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Per potersi difendere bisogna capire chi è il nemico

Lungomare di Riccione, fine di luglio o inizio di agosto del 1943. Il fascismo è caduto, ma il proclama radiofonico di Badoglio ha annuncia agli italiani, a scanso d’illusioni, che la guerra continua, anche se in molti, in moltissimi non ci credono e non lo prendono troppo sul serio. Quelli che ci badano meno di tutti, naturalmente, sono gl’innamorati: all’amore non interessa se c’è o non c’è la guerra; l’unica cosa che vogliono sapere — non è vero? – è dove si trova l’altro, cosa starà facendo in questo preciso momento, se sta pensando a lui o a lei; e contare quanti giorni, ore o minuti mancano al prossimo appuntamento. Così è anche per Carlo Caremoli, figlio ventenne di un gerarca che dopo il 25 luglio ha dovuto scappare per sottrarsi al linciaggio, e Roberta Parmesan, vedova trentenne di un ufficiale di marina, eroe di guerra: nel film di Valerio Zurlini Estate violenta, del 1959, i loro volti sono rispettivamente quelli di Jean-Louis Trintignant e di Eleonora Rossi Drago. Una sera stanno per appartarsi nel capanno da spiaggia di fronte al Grand Hotel Riccione, quando vengono sorpresi da una ronda militare e l’ufficiale, illuminandoli con la torcia elettrica, chiede loro chi sono e cosa stanno facendo in quel luogo e a quell’ora.

Vale la pena di riportare le battute del dialogo breve, ma intenso, che si accende tra l’ufficiale e Carlo Caremoli (https://www.youtube.com/watch?v=7LVws84T73U):

Tenente: Non sapete che è proibito circolare sulla spiaggia dopo il tramonto?

Carlo: No, non lo sapevamo.

Roberta: Abbassi quella luce! (l’altro la sposta sul giovane, poi la spegne).

Tenente (sempre rivolto a Carlo, con tono formale ma un po’ ironico): Ah! E che c’è la guerra, lo sapete? (Avvicinandosi, dopo una pausa, cortese ma deciso): Documenti.

Carlo: Sì, subito (gli porge la carta d’identità).

Tenente: (restituendogliela): No, questo. Documenti militari.

Carlo: Ah, sì. (Gli porge, esitando, il foglio di congedo temporaneo).

Tenente (a un soldato): Fatemi luce qui. (Esamina la carta; poi, restituendola a Carlo): Bene. Il vostro foglio militare è scaduto. Come la mettiamo?

Carlo: Non è possibile, me l’hanno rinnovato a Roma.

Tenente: Dico, giovanotto, ce ne intenderemo noi di questi pasticci, no? Stiamo a prenderci in giro?

Carlo (rinunciando a fingere): No, ha ragione. Ma… dovevo ripresentarmi il 30 a Bologna. Solo, dopo quello che è successo…

Tenente: Che cosa è successo? È finita la guerra? Su, andiamo al comando. (Rivolto a Roberta): Voi potete andare. (Lei fa un passo in là, ma non si allontana).

Carlo (indicandola): Non… potrei accompagnare la signora?

Tenente (si capisce che sta per acconsentire tacitamente): La vostra carta d’identità.

Carlo (gliela ridà): Ecco.

Tenente (infilandosela nel taschino dell’uniforme, poi guardandolo dritto negli occhi): E domani in mattinata a Bologna. Intesi?

Carlo: Grazie.

Tenente: E cerchiamo di essere precisi. C’è poco da scherzare. (Si allontana con un cenno di saluto, seguito dai suoi due soldati).

Ecco: in quei cinque minuti di grande cinema Valerio Zurlini mostra come si possa dare, con garbo, una lezione di vita a quelli che, per ragioni soggettive, si sono estraniati dal mondo e non si sono neppure accorti che il proprio Paese sta vivendo un’ora estremamente drammatica: una di quelle ore dalle quali dipende il futuro di tutti, per chissà quante generazioni. E così è stato, infatti. Cerchiamo perciò di essere seri anche ora, perché c’è poco da scherzare.

