Necessità e validità dei Sacramenti, vita dell’anima
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5 Gennaio 2021Ciascuno di noi porta, impressa nella propria psiche, l’aspettativa di essere amato, anzi in un certo senso il dirotto di essere amato. Ciascuno di noi pensa — ma pensare è un verbo troppo forte, perché si tratta di una disposizione istintiva — di essere amabile e perciò ritiene giusto e naturale che gli altri lo amino e lo gratifichino nella sua aspettativa di trovare accoglienza, comprensione, affetto, secondo la misura non del suo valore, ma del suo desiderio. Perfino le persone meno dotate di autostima, quelle che abitualmente si tengono in disparte per non essere umiliate dalla vita, hanno una simile aspettativa, benché facciano di tutto per reprimerla e nasconderla anche a se stesse. Tutti, belli e brutti, giovani e vecchi, stupidi e intelligenti, hanno in fondo al cuore tale aspettativa: non di dare, ma di ricevere amore; e quanti sanno che il senso della vita è l’esatto contrario, cioè che si viene al mondo per amare e non per essere amati, ci arrivano dopo un lungo e faticoso cammino, mentre la condizione naturale degli esseri umani consiste nel credersi amabili per se stessi, indipendentemente da quel che si è e da quanto si vale. Anche quelli che non si sentono degni di essere amati, lo pensano, ma non lo credono: il loro sentire profondo va nella direzione contraria, nella direzione di tutti gli altri, vale a dire nell’aspettativa di ricevere amore. Inutile dire che ciò porta poi, nel corso della vita, a una lunga serie di amarezze e delusioni; e non si creda che i meno delusi siano quelli che, giudicando dall’esterno, avrebbero meno ragioni di lamentarsi. Succede, al contrario, che proprio quanti hanno avuto molti amori, e sono stati molto desiderati, e abbiano ricevuto assai più di quel che hanno dato, proprio costoro sono di frequente i più disillusi, i più cinici, perché hanno toccato con mano che altro è il desiderio, altra la realtà; una cosa è l’aspettativa dell’amore, e un’altra è la realtà dell’amore nell’esperienza concreta.
Sul piano filosofico, l’aspettativa di essere amati, vissuta come un diritto fondamentale della persona, è precisamente ciò che pone gli esseri umani su un piano di esistenza fallace, irragionevole e ingiusto. Che cosa diremmo di un individuo che nutra la convinzione di aver diritto alla ricchezza, indipendentemente dai suoi meriti, dal suo lavoro, dalla sue capacità, se non che costui è un paranoico? La vita non riconosce alcun diritto a priori; ogni eventuale diritto va conquistato con il sudore della fronte, e conservato a prezzo di continui sacrifici. Perciò la pretesa di essere amabili è, a ben guardare, una vera e propria aberrazione psichica. Ora, il fatto che tale aberrazione sia connaturata agli esseri umani e che non riguardi questa o quella persona, ma tutte, significa una cosa sola: che c’è qualcosa di sbagliato nella natura umana, non in se stessa, che anzi è fatta a immagine di Dio, ma come conseguenza del peccato originale.
Osservava a questo proposito Blaise Pascal, nei suoi Pensieri, con la spietata consequenzialità che gli è propria (Frammenti, a cura di E. Balmas, Milano, Rizzoli, 1983, vol. 1, n. 421-477, p. 425):
È falso che siamo degni che gli altri ci amino. È ingiusto che lo vogliamo. Se nascessimo ragionevoli e indifferenti, e capaci di conoscere noi e gli altri, non daremmo affatto questa inclinazione alla nostra volontà. Nasciamo tuttavia con essa, nasciamo dunque ingiusti.
Poiché ogni cosa tende a sé: ciò è contro ogni ordine.
Bisogna tendere al generale, e l’inclinazione verso se stessi è l’inizio di ogni disordine, n guerra, in politica, in economia, nel corpo singolo dell’uomo.
La volontà è dunque depravata. Se i membri delle comunità naturali e civili tendono al bene del corpo, le comunità stesse devono tendere ad un altro corpo più generale di cui sono membri. Si deve dunque tende al generale. Nasciamo dunque ingiusti e depravati.
