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Il dubbio sulla morte è la ferita esiziale dei cristiani

Ma siamo proprio sicuri che dopo la morte del corpo c’è una vita eterna? Sicuri, sicuri? Ed è proprio vero che Gesù Cristo è uscito dal sepolcro il terzo giorno, primizia della vittoria finale sul peccato e sulla morte? Da quando questi dubbi sono entrati, come la punta d’una freccia avvelenata, nella coscienza dei cristiani, il cristianesimo ha incominciato a morire, a scadere al livello di un fatto storico come tanti, che ha avuto il suo inizio, la sua espansione, la sua parabola ascendente e che presto o tardi finirà, come tutti gli altri fatti storici, perché nulla è perenne nella storia, tranne l’oscura certezza che la morte ha l’ultima parola, e quasi tutte le filosofie e le religioni altro non sono che dei tentativi, più o meno lucidi, più o meno disperati, per rompere il cerchio angoscioso di questa certezza e conquistare la speranza rasserenante della vita eterna. Il modernismo, che nasce appunto come tentativo di storicizzare radicalmente il cristianesimo, si è confrontato direttamente con la questione della morte: andandole incontro con piglio risoluto, ha creduto di esorcizzarne la paura; ma la paura è rimasta, anzi, è entrata nella casa da cui era stata espulsa per un paio di millenni, e ha ripreso a lavorare come un tarlo, erodendo in brevissimo tempo le strutture che parevano più solide, e ora tutto l’edificio è talmente consunto che potrebbe crollare da un momento all’altro. La paura della morte propagata dall’emergenza sanitaria e dalle notizie terrorizzanti sugli effetti del Covid-19, che hanno paralizzato sin dall’inizio la vita ecclesiale, sono la riprova di quanto a fondo il modernismo fosse entrato nei tessuti del cattolicesimo, di quanto si fosse sostituito, un tassello dopo l’altro, una molecola dopo l’altra, alla vera e robusta fede che sussisteva da quasi duemila anni e che ancora alla vigilia del Concilio Vaticano II pareva poggiare solidamente sulle sue basi (anche se si trattava più di un’impressione esteriore che di una realtà effettiva). Chiudendo le chiese, sospendendo la santa Messa sostituendo l’acqua benedetta con il disinfettante per le mani; maneggiando il Corpo di Cristo come un pezzo di pane che invece di dare la Vita potrebbe trasmettere l’infezione; lasciando morire i malati in solitudine, senza la confessione e l’estrema unzione, senza un funerale decente, il clero ha firmato il certificato di morte della falsa chiesa massonica e modernista. Possiamo solo sperare che la vera chiesa di Gesù Cristo, attraverso questa prova durissima, trovi la forza di riemergere e di scacciare lontano quella falsa, la contro-chiesa di Satana, emancipandosi da decenni di sudditanza psicologica, culturale, intellettuale, spirituale e vincendo il complesso d’inferiorità che le era stato cucito addosso dai sedicenti cattolici "adulti" e "moderni". Perché questo avvenga, tuttavia, è necessario fare i conti con la malattia esiziale di cui la paura del Covid è solo l’ultima e parossistica manifestazione: il dubbio lacerante sulla morte e sul nulla che forse ci attende, al posto della vita eterna in cui credevano i nostri semplici e un po’ ingenui genitori e nonni.

Uno dei documenti nei quali la perfidia modernista ha insinuato con più abilità e con maggiore faccia tosta il pungiglione del dubbio sulla morte è, a nostro avviso, il libro del teologo Hans Küng intitolato, significativamente, Vita eterna?, con il punto di domanda apparso all’inizio degli ani ’80 in quella Chiesa tedesca (anche se Küng, classe 1926, è svizzero, del Canton Lucerna) che già allora appariva come la più decisa nel portare avanti, in senso laicista e immanentista, le istanze estreme del tanto celebrato "spirito" del Concilio. Con l’artificio retorico del punto di domanda, l’autore è riuscito a insinuare il cuneo del dubbio in tutta una serie di punti nevralgici della fede: ricordiamo, fra i suoi titoli, Infallibile? Una domanda (1970); Preti perché? Un aiuto (1971); Fallibile? Un bilancio (1973); Dio esiste? Risposta al problema di Dio nell’età moderna (1978): e si noti che Dio, per lui, è un problema, un problema che va affrontato con gli strumento della cultura moderna e non come quei povero bifolchi dei nostri avi. Ed ecco alcune perle da Vita eterna? (titolo originale: Ewiges Leben?, 1982; traduzione di G. Moretto, Milano, Mondadori, 1983):

