Che fare se Golia possiede i media e Davide la voce sola?
8 Dicembre 2020Da dove vengono ansia, paura, tristezza e angoscia?
10 Dicembre 2020Uno dei pilastri del Pensiero Unico oggi dominante è l’idea metafisica e soteriologica del Dialogo: il dialogo sempre e comunque; il dialogo con chiunque e a prescindere; il dialogo come strategia e come tattica, come fine e come mezzo, come alfa e omega di qualsiasi altra cosa, di qualsiasi ulteriore passo da compiere, ovunque si voglia andare e qualunque decisione s’intenda prendere. Dalla religione alla pedagogia, dalla politica alla cultura, il dialogo è il toccasana di tutti i mali, il rimedio a tutte le malinconie, la panacea per tutte le tristezze. Il compagno di classe di nostro figlio si presenta a scuola con il cacciavite e il martello, prende a pugni tutti quanti e minaccia di cavare un occhio a quelli che non gli vanno a genio, cominciando dalla maestra? La soluzione c’è ed è una sola: dialogare. I clandestini arrivano a migliaia e migliaia, si disperdono per tutta l’Italia, delinquono a più non posso, spacciano, rubano e stuprano mentre è ancora in corso l’iter per la concessione dello status di rifugiati? Niente paura, è tutto solo un malinteso, un equivoco: bisogna dialogare, e presto le cose si aggiusteranno.
Ha iniziato il Concilio Vaticano II, anzi questa è stata proprio l’anima profonda del Vaticano II: il dialogo al posto della verità; il dialogo in luogo del dogma; il dialogo invece della dottrina. I padri allora non lo dissero, anzi dissero il contrario, però avevano gettato il cattivo seme che ora è giunto al pieno sviluppo: cioè a dire apertamente, da parte dei massimi esponenti della gerarchia cattolica, che la verità non è una, ma plurale; che i dogmi in certi casi devono essere rivisti e corretti, per rendere più attuale il messaggio cristiano; che non bisogna intestardirsi a difendere la dottrina stessa, perché ciò è indice di un atteggiamento rigido e poco misericordioso, quindi difforme dal vero spirito del Vangelo. E il dialogo per eccellenza, il Dialogo per antonomasia, è senza dubbio quello coi fratelli maggiori, cioè con quegli ebrei che troppo a lungo sono stati discriminati e guardati con sospetto e malcelato disprezzo proprio dai cristiani, i quali, dunque, hanno un lungo conto d’ingiustizie da farsi perdonare, e devono farlo percorrendo tenacemente la strada del dialogo. E qual è sempre stata la maggior pietra d’inciampo sulla strada del Dialogo, se non la morte di Gesù Cristo? Perché nei quattro Vangeli si dice chiaramente che a volere la morte di Gesù, ad ogni costo, furono i suoi confratelli ebrei; fu il Sinedrio di Gerusalemme; furono gli scribi e i sommi sacerdoti, e anche una bella fetta del popolo; e che in seguito, dopo l’inizio della predicazione da parte degli Apostoli, quelli che opposero le maggiori resistenze, anzi, quelli che scatenarono le prime persecuzioni, servendosi dei romani per attuare le loro vendette furono gli ebrei, non i pagani. Cosa del resto che Gesù aveva predetto (Lc 21,12): metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e a governatori, a causa del mio nome. Queste cose sono divenute perciò molto imbarazzanti e seccanti, molto politicamente scorrette. Bisognava trovare la maniera di neutralizzarle, pur senza dire a chiare note che i Vangeli mentono: aiutati, in ciò, dagli intellettuali ebrei i quali, da pare loro, al dialogo non hanno mai creduto troppo, o ci hanno sempre creduto a modo proprio.
Citiamo un passo di Riccardo Calimani Storia dell’ebreo errante (Milano, Rusconi, 1987, pp. 54-5):
Il Vangelo di Matteo è stato scritto verosimilmente ad Alessandria, una città con una importante comunità ebraica e probabilmente una ebraico-cristiana. Matteo esalta il Cristo pacifico: "Beati i poveri in ispirito perché di essi è il Regno dei cieli… Beati i miti perché possederanno la terra… Beati coloro che operano per la pace… perché saranno chiamati figli di Dio"Un pacifismo totale, quasi esasperato: "Beati gli afflitti perché saranno consolati". E ancora: E chiunque ti costringe a seguirlo per un miglio, fanne con lui due". "Avete udito che fu detto: amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano".