Anche noi, oggi, siamo in guerra, ma, strano a dirsi, molti non se ne se sono neppure accorti. A loro parziale giustificazione c’è da dire che si tratta di una guerra molto diversa, nelle sue manifestazioni da tutte le guerre del passato: niente chiamata alle armi, né tessere annonarie, né bombardamenti aerei, e neppure sbarchi di eserciti supportati da azioni aeronavali; gli effetti, tuttavia, sono molto simili a quelli di una guerra, e per giunta di una guerra che si sta perdendo: disgregazione sociale, disoccupazione, miseria morale e materiale. E ciò per la buona ragione che questa guerra nasce dalla stessa identica radice delle altre: la volontà di dominio della grande finanza sui popoli che ancora vi si sottraggono, e quella di ribadire e aumentare la pressione su quelli che già vi sono sottoposti. Se si passeggia lungo le strade delle nostre città, venti o trent’anni fa brulicanti di vita e di attività commerciali, non si può non restare colpiti della malinconia, dalla tristezza, dallo spopolamento e dal senso di abbandono: ovunque negozi chiusi, locali abbandonati, esercizi in vendita o in affitto. Poca gente per la via e non solo adesso, in regime di semi-reclusione per l’emergenza sanitaria, ma già da parecchi anni; pochi bambini, poche mamme con le carrozzine, perfino meno automobili in circolazione. La sera, poi, il paesaggio si fa addirittura spettrale, anche d’estate: non più famiglie a spasso per gustare il gelato e coppie che vanno o tornano dal cinema; alle otto di sera pare già che ci sia il coprifuoco. In compenso, una quantità strabocchevole d’immigrati, specialmente africani e asiatici, spesso coi loro abiti tradizionali, padroni delle strade, dei marciapiedi, dei giardini, delle panchine, delle aree antistanti le stazioni ferroviarie: gente venuta da ogni angolo della terra, accomunata solo dal miraggio del benessere e dallo scarso amore e rispetto per il Paese che l’ha accolta, e che considera terra di conquista. E loro, sì, con tanti, tantissimi bambini: mamme che vanno in giro portandosene dietro tre o quattro, tutte infagottate nello chador o anche nel burqa, infischiandosene della legge italiana che vieta di girare con il volto nascosto (anzi che lo vietava, perché ora, con l’obbligo della mascherina, stranamente vige la legge opposta). Sono arrivati ieri, e hanno già assunto l’aria e i modi dei futuri padroni: sono proprio tutti quei bambini a darne loro l’assoluta certezza.

E quando è incominciata la guerra che si sta combattendo sulla nostra pelle ed è già costata dolori e lacrime e la perdita di milioni di posti di lavoro? Potremmo dire: dal 1945; ed è entrata nella fase decisiva nel 1992. Ma per capire quando inizia una guerra, bisogna capire quando è iniziata, non solo quando è formalmente terminata, la guerra precedente. Ora, noi tutti siamo stati indotti a credere che la Seconda guerra mondiale, l’ultima guerra combattuta su scala planetaria con le armi convenzionali, è iniziata il 1° settembre 1939, quando Hitler ha attaccato la Polonia. Qualcuno, più scrupoloso, precisa: il 3 settembre, quando Francia e Gran Bretagna sono entrate in guerra contro la Germania. Chi crede ciò, non ha compreso che tutte le guerre moderne sono state guerre del capitale contro il lavoro, non guerre fra Stati: o meglio, gli Stati si sono affrontati al servizio di quelle due forze. La Seconda guerra mondiale ha inizio il 23 marzo 1933, quando l’internazionale ebraica dichiara guerra al popolo tedesco. Questa non è propaganda, ma la realtà dei fatti. Si consulti la prima pagina del Daily Express del 24 marzo ’33: reca un titolo a caratteri cubitali: Judea Declares War on Germany; sottotitolo: Jews of All the World Unite in Action (https://www.altreinfo.org/una-storia-diversa/25194/). Gli ebrei attuarono un boicottaggio sistematico dell’economia tedesca, e ciò quando era già a terra per effetto della Grande Depressione partita dagli Stati Uniti nel 1929, con milioni di disoccupati. Hitler era appena andato al potere, mediante elezioni democratiche, e non aveva ancora preso alcun provvedimento contro gli ebrei; al contrario, aveva potuto avvalersi dei finanziamenti dei banchieri ebrei dei Paesi anglosassoni. Non è questa la sede per sviluppare un’approfondita ricostruzione storica, ma i fatti sono questi. Sappiamo che parlare di ciò significa sollevare un vespaio; o meglio, che parlare di ciò è intollerabile dal punto di vista del Politicamente Corretto, che ha scritto la storia di quelle vicende una vola per tutte e non ammette alcuna voce discorde, bollandola subito come revisionismo e negazionismo e attivando anche misure penali contro i colpevoli. E tuttavia, se ci si rassegna a tacere su questo punto, bisogna rassegnarsi anche ad auto-mortificare la propria intelligenza su tutto il resto, e condannarsi a non capire nulla, o a non voler capire nulla, di ciò che sta accadendo ai nostri giorni, l’anno di grazia 2020, dietro le quinte della cosiddetta pandemia e della cosiddetta emergenza sanitaria.