(Sull’idea della morte nel Nuovo Testamento, cit., p. 100):

Chi, come il cristiano, è abituato a cogliere senza esitazione l’Antico Testamento in una presunta continuità storico-salvifica con il Nuovo, si renda conto che cosa significhi: TUTTI I PATRIARCHI DI ISRAELE, Abramo, Isacco e Giacobbe, Mosè e i Giudici, i re e i profeti, Isaia, Geremia ed Ezechiele, attendevano, per sé come per tutti gli altri uomini, una tale fine nell’oscurità: eppure essi sono vissuti e hanno agito in virtù di una fede incrollabile in Dio. Tutti questi ebrei — per più di un millennio — NON HANNO CREDUTO IN UNA RESURREZIONE DEI MORTI, in una resurrezione nel senso positivo del termine, in un cielo "cristiano". Con enorme coerenza essi si sono concentrati sull’aldiqua, sena preoccuparsi molto di questo aldilà: in ogni caso, fosco, oscuro, senza speranze.

Questo è un buon esempio della perfidia tipica di questo autore: perfido è chi vuole introdurre un concetto non esplicito, ponendo artatamente l’interlocutore di fronte all’impossibilità di evitarne le conclusioni, ma, da parte sua, senza sporcarsi le mani col dirlo chiaro e tondo. A quanto pare, per Küng o si crede nella totale discontinuità fra Antico e Nuovo Testamento, oppure bisogna ammettere che i cristiani si sono inventati una credenza nell’aldilà che prima non esisteva affatto; e pazienza se un certo Gesù Cristo, sulla croce, ha detto al buon ladrone: Oggi stesso tu sarai con me in paradiso. Corollario: bisogna concentrarsi sulla vita terrena, sulla giustizia sociale, e mettiamoci pure il clima e l’ambiente, come oggi insegna un degno erede di questa tradizione pseudo teologica, che per caso risiede nella Casa Santa Marta e usurpa le funzioni del pontefice romano; chi pensa che il Regno di Dio non sia di quaggiù, evidentemente vuol rifilare agli uomini il ben noto (ai marxisti) oppio dei popoli.

E a proposito del signore di Casa Santa Marta, per il quale la Via Crucis è la storia del fallimento di Dio, ecco dove egli può aver tratto la sua bellissima e consolante affermazione (pp. 111-112):

Come già i profeti, Gesù non ebbe un successo pieno, alla fine fu, anzi, respinto. Come i profeti, egli dovette soffrire. Ma la sua sofferenza a, più di quella di ogni altro profeta, alla sofferenza di quel misterioso Servo di Dio del Deuteroisaia, che porta i peccati di molti e intercede per i colpevoli. Così, per lo meno, lo si è compreso in seguito. L’immagine, offerta allora dalla morte di Gesù, era l’immagine di un FALLIMENTO, non accidentale, ma INEVITABILE. Non si può, a questo punto, reprimere un interrogativo: NON è egli MORTO INVANO?

