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Si deve non solo fare il Bene, ma far bene ogni cosa

Riflettendo sulle ragioni profonde che ci hanno condotti alla crisi attuale, che non è solo politica, sociale, economica, culturale, ma anche e soprattutto spirituale, morale e antropologica, è difficile non vedere che fra esse vi è il fraintendimento pratico del concetto del bene da realizzare nella nostra vita. Ciò vale anche per i cattolici, almeno a partire da quando hanno rinunciato a essere realmente cattolici e si sono messi, sia pure in gran parte senza rendersene conto, sotto le bandiere del modernismo, uscito repentinamente vincitore dalla prova di forza del Concilio Vaticano II. Fino ai primi anni ’60 del secolo scorso, fare il bene e fare bene erano praticamente una sola cosa, e non c’era alcun bisogno di specificare che i due aspetti, benché distinti, sono complementari. Poi, però, sulla scia della mentalità moderna, efficientista e materialista, si è fatto strada un diverso atteggiamento: certo, è cosa auspicabile e lodevole fare il bene; mentre fare le cose bene è diventato un di più, a volte perfino un impaccio, nel senso che è più importante riuscire a fare molte cose che farle bene. Non si tratta solo di una perdita del senso dell’ordine: dietro l’ordine formale, ad esempio la cura con cui le maestre insegnavano ai bambini a scrivere in bella calligrafia, con il pennino intinto nell’inchiostro e quindi con la possibilità che una macchia caduta sul foglio annullasse un lungo e paziente lavoro, c’erano l’ordine logico e l’ordine operativo, ossia la chiarezza delle idee e quella del modo di tradurle in pratica.

Si osservi una lettera scritta da una persona anziana o anche semplicemente la sua firma apposta su un qualsiasi documento: i caratteri sono nitidi, eleganti, precisi: sembrano quelli di un libro stampato; e li si confronti con la normale scrittura di una persona giovane: la differenza è abissale. Ora, tutta una serie di abitudini contratte dai nostri nonni e in parte dai nostri genitori, grazie a un’educazione che non tralasciava alcun aspetto dell’esistenza, hanno contribuito potentemente a rafforzare il loro carattere, a plasmare la loro volontà, a far sì che davanti ai casi della vita, quelli ordinari e quelli straordinari, avessero una capacità di concentrazione, una lucidità di giudizio, e poi, una volta entrati in azione, una tenacia di propositi e una perseveranza, che sono pressoché sconosciute alle nuove generazioni. Potremmo sintetizzare quella che era la loro filosofia di vita in questa semplice massima: bisogna far bene ogni cosa, grande o piccola che sia, urgente o meno urgente, importante o secondaria. Anzi, è proprio dal modo di fare le piccole cose, un lavoro di cucito, la cura di un balcone fiorito, un pranzo preparato con amore, che si vede quanto una persona abbia compreso che non si può fare il bene se non ci si sforza di fare tutto bene, perché sono due facce della stessa medaglia, e voler fare il bene in maniera goffa, impacciata, imprecisa, è una contraddizione in termini, perché da una simile azione non potrà mai derivare il bene, ma inevitabilmente qualche forma, più o meno grave, di male. Conosciamo un sacerdote che vive tutto solo (la perpetua è un lusso che appartiene a epoche remote) e che pure ogni sera, quando si mette a tavola, stende prima la tovaglia e dispone ogni cosa come se avesse degli ospiti, perché ritiene che far bene anche quello lo aiuti a conservare il rispetto di se stesso, resistendo alla tentazione di lascarsi un po’ andare. E chi si lascia un po’ andare nelle piccole cose, ad esempio nella pulizia del corpo e nella cura del proprio aspetto (cosa che non va confusa con la civetteria) un po’ alla volta comincerà a lasciarsi andare anche nelle grandi.