Uno dei comportamenti più caratteristici in questo senso, che bene illustra il concetto ora espresso, è quello di coloro, specialmente fra i bambini, i quali rompono bruscamente un’amicizia che pareva solidissima per rivolgere tutto il loro affetto a un nuovo amico o una nuova amica, facendo oggetto non solo di esclusione ma anche di pettegolezzi di tipo derisorio il precedente amico o la precedente amica, e proprio con il nuovo arrivato/a, quasi per evidenziare la beffa del capovolgimento inaspettato. Nei bambini tale comportamento è più frequente e più evidente, quasi da manuale, perché essi non fanno nulla per dissimularlo o attenuarlo, anzi tendono a esasperarlo; negli adulti lo si osserva più facilmente nelle donne, specie fra le ragazze giovani e in particolare le studentesse. Nei collegi, oggi meno frequentati di un tempo, esso era motivo di veri e propri drammi sentimentali e non di rado era all’origine perfino di tentativi di suicidio. Non bisogna vedere in ciò, necessariamente, la spia di un’omosessualità più o meno esplicita; l’elemento essenziale di tali repentini capovolgimenti d’amicizia e non è l’eros, ma l’esclusione dell’altro. È come se, piantando in asso l’amico o l’amica carissimi, e sostituendoli da un giorno all’altro con un nuovo amico/a del cuore, si volesse far vedere agli altri il proprio potere, e al tempo steso gratificarsi con l’inebriante senso di onnipotenza che ne deriva. Io posso spezzarti il cuore in qualsiasi momento, e tu non puoi farci niente; posso farti impazzire di delusione e di gelosia, e tormentarti con lo spettacolo della mia nuova felicità con l’amico/a che ti ha sostituito: e tu non hai alcuna carta in mano per reagire, non mi puoi ferire, non mi puoi toccare, sei costretto alla più totale impotenza, devi subire tutto quel che mi piacerà d’infliggerti, per tutto il tempo che lo vorrò. Questo è il messaggio, inespresso a parole, di tali comportamenti, e l’intenzione che rivela è un misto di sadismo e delirio di onnipotenza: infatti, cosa c’è di più esaltante, di più intenso, che esercitare il massimo dell’oltraggio e della sofferenza su chi sarebbe disposto a fare qualsiasi cosa, a subire qualsiasi umiliazione, pur di rientrare nelle nostre grazie?
Da un punto di vista morale, è impossibile non cogliere il sostrato profondamente malvagio, addirittura demoniaco, che anima la psiche di quanti indulgono a un simile comportamento; e il fatto che si tratti frequentemente di bambini non inficia per nulla la nostra affermazione. È profondamente sbagliato vedere nell’infanzia una età dell’innocenza, e nel bambino una sorta di creatura angelica, costituzionalmente incapace di fare o anche solo di concepire il male. Tutto al contrario: il bambino, ancor privo di freni inibitori, e l’adolescente, dominato dal bisogno di potenziare la propria autostima anche attraverso gesti clamorosi e provocatori, sono i soggetti ideali nei quali osservare un meccanismo psicologico che è proprio dell’uomo in generale, anche se l’adulto, rivestito di una patina di buone maniere e precetti morali, tende ad auto-inibirsi, o almeno a non esporsi troppo alle critiche e al biasimo che gli verrebbero da un modo d’agire eccessivamente spregiudicato. Dal punto di vista cristiano, poi, in tali comportamenti si può osservare e quasi toccar con mano le conseguenze del Peccato originale, che ci rendono ingiusti in quanto praticamente incapaci di vivere con il senso della giustizia, pur avendo gli strumenti per capire cosa è giusto e cosa è giusto e cosa non lo è. La giustizia infatti consiste nel dare a ciascuno ciò che gli spetta, secondo i suoi meriti; mentre qui vediamo all’opera un deliberato e intenzionale capovolgimento della giustizia, dato che l’amico o l’amica abbandonati non hanno fatto nulla per meritare una punizione, e del resto non c’è nulla che potrebbero fare per riconquistare il cuore dell’amato. Per questo abbiamo detto che in questo meccanismo psicologico, peraltro assai frequente, traspare un che di demoniaco: è evidente in esso il compiacimento di fare il male per il male, il gusto e la soddisfazione di fare qualcosa d’ingiusto e di crudele e di stare poi a vedere gli effetti dolorosi del proprio arbitrario comportamento. Sarebbe difficile sopravvalutare il danno che deriva alla psiche, specie infantile o adolescenziale, di un così repentino abbandono, condito con la salsa piccante del tradimento. Nn ci si limita a dire: Ecco, io ti pianto in asso, ti volto le spalle, non voglio più saperne di te, anche se non mi hai fatto nulla di male, anzi so che faresti qualsiasi cosa pur di compiacermi; ma è come se si dicesse: Non solo ti pianto, ma ti ho già sostituito: il posto che occupavi tu nel mio cuore, adesso lo occupa qualcun altro: e non ti risparmio il supplizio di costringerti ad assistere allo spettacolo della nostra felicità, mia e sua. È una cosa di una cattiveria tremenda, quasi insuperabile: si direbbe che da essa traspaia il sorriso del Diavolo in persona (diábolos, colui che divide).