Certo, date le premesse l’interrogativo è insopprimibile; ma le premesse non sono quelle del cattolicesimo, bensì del modernismo, che storicizza tutto, anche la morte di Cristo; e si sa che, per la storia, nessuno è mai risorto da morte. Anche qui colpisce l’analogia con il signore di Casa santa Marta, il quale ha affermato che la morte di Cristo è un fatto storico, mentre la sua resurrezione è un atto di fede. Bergoglio discepolo di Hans Küng? Più probabile che entrambi si siano abbeverati alle stesse fonti (velenose). Il teologo svizzero, dopo aver affermato senza mezzi termini che la Resurrezione di Cristo è un atto di fede e non un evento storico (cfr. p. 125), si lancia in una serie di confuse e ambigue elucubrazioni per dire che l’atto di fede si rivolge a qualcosa di reale, anche se non di storico: e afferma, a parole, che tale realtà è di consistenza non minore, semmai maggiore, di quella storica: ma la verità è che riesce solo a fare una gran confusione e a seminare dubbi laceranti nella mente e nella coscienza del suo pubblico, senza dare risposte convincenti. Gli piace giocare sull’orlo del precipizio, ricorrendo a tutti i trucchi e i sofismi, perfino quello d’interrompere la fabula sul più bello, come facevano i romanzieri d’appendice, per riprenderla nella lezione successiva; il libro infatti è formato dai testi di una serie di nove lezioni tenute nel 1981 all’Università di Tubinga. Quel che al lettore andrebbe detto è che fin dal 1979 al teologo Hans Küng era stata tolta la missio canonica, cioè l’autorizzazione a insegnare teologia cattolica: cosa che non gl’impedì di continuare a insegnare come professore indipendente, ma in compenso gli diede la possibilità di presentarsi come un perseguitato, e di paragonare la Congregazione per la dottrina per la fede alla polizia politica di Stalin. Come tutti gli ultraprogressisti, non fu mai sfiorato dal dubbio che è semplice onestà intellettuale uscire da un’istituzione della quale non si condividono più i principi fondamentali, senza neanche aspettare d’esserne cacciati: troppo ghiotta era l’occasione di spacciarsi per vittima innocente e far passare l’istituzione per una macchina di potere spietata e nemica della libertà di pensiero (cfr. i nostri precedenti articoli: Hans Küng: cattivo teologo e seminatore di confusione e Il livore anticattolico di Hans Küng mostra senza fronzoli il vero senso della sua "teologia", pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova rispettivamente il 12/01/18 e il 31/01/18). Ma è pur vero che egli era stato uno dei teologi che avevano partecipato, in posizione di "esperti", al Concilio Vaticano II, su nomina di Giovanni XXIII; e che molte delle tesi da lui successivamente elaborate, in particolare un pluralismo religioso radicale, che contesta frontalmente il dogma che la sola salvezza è nella Verità di Cristo, oggi sono tornate in onore e anzi costituiscono l’impalcatura pastorale del signor Bergoglio e di tutto il vertice ultraprogressista, in particolare della solita chiesa tedesca, oggi rappresentata dal cardinale Reinhard Marx.

Ma vediamo quali sono le conclusioni del libro di Hans Küng (cit., p. 268):

Che cosa significa credere in un compimento finale nella vita eterna a opera del Dio, che si è rivelato in Gesù di Nazareth?

Credere in una vita eterna significa convincersi, con ragionevole fiducia, con fede illuminata e speranza provata, che un giorno io sarò pienamente compreso, liberato dalla colpa e definitivamente accettato, potrò essere me stesso senza paura; che la mia esistenza opaca e ambivalente, come in generale la storia umana profondamente lacerata, diventerà definitivamente comprensibile e la domanda circa il senso della storia troverà finalmente una risposta.

Tutto chiaro? No, per niente. Noi, almeno, non abbiamo capito nulla, tranne una cosa: che l’autore qui non parla affatto della vita eterna, ma della sua credenza soggettiva sulla vita eterna: fedele alla svolta antropologica di Karl Rahner, non osa affermare la vita eterna come una certezza oggettiva, ma preferisce parlarne in privato, a livello di chiacchiera. Un chiacchiericcio ambiguo, scivoloso, gesuitico, dal quale non traspare in modo chiaro cosa pensi davvero Hans Küng. Che c’entra con la vita eterna la credenza che un giorno io sarò pienamente compreso, liberato dalla colpa e definitivamente accettato, potrò essere me stesso senza paura? E che c’entra i l’auspicio che la mia esistenza opaca e ambivalente, come in generale la storia umana profondamente lacerata, diventerà definitivamente comprensibile? Questa è psicologia, anzi psicopatologia: l’attesa nevrotica di una "liberazione" tutta intramondana, pasticciata contraffazione della liberazione vera, quella che viene da Dio, e precisamente da Gesù Cristo morto e risorto. Perciò si torna sempre lì, alla Resurrezione di Cristo, che Küng prende con le molle, rifiutandosi di accettare il racconto dei Vangeli e prediligendo invece la Prima lettera ai Corinzi, in quanto più antica e, secondi lui, più attendibile, perché sposta la prospettiva dall’evento storico, dubbio, alla realtà teologica, più consona alla comprensione di quella realtà. Peccato che non abbia riflettuto a sufficienza sulle parole di san Paolo che, in quello stesso testo, senza alcuna ambiguità, afferma (1 Cor 15, 12-22):

^12^Ora, se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? ^13^Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! ^14^Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. ^15^Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo mentre di fatto non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. ^16^Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ^17^ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. ^18^Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. ^19^Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini. ^20^Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. ^21^Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. ^22^Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita. 

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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