L’ideologia cristiana sugli ebrei si arricchisce del gesto simbolico di Pilato che si lava le mani (un’usanza giudaica, non romana, il cui significato è chiaro però per i lettori di Matteo, cristiani di origine ebraica) e dichiara: "Io sono innocente del sangue di questo giusto. Ve la vedrete voi". Un procuratore romano non avrebbe mai potuto comportarsi così senza incorrere nelle ire dell’imperatore della cui autorità indiscussa era rappresentante" (Care Mannucci, "Gesù e l’ideologia cristiana sugli ebrei, "Comunità", n. 171, 1974, pp. 171-182).
Matteo è però consapevole che solo gesti espliciti e clamorosi
Possono cambiare la reale responsabilità della more di Gesù, e dopo la pubblica dissociazione di Pilato dalla condanna descrive addirittura la spontanea accettazione di questa responsabilità da parte degli ebrei: "E tutto il popolo rispose: ‘Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli’". Questa frase terribile che peserà nei secoli sulle spalle degli ebrei e diventerà un simbolo astorico e immutabile, buono per ogni occasione, viene scritta da Matteo in un momento particolare, alla luce della catastrofe che aveva colpito il popolo ebraico nel 70. Altro paradosso: Matteo, ebreo cristiano che scriveva per i propri correligionari, avverte che quel disastro Israele se l’è tirato addosso per aver rifiutato il messia. Matteo scagiona i romani, colpevolizza gli ebrei, ma non sa che quelle parole, "il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli", resteranno nei secoli, nelle scritture cristiane e nell’animo cristiano, una auto confessione degli ebrei per l’assassinio di Cristo. Fino ai giorni nostri, quelle parole hanno ispirato odio per gli ebrei e giustificato le più crudeli persecuzioni contro di loro. "è davvero una delle strane ironie della storia che proprio nel più ebraico dei quattro Vangeli gli ebrei vengano ritratti così drammaticamente come gli assassini di Cristo" (Mannucci, id.).
Nel libro di questo autore – che, contrariamente a quanto suggerisce il titolo, è in realtà una storia degli ebrei della cosiddetta diaspora, e che fin dall’inizio istituisce una connessione arbitraria fra la caduta di Gerusalemme nel 70 d.C. e la dispersione degli ebrei, dispersione che invece esisteva da secoli e si era svolta su base volontaria, un po’ come quella dei fenici nei quattro angoli del mondo antico — oltre a ribadire, per l’ennesima volta, il concetto che Gesù era un ebreo, vissuto sotto la Legge ebraica, e quindi arbitrariamente "cristianizzato" dai suoi seguaci, si afferma senza perifrasi che Matteo avrebbe manipolato la realtà dei fatti per scagionare i romani da ogni responsabilità nella morte di Cristo e addossarne interamente la colpa sugli ebrei. Anche se un intero capitolo è dedicato a ribadire il concetto di Gesù, ebreo, nemmeno un rigo viene speso per considerare la responsabilità ebraica nel rifiuto del Messia e nella morte di Cristo: in compenso, un intero capitolo è dedicato a dichiarare che i Vangeli sono falsi, perché raccontano una storia diversa da ciò che accadde veramente. E cioè che Pilato non avrebbe mai potuto far condannare Gesù, se davvero lo avesse riconosciuto pubblicamente innocente; che a volere la morte di Cristo furono i romani, più che gli ebrei (strano, poiché Pilato mostra di non conoscere affatto la predicazione di Gesù, e gli chiede in che cosa consista); e che gli evangelisti hanno alterato la realtà dei fatti per deviare sugli ebrei ogni responsabilità, in modo da ingraziarsi i dominatori romani e da far coincidere la distruzione di Gerusalemme, nel 70, con l’avverarsi della catastrofe nazionale ebraica profetizzata da Gesù stesso. Come dire: essi hanno rifiutato il Messia, ed ecco cosa si sono tirati addosso: il giusto castigo di Dio. Ahimè, nessun elemento storico, logico o filologico viene portato a sostegno di questa tesi, tranne la considerazione che quella di lavarsi