Questo concetto può essere ben chiarito mediante un esempio, che in questo caso ci viene offerto da un ricordo della notissima saggista americana Nancy Friday, contenuto nel libro Mia madre, me stessa (titolo originale: My Mother/Myself, 1977; traduzione di Silvia Levi, Milano, Mondadori, 1980, p. 193):
Quando avevo nove anni, andai a un campeggio privato, in una bella casa colonica su un’isola coperta di muschio spagnolo. Mi capitò per la prima volta di soffrire di nostalgia, di impetigine [un’infezione batterica che si manifesta con la comparsa di vescicole sulla pelle; nota nostra] e di abbandono da parte di una delle mie migliori amiche. Il suo nome era Topsy e veniva da Atlanta. Dormivamo insieme, mangiavamo insieme, ci tuffavamo insieme mano nella mano dal trampolino sul grande pontile di quercia; stringemmo il patto di fare ogni cosa insieme, e in particolare essere sempre una per l’altra la migliore amica. Un giorno arrivò una madre e lasciò la sua bambina alla grande casa. Fu messa nella nostra stanza. Topsy e io la sbirciammo durante il pranzo, escludendola in modo evidente con le nostre risatine sciocche, come escludevamo tutti dal nostro mondo segreto. All’ora di cena ero io quella tagliata fuori. Bisbigliavano quando mi guardavano, condividendo segreti che pareva avessero condiviso per anni. La loro amicizia era nata dall’intensità della mia esclusione. Quella notte io giacqui nel mio letto cantando a me stessa «Avanti, soldati cristiani» per impedirmi di piangere. La testa mi doleva, mentre cercavo di capire cosa avessi fatto.
La cosa che lascia più pensosi, in questo tipo di comportamenti, che sono frequentissimi e che proprio nell’età infantile mostrano la loro natura originaria, istintiva, che non è frutto di circostanze esterne, ma di un orientamento specifico della natura umana, non è tanto il voltafaccia sentimentale in se stesso, per quanto brusco e crudele, e la velocissima sostituzione della persona amata con un’altra, apparsa magari il giorno prima; ma il suo presupposto logico e psicologico, che investe la natura stesa dell’amicizia. A quanto pare, e i casi da noi evidenziati ne sono la conferma proprio per la loro natura "estrema", non si dà vera amicizia senza complicità; e che altro è la complicità, se non l’esclusione deliberata, e in un certo senso ostentata, nei confronti degli altri? Stringendo un forte legame con un amico, o un’amica, si vuole al tempo stesso mandare un messaggio a tutti gli altri: «Guardate che io e lui, o lei, siamo in intimità completa, ci diciamo tutto, condividiamo tutto; mentre voi sarete esclusi per sempre, non vi diremo mai nulla, non vi sorrideremo mai allo stesso modo in cui sorridiamo fra noi; di più: la nostra amicizia è così forte e così esclusiva proprio perché presuppone la vostra esclusione, il fatto che voi siate all’esterno e che nulla ce ne importa di voi, vi consideriamo dei perfetti estranei, vi tratteremo sempre da estranei, neppure un briciolo del calore che esiste fra noi sarà condiviso con nessun altro, mai. E non perché, semplicemente, vogliamo tenerlo tutto per noi, ma perché non ve ne daremmo se anche ne avessimo in sovrabbondanza: è proprio il fatto che voi siate là fuori, esclusi, al freddo, a conferire questa deliziosa sensazione d’intimità nell’amicizia che esiste fra noi due». Lucrezio scriveva che è dolce, quando il mare è in tempesta, stare al sicuro sulla riva e osservare il travaglio di quelli che rischiano di fare naufragio: non per un sadico compiacimento della minaccia che incombe su loro, ma per il senso di sicurezza che, per contrasto, si prova standosene al sicuro. Ebbene, potremmo anche dire che il presupposto della complicità con un altro essere umano è simile, ma più maligno della situazione descritta da Lucrezio: perché la complicità esiste proprio in quanto esiste l’esclusione dell’altro, e lo spettacolo dell’altro che è escluso, e che annaspa là fuori, lontano dal nostro calore, tanto più se prima era lui (o lei) il nostro grande ed "eterno" amico, è uno spettacolo che rinsalda la complicità e conferisce all’amicizia quel gusto piccante che le viene dalla oscura coscienza di fare una cosa proibita, una cosa non bella. Ma cosa è bello e cosa è brutto, in senso morale, se gli uomini sono per natura ingiusti, ossia se pretendono ciò cui non hanno diritto? E che dire di una felicità che si ottiene ad esclusione dell’altro, godendo della sua esclusione e facendone un elemento di ebbrezza per sentirsi potenti? Solo Dio ci può salvare da quell’inferno che è il cerchio stregato dell’io. Solo Lui ci può insegnare a dire Tu e a fare la sua santa Volontà, non la nostra, sempre egoica, mutevole, capricciosa.
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