Tuttavia, non è solo per curare il senso dell’ordine e del rispetto di se stessi che è giusto e doveroso cercare di far bene ogni cosa; è anche e soprattutto perché ciò è intrinsecamente etico. Fare bene le cose significa prendere sul serio la propria parte, e quindi mostrare senso di responsabilità nei confronti del mondo in cui viviamo. Svolgere bene il proprio lavoro, ad esempio, significa meritarsi lo stipendio e la fiducia degli altri; tirare a campare, fare il proprio lavoro in maniera svogliata e approssimativa, cercando di dare il minimo in cambio di un stipendio sicuro, è una forma di truffa nei confronti della comunità. Questo tipo di comportamento, che è l’espressione di una mentalità ben precisa, si osserva con particolar frequenza e sfacciataggine nei dipendenti statali, ed è proprio ciò che getta il discredito sull’intera categoria; anche se è chiaro che non tutti meritano la disistima e l’ironia che il pubblico riserva loro, a causa del modo di fare di alcuni. Purtroppo esiste, e non è affatto rara, la figura dell’impiegato statale che batte la fiacca, si dà malato per sottrarsi ai suoi doveri, e sfrutta le leggi, già sin troppo generose, per starsene a casa legalmente e percepire uno stipendio mal guadagnato, costringendo la pubblica amministrazione a pagare un sostituto e quindi a erogare due stipendi per un solo posto di lavoro; stipendi che possono anche diventare tre, se il supplente a sua volta può dimostrare di essere ammalato o comunque di non poter assumere il servizio, ad esempio perché si tratta di una donna in maternità. Il danno che ne deriva alle finanze pubbliche è enorme; ancora più grave tuttavia è il danno morale, perché a causa di tali comportamenti si è diffusa l’idea che esistono due categorie di cittadini: gli onesti, che vengono sottoposti a seri controlli e tassati senza pietà, e i furbi, che sfuggono a qualsiasi controllo e percepiscono uno stipendio che moralmente è immeritato. Avendo lavorato tutta una vita nel settore pubblico, possiamo testimoniare che questo genere di persone agisce con la massima disinvoltura e non si sente affatto in imbarazzo per gli stratagemmi e le astuzie che mette in campo per eludere il proprio dovere, anzi è sempre in prima fila quando si tratta di vestire i panni del moralismo e di fare la predica agli altri cittadini, in particolare rimproverando loro di essere dei "fascisti" perché orientano il loro voto in una direzione diversa da quella cui va generalmente il voto dei dipendenti statali, cioè il loro..

Scriveva C. S. Lewis (1898-1963), il famoso romanziere autore delle Cronache di Narnia e delle Lettere di Berlicche, in un breve saggio intitolato Far bene e fare il bene (in: C. S. Lewis, Le lettere di Berlicche e Il brindisi di Berlicche; titolo originale: Screwtape letters, 1942, e Screwtape proposes a toast, 1961; traduzione dall’inglese di Alberto Castelli, Milano, Editoriale Jaca Book, 1990, pp. 229-230):

«Fare il Bene» è un’espressione molto più familiare alla Cristianità moderna di quanto non lo sia l’espressione «Far bene.» Fare il bene è inteso soprattutto come fare l’elemosina, o dare una mano in parrocchia. In questo senso ha poco da spartire con il «Fare». E fare il bene non significa necessariamente farlo bene, come si può ben vedere guardando ceti oggetti fatti per essere venduti alle pesche di beneficenza. Tutto questo non è certo conforme all’esempio che dovremmo seguire. Quando il Signore decise di offrire un bicchiere in più di vino agi invitati a quel matrimonio di poveri, stava facendo del bene, ma lo fece anche bene: infatti era un vino eccellente. E neppure la trascuratezza per la bontà del nostro "fare", del nostro lavoro, è conforme a precetto. L’apostolo dice che tutti devono non solo lavorare, ma lavorare per produrre ciò che è "buono".

L’idea del «fare bene» non è del tutto estinta fra noi, anche se temo che non sia una caratteristica distintiva della gente di chiesa.

Ne ho trovato qualche esempio fra gli ebanisti, i ciabattini, e i marinai. È perfettamente inutile cercare di incantare dei marinai presentando loro un nuovo modello di imbarcazione come il più grosso, o il più costoso che sia mai stato messo in mare. Si metteranno a saggiare quelli che chiamano "i rinforzi" per avere un’idea di come la nave si comporterà nella tempesta. Anche gli artisti parlano di Far Bene, ma sempre di meno. Cominciano a prediligere termini come "significativo", o "importante", "contemporaneo", o "audace". Il che, a mio parere, non è buon segno.

Ma è la gran massa dell’umanità che vive nella società industrializzata la vera vittima di questo stato di cose che esclude a priori l’dea del Far Bene. L’«obsolescenza incorporata» è diventata una necessità economica. Se un oggetto non è costruito in maniera tale che vada in pezzi entro un anno o due e quindi debba essere sostituito, non si potrà avere mercato sufficiente. Cento anni fa, quando un uomo si sposava, si faceva costruire (se se lo poteva permettere) una carrozza dove avrebbe viaggiato per tutto il resto della sua esistenza. Oggi compera un’automobile che conta di rivendere in un paio d’anni. Il lavoro, al giorno d’oggi, non DEVE essere ben fatto.

Per chi le indossa, le cerniere hanno questo vantaggio: rispetto ai bottoni: finché durano gli risparmieranno un’infinitesima quantità di tempo e di fatica. Per chi le produce, hanno un merito molto più consistente: durano poco. Il lavoro mal fatto è un "desideratum".

