spiegazione per un destino così strano e maligno: la società è ingiusta, gli altri sono cattivi e invidiosi, non vogliono rendere onore al merito e boicottano tutto ciò che noi facciano, negandoci quella gloria e quel successo che avremmo ampiamente meritato.

Una sola cosa non è più attuale nelle parole di monsignor Pellegrini: il fatto che, ai suoi tempi, l’educazione tendeva ad anteporre l’intelletto alla volontà. Oggi, neanche l’intelletto viene più educato: passioni ed emozioni paiono divenute la sola cosa che conti, con l’ovvio dilagare del principio di piacere. È da qui dunque che bisogna ripartire, dal carattere: ritti in piedi, fra le rovine…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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