Il dubbio sulla morte è la ferita esiziale dei cristiani
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22 Dicembre 2020Benché rechi la firma del cardinale Péter Erdö, arcivescovo di Esztergom-Budapest, il vero autore della controversa Relatio post disceptationem, relazione ufficiale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia, tenutosi nell’ottobre del 2014, è stato monsignor Bruno Forte (cfr. Il Foglio del 18/10/14, articolo di Matteo Matzuzzi: La "Relatio" di Erdö l’ha scritta Bruno Forte). Napoletano, classe 1949, arcivescovo di Chieti Vasto, Forte è uno dei teologi preferiti del signor Bergoglio, che lo ha nominato segretario speciale di detta assemblea sia nel 2014 che nel 2015. Ammiratore di Hegel e Heidegger, citati nelle sue numerose pubblicazioni assai più di Sant’Agostino o san Tommaso, si può considerare un seguace e un continuatore delle teorie di Rahner, Bultmann, Jaspers, Lévinas, Mounier: nel più classico orizzonte ecumenico e interreligioso, come si vede, prendendo ispirazione da pensatori protestanti, ebrei, esistenzialisti e anche "cattolici", purché largamente compenetrati di modernismo. Se dovessimo indicare i due punti focali della riflessione teologica di Bruno Forte, diremmo: l’ecologia e le unioni omosessuali. Non tanto, genericamente, le unioni civili, ma proprio le unioni omosessuali. Questi, almeno, sono i temi che emergono con più forza dai suoi scritti, e che nella sua prospettiva appaiono di maggiore urgenza, come quelli che più direttamente interpellano la sensibilità dei credenti. Non usa volentieri la parola cattolici e, per la verità, anche la parola cristiani è utilizzata con una certa parsimonia, forse per non urtare la sensibilità dell’altro, come lo chiama Lévinas e come è oggi di gran moda dire per mostrare, sulla scia di Martini, che si è cattolici, sì, e magari anche consacrati, ma più che mai rispettosi di chi crede in un’altra religione o di chi è ateo militante e anticristiano.
Leggendo la Relatio post disceptationem si comprende meglio anche il senso della famosa allegoria di Bergoglio della Chiesa come un ospedale da campo ove i sacerdoti devono medicare le ferite degli uomini. L’espressione adoperata nella Relatio a proposito delle famiglie distrutte da infedeltà, adulterio e concubinato, è famiglie ferite, come se fossero state ferite da chissà quale nemico esterno e non dal peccato dei coniugi; il titolo dell’apposita sezione, infatti (§ 40), è: Curare le famiglie ferite (separati, divorziati non risposati, divorziati risposati). E che cosa si propone per curarle? Oltre ad agevolare e moltiplicare gli annullamenti dei matrimoni, ecco qui (§§ 45-47):
45. Le persone divorziate ma non risposate vanno invitate a trovare nell’Eucaristia il cibo che le sostenga nel loro stato. La comunità locale e i pastori devono accompagnare queste persone con sollecitudine, soprattutto quando vi sono figli o è grave la loro situazione di povertà.
46. Anche le situazioni dei divorziati risposati esigono un attento discernimento e un accompagnamento carico di rispetto, evitando ogni linguaggio e atteggiamento che li faccia sentire discriminati. Prendersi cura di loro non è per la comunità cristiana un indebolimento della sua fede e della sua testimonianza dell’indissolubilità matrimoniale, anzi essa esprime proprio in questa cura la sua carità.
47. Riguardo alla possibilità di accedere ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia, alcuni hanno argomentato a favore della disciplina attuale in forza del suo fondamento teologico, altri si sono espressi per una maggiore apertura a condizioni ben precise quando si tratta di situazioni che non possono essere sciolte senza determinare nuove ingiustizie e sofferenze. Per alcuni l’eventuale accesso ai sacramenti occorrerebbe fosse preceduto da un cammino penitenziale — sotto la responsabilità dal vescovo diocesano –, e con un impegno chiaro in favore dei figli. Si tratterebbe di una possibilità non generalizzata, frutto di un discernimento attuato caso per caso, secondo una legge di gradualità, che tenga presente la distinzione tra stato di peccato, stato di grazia e circostanze attenuanti.