L’ultima osservazione di C. S. Lewis (che poi viene ampiamente sviluppata nel seguito del suo saggio) è indicativa di tutto l’orientamento della civiltà moderna, costruita sulle basi dell’utile, del materiale, del profitto, dell’usura — come diceva Ezra Pound — e in antitesi diretta e consapevole a tutto ciò che è disinteressato, spirituale, trascendente, mistico. In un mondo costruito al preciso scopo di realizzare il regno dell’uomo, inteso come essere finito e totalmente immanente, negatore e spregiatore di Dio, è inevitabile che il far bene le cose diventi non solo un elemento accessorio, ma addirittura un fattore negativo, un intralcio al "buon" funzionamento del sistema. Se il sistema è fondato sulla pazzia, il suo ordine sarà solo apparente: ed è questo il caso della civiltà moderna, nella quale, per fare un esempio, si costruiscono arsenali nucleari che potrebbero spazzare via decine di volte ogni forma di vita superiore sulla Terra, e ciò con l’ausilio della scienza più avanzata e della tecnica più sofisticata: rivelando un’assoluta razionalità dei mezzi e un’assoluta assurdità del fine. Ma se vogliamo fare un esempio a noi più vicino, terribilmente vicino, potremmo parlare della finta pandemia con la quale il potere della grande finanza ha messo sotto scacco centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, sospeso ogni ombra di democrazia e gettato le persone in un clima di terrore generalizzato del tutto irrazionale: sfruttando appunto una presunta indiscutibilità dei dati scientifici, in effetti manipolati senza ritegno, e mettendo con le spalle al muro chiunque non si adegui alla narrazione ufficiale, esso vuole giungere alla vaccinazione di massa, se necessario obbligatoria, nonché al tracciamento e l’introduzione di nanotecnologie nel corpo umano, per poterle controllare e dominare a tutti i livelli, anche quello inconscio. Così, in nome dell’ordine e delle cose "fatte bene", le autorità statali asservite al capitale finanziario globale impongono il distanziamento e la mascherina, abituando tutte le persone a guardarsi reciprocamente con diffidenza e sospetto, perfino tra genitori e figli o tra amici di vecchia data; e si pretende che chi rifiuta una simile farsa, un così atroce inganno, vada contro il bene comune e sia nemico del far bene le cose. Ma è fatto bene un certificato di morte nel quale il medico attesta che una certa persona è morta di Covid-19, mentre è risultata, sì, positiva alla prova del tampone (ma quanto sono affidabili, i tamponi?) e tuttavia palesemente è morta per il diabete, o la cardiopatia, o la cirrosi epatica, di cui soffriva da anni? È fatta bene una normativa che limita le più elementari libertà dell’individuo, scavalcando il Parlamento e in pratica annullando la democrazia? E agiscono bene le forze dell’ordine cui viene ordinato di far rispettare gli assurdi e criminosi decreti della presidenza del Consiglio? È chiaro infatti che in un mondo alla rovescia, fare bene le cose significa esattamente l’opposto, ossia fare le cose male; e che farle bene viene considerato come un crimine, come se fosse un fare le cose malissimo. Un’infermiera consente al fratello di dare l’ultimo saluto al fratello morente, contravvenendo alle rigidissime disposizioni di lasciar morire in perfetta solitudine le persone che sono risultate positive al Covid-19? Dal punto di vista dell’autorità, costei ha agito male; dal punto di vista morale ha fatto bene. E ha rischiato di persona. Lo stesso rovesciamento etico si riscontra nella Chiesa cattolica, o in ciò che resta di essa. È bene introdurre gli idoli pagani fin dentro le chiese e adorarli pubblicamente, anche se il Primo Comandamento ordina: Non avrai altro Dio fuori che me? Ed è ben fatta una pastorale che si riduce a ripetere, rafforzandole, le inique e dannose prescrizioni che i governi vogliono imporre ai popoli, tacendo del tutto sulla dimensione soprannaturale e dando l’impressione che il nuovo dio é la Scienza, e che da essa soltanto bisogna attendersi la salvezza? In tutti questi casi, si osserva che il vicolo cieco entro il quale siamo stati cacciati ha preso forma diversi anni fa, senza che ce ne accorgessimo: quando i Padroni Universali, servendosi dei mezzi d’informazione di massa, hanno preso a modificare il nostro immaginario e a sovvertire il senso del bene e del male. Sicché entriamo in agitazione e riteniamo giusto mobilitare i vigili del fuoco se un gatto resta intrappolato in una posizione pericolosa, ma non dedichiamo neanche un pensiero ai milioni di nascituri che vengono legalmente soppressi nel ventre materno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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