L’attacco tedesco alla Polonia ebbe luogo dopo che la Polonia, istigata da Churchill, che le aveva offerto un’ingannevole protezione politico-militare, rifiutò di trattare con Berlino un accordo complessivo che sistemasse una volta per tutte la questione del Corridoio di Danzica. Churchill aveva i suoi scopi e le sue direttive. Fin dal 1936 aveva dichiarato: Se la Germania continua a crescere a questo ritmo, dovremo distruggerla un’altra volta. Quindi la sua idea era quella, prima della Conferenza di Monaco e prima dell’annessione tedesca della Cecoslovacchia, che, si dice, orientò il governo britannico a lasciar cadere la politica di appeasement, già tentata da Chamberlain. Ma è sbagliato pensare a uno scontro fra Stati: la coalizione antitedesca fu messa in piedi da quel potere finanziario che aveva dichiarato guerra sin dal 1933. Lo stesso che impose il blocco sui rifornimenti marittimi di materie prime tedesche all’Italia, ancora neutrale, costringendola a fare la sua scelta di campo prima che il carburante le venisse a mancare e la sua flotta divenisse inutile. Lo stesso che decretò l’embargo di petrolio e materie strategiche al Giappone sospingendolo all’azzardo di Pearl Harbor. Nel 1945 non fu la democrazia a vincere (del resto, della coalizione faceva parte anche l’Unione Sovietica di Stalin), ma la grande finanza mondiale, che aveva tirato le fila dietro le quinte. La stessa che ora sta tirando le fila dietro la falsa pandemia da Covid-19, un virus messo in circolazione apposta per fornire il pretesto al Great Reset, l’azzeramento della economia mondiale, affinché le ultime sacche di resistenza dei popoli vengano annientate. Deve stravincere il capitale finanziario, mentre il lavoro deve scomparire e i lavoratori devono diventare schiavi, mantenuti dalla carità dei governi, come al tempo di Roma imperiale. La formula è sempre la stessa: panem et circenses, cibo e televisione; anche se ciò che manda in onda la televisione è tutt’altro che divertente, e in pratica consiste nel creare nella gente uno stato di terrore cronico e inestirpabile, che diventi in essa quasi una seconda natura, così da renderla sempre più docile e malleabile a ciò che viene deciso dall’alto. Per questo viene colpito al cuore il ceto medio, per questo si mettono imprenditori e commercianti in condizioni di dover dichiarare fallimento. Per questo si ostacola in mille modi il fatto che la gente vada a fare la spesa nei negozi (ed ecco la multa se ci vanno in due, marito e moglie): bisogna che a vendere i loro prodotti siano solo le multinazionali che si avvalgono della consegna a domicilio, saltando la trafila commerciale e utilizzando direttamente le ordinazioni via internet. Solo Jeff Bezos si deve arricchire con le vendite online; solo Bill Gates si deve arricchire con la vendita dei vaccini brevettati (avete notato che non si parla più, se mai se n’è parlato, di come curare i malati di Covid-19, si aspetta il vaccino miracoloso e basta); e solo Soros deve avvantaggiarsi della gabbia di ferro che la BCE, tramite il MES, imporrà ai popoli europei, cominciando dall’Italia. I piccoli imprenditori, i commercianti, gli albergatori, i ristoratori, tutti quelli che vivono onestamente e dignitosamente del proprio lavoro e che possiedono una sia pur ridotta indipendenza economica, devono sparire. Il Nuovo Ordine Mondiale non ne ha bisogno, non li vuole, non li tollera più. Tutto, tutto deve finire nelle mani dei supermiliardari che da decenni, da secoli, vivono di speculazione, e che si sono avvicinati un po’ alla volta, per tappe, al loro obiettivo finale, per esempio ottenendo lo scorporo dei ministeri dell’economia dalle banche centrali, indi la soppressione della distinzione tra casse di risparmio e banche d’affari. Per ciascuna di queste vicende ci sono i nomi, ci sono i documenti, ci sono le date che chiunque può andare a verificare. Manca una cosa sola affinché il quadro sia chiaro e completo: unire i fili che portano alla cabina di regia di tutta questa operazione mondiale. Ma, dicono tutti i politici e tutti i sedicenti politologi e tuttologi, spalleggiati da tutti i mass-media, non c’è alcuna cabina di regia: azzardarsi a dirlo è fare del complottismo. Benissimo: allora vuol dire che la globalizzazione non ha padri né madri, e che pur essendo un fenomeno sincronizzato, è tuttavia spontaneo, nato dal libero gioco delle forze economiche e sociali. Sarà. Strano, però. Sappiamo che dietro ogni fenomeno c’è una causa; e quanto più ampio è il fenomeno, tanto più specifica la causa. Questo pertanto sarebbe il primo caso di un fenomeno mondiale che è nato da solo, si è prodotto da se stesso e tuttavia, guarda caso, sta trasferendo tutta la ricchezza mondiale nelle mani delle stesse, poche persone, mentre sta impoverendo tutti gli altri. Sì, lo sappiamo: è un discorso terribilmente scorretto. Spiacenti, ma i fatti sono questi. Lasciamo che i pennivendoli del potere globale raccontino che, nella storia, i buoni vincono perché difendono il Bene. Osservandoli da vicino, ci permettiamo di avere qualche dubbio.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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