Se si vuol trovare la fonte ispiratrice della falsa enciclica Amoris laetitia, che infatti è stata pubblicata l’8 aprile 2016 (anche se porta la data del 19 marzo, solennità di san Giuseppe), nella quale si autorizzano i divorziati risposati ad accostarsi al Corpo di Cristo, bisogna andare a questo documento e pertanto ringraziare l’eccellente monsignor Forte. Quanto al tema delle unioni omosessuali, che viene affrontato col pretesto del tema (mai messo in discussione da alcuno) dell’accoglienza verso le persone omosessuali, è un vero capolavoro di contorsionismo concettuale e di ambiguità gesuitica (§§ 50-52):
50. Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana: siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità? Spesso esse desiderano incontrare una Chiesa che sia casa accogliente per loro. Le nostre comunità sono in grado di esserlo accettando e valutando il loro orientamento sessuale, senza compromettere la dottrina cattolica su famiglia e matrimonio?
51. La questione omosessuale ci interpella in una seria riflessione su come elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale: si presenta quindi come un’importante sfida educativa. La Chiesa peraltro afferma che le unioni fra persone dello stesso sesso non possono essere equiparate al matrimonio fra uomo e donna. Non è nemmeno accettabile che si vogliano esercitare pressioni sull’atteggiamento dei pastori o che organismi internazionali condizionino aiuti finanziari all’introduzione di normative ispirate all’ideologia del gender.
52. Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners. Inoltre, la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli.
Nel § 50 si scaglia il sasso e si nasconde la mano: sappiamo accogliere nelle comunità ecclesiali le persone omosessuali? E sappiamo farlo senza compromette la dottrina cattolica? Così, da un lato si provoca il disagio dei cattolici, li si fa sentire in colpa suggerendo che non sempre sono accoglienti verso le persone, e poi, con una domanda senza risposta, così da non sporcarsi le mani a dire chiara e tonda un’eresia, nel perfido stile di Hans Küng, si introduce il tema dell’accettazione non della persona, che è fuori questione, ma del peccato. Nel § 512 si ammette, quasi a malincuore, che la Chiesa non può equiparare le unioni fra persone dello stesso sesso al matrimonio fra uomo e donna. È un’altra perfidia: da quale cilindro di prestigiatore sono saltate fuori le unioni omosessuali, se fino a quel punto si era parlato solamente di persone omosessuali? È una maniera subdola, ipocrita di far entrare dalla finestra ciò che era stato escluso dalla porta: se il dovere del cristiano è accogliere le persone omosessuali, come potrà poi il cristiano non accogliere le persone omosessuali che hanno instaurato una vera e propria convivenza, ossia un’unione civile di tipo omosessuale? Bruno Forte non arriva a dirlo; si limita a rendere inevitabile una risposta affermativa alla sua domanda implicita: date le premesse, come si potrebbe non giungere a una tale conclusione? Complimenti per la straordinaria abilità e sottigliezza nell’insinuare elementi chiaramente non cattolici, anzi del tutto anticattolici nella riflessione morale della chiesa cattolica: è un capolavoro di scaltrezza sul modello della Finestra di Overton: come far giungere la gente ad approvare, per gradi, qualcosa che si configura come l’esatto contrario di ciò che pensava prima, ma senza che si renda conto della contraddizione. Infine, nel § 52, la mossa conclusiva: non solo si parla delle unioni omosessuali dandole per scontate, mentre prima si era parlato solo delle persone omosessuali, ma si arriva a fare l’elogio dello spirito di sacrificio con il quale si sostengono reciprocamente i partners di alcune coppie omosessuali, dicendo che tale sostegno è un appoggio prezioso per la loro vita. Il trucco è questo: presentare le cose da una prospettiva tutta interna a tali coppie; escludere la visione trascendente e soprannaturale, escludere la prospettiva della vita di grazia; suggerire l’equivalenza fra il sostegno, tutto umano, che le persone si possono dare in un contesto di vita che è la negazione della morale cattolica e il sostegno che marito e moglie si danno nel contesto del matrimonio cristiano. E per spingere la freccia avvelenata sino in fondo, nell’ultima frase si butta lì un concetto ancor più eterodosso, ma sempre fingendo di tenere un profilo basso, un tono discorsivo estremamente dolce e sommesso: la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli. Bella dichiarazione d’intenti; ma il problema è un altro: non si tratta di affermare che i diritti dei bambini adottivi, e non solo delle coppie omosessuali, vengono sempre prima di qualsiasi altra cosa (e vorremmo ben vedere chi dicesse il contrario), il punto è che qui la Chiesa dovrebbe dire la sua a proposito di tali adozioni, a proposito del fatto che dei bambini si trovino a vivere in famiglie formate da genitori dello stesso sesso, ad esempio dei bambini ottenuti da una coppia lesbica mediante la fecondazione eterologa. Certo, queste situazioni esistono: ma la Chiesa, caro monsignor Forte, non si è mai limitata a prendere atto, come lei si esprime, dell’esistenza di certi dati di fatto: ha sempre avuto una sua dottrina, una sua proposta, un suo insegnamento, e non ha mai avuto paura di dirlo chiaro e forte, anche se risultava sgradito, perché la vera Chiesa non va in cerca degli applausi del mondo, semmai si preoccupa se persone come Pannella, Bonino e Scalfari tessono il suo elogio, perché s’interroga su cosa stia sbagliando, in cosa stia tradendo il Vangelo di Gesù Cristo. Pertanto è semplicemente ipocrita dire che i vescovi si preoccupano del bene dei bambini, quando sanno benissimo, altrimenti non dovrebbero essere vescovi della chiesa cattolica, che il fatto di vivere in tali famiglie, per quei bambini, non è per niente un bene, ma un male!
L’altro cavallo di battaglia di monsignor Forte, come abbiano detto, è l’ecologia. Nel libro Teologia della Storia. Saggio sulla rivelazione, l’inizio e il compimento (Edizioni Paoline, 1991), ad esempio, riesce a ficcare la questione ecologica letteralmente dappertutto, fino a sproloquiare di crisi ecologica e gloria della Trinità, facendosi fautore di un’etica e di una spiritualità ecologiche. Vale la pena di citare un passaggio del suo ragionamento (cit., p. 278):
Dio Trinità è il mistero del mondo, perché ne è al tempo stesso e inseparabilmente l’origine, il grembo e la patria, l’eterna provenienza, l’eterno "spazio" dell’avvento l’eterno avvenire, meta e ultimo senso di tutto ciò che esiste. La grande "casa" del mondo rimanda così alla sua "casa" trascendente, intima ad ogni cosa più che ogni cosa a se stessa: la "responsabilità ecologica", che la creatura libera e consapevole è chiamata ad avere verso ciascuna delle creature di Dio e verso l’insieme della "casa", che è il mondo, si radica propriamente in una "spiritualità ecologica", nel rapporto cioè alla divina "casa" dell’universo creato, che è la Trinità trascendente, al tempo stesso rivelata e nascosta in tutto ciò che esiste. L’etica come comportamento rimanda pertanto all’etica come "dimora", come agire conseguente, cioè, al riconoscimento specifico dell’ambiente vitale in cui si opera, quello penultimo delle cose create, e quello ultimo del divino mistero che crea e sostiene l’universo intero. La Trinità, "dimora" santa del mondo rivelata pienamente a Pasqua, fonda quest’etica e questa spiritualità ecologiche in quanto manifesta il fine cui deve tendere ogni agire creato e traccia la via per pervenirvi.
Non ci avete capito niente? Neanche noi. In questo diluvio di parole si capisce solo che la Trinità è la "dimora santa del mondo". Sfidiamo chiunque a negare che una tale definizione, fino al Concilio Vaticano II, avrebbe fatto sobbalzare qualunque vescovo e sarebbe valsa a qualsiasi studente di teologia una sonora bocciatura. In compenso abbiamo capito perché il signor Bergoglio parli con tanto entusiasmo della "nostra casa comune": è un concetto messo in circolazione da teologi come Bruno Forte, sempre nella prospettiva di centrare il cristianesimo sull’uomo e non su Dio. Dio viene tirato in ballo solo per dire che è il fondamento della nostra sensibilità ecologica, e che la "casa" del mondo rimanda alla "casa" trascendente. Sarà per questo che Bergoglio, nell’udienza generale del 23 agosto 2017, ha detto: Le pagine finali della Bibbia ci mostrano l’orizzonte ultimo del cammino del credente: la Gerusalemme del Cielo, la Gerusalemme celeste. Essa è immaginata anzitutto come una immensa tenda, dove Dio accoglierà tutti gli uomini per abitare definitivamente con loro?
Fonte dell'immagine in evidenza: RAI