le mani davanti a tutti era un gesto ebraico per indicare il rifiuto di una certa responsabilità, e che quindi difficilmente Pilato avrebbe potuto farlo. Una tesi che vorrebbe essere inoppugnabile e invece non sta in piedi, appunto perché l’uditorio di Pilato era formata da ebrei, e perciò quel gesto sarebbe stato perfettamente adeguato alla loro mentalità per esprimere, con la massima chiarezza, quale fosse la posizione del procuratore rispetto alla richiesta di far crocifiggere Gesù. Tutti i particolari realistici del processo davanti a Pilato, compreso il particolare della proposta di liberare uno dei due prigionieri, Gesù o Barabba, su indicazione della folla, sono semplicemente ignorati. Anche il racconto che la stessa moglie del procuratore si sia intromessa e abbia fatto recapitare al marito un messaggio con la richiesta di non condannare il prigioniero, a causa di un sogno che aveva fatto su di lui, evidentemente fa parte del castello di menzogne costruito perfidamente dagli evangelisti per addossare ai giudei ogni responsabilità nella condanna di Cristo e per lavare da ogni macchia l’immagine dei romani. Questo significa ignorare i fatti e le testimonianze quando danno fastidio alla propria tesi, e viceversa innalzare dei sospetti non dimostrabili alla dignità di fatti certi. Il risultato di questa doppia alterazione è una storia a tesi, nella quale non conta ciò che dicono le fonti, ma ciò che l’autore vuol dimostrare, ossia che tutti i popoli hanno sempre odiato gli ebrei senza ragione, li hanno perseguitati e costretti a disperdersi ai quattro angoli del mondo, e i più accaniti odiatori e persecutori sono stati i cristiani, e ciò proprio sulla base del racconto evangelico e in particolare del Vangelo di Matteo. Il fatto che l’autore – sulle orme di Cesare Mannucci, autore di un libro dal titolo eloquente, L’odio antico. L’antisemitismo cristiano e le sue radici (Mondadori, 1996), che confonde bellamente antisemitismo razziale e antigiudaismo teologico – usi disinvoltamente l’espressione ideologia cristiana sugli ebrei, come se i cristiani non avessero mai voluto vedere gli ebrei, e Gesù stesso, per ciò che realmente sono, ma sempre e solo attraverso il prisma deformante della loro ideologia, vale a dire dei loro pregiudizi antisemiti, dimostra la sua intenzione di fare una storia a tesi, vittimistica e rancorosa. Quale ebreo potrebbe tollerare che un autore cristiano si serva tranquillamente di un’espressione come l’ideologia ebraica sui cristiani che sottintende un’assoluta indisponibilità degli ebrei a vedere i cristiani per ciò che realmente sono, anziché attraverso le lenti deformanti dei loro pregiudizi verso i gentili?
Comunque si consideri la cosa, emerge sempre la doppia morale insita in questo atteggiamento mentale: loro possono accusare cristiani di odiarli, di falsificare i documenti, di voler fare di essi l’eterno capro espiatorio sul quale riversare tutte le proprie frustrazioni e i propri rancori; ma guai se un cristiano si azzarda a porsi in tale prospettiva verso di loro. E ciò perché vi è, inespressa ma tangibile, una convinzione solida come la roccia: noi ebrei siamo nel giusto; noi abbiamo subito infiniti torti; noi abbiamo un credito da riscuotere, mentre voi cristiani siete in malafede nei nostri confronti, avete la coda di paglia perché sapete d’essere ingiusti e di esservi macchiati di colpe innumerevoli verso di noi, colpe che non avete adeguatamente espiato e per le quali non avete ancora offerto sufficiente riparazione. Si pensi solo alla vicenda dei cosiddetti "silenzi" di Pio XII: perfino là dove ci sarebbe solo materia per riconoscere che vi è stata, da parte cattolica, la più larga solidarietà e la più generosa assistenza agli ebrei perseguitati (non dai cristiani in quanto tali, ma dai nazisti, che di certo non si ispiravano al Vangelo, né di Matteo né d’alcun altro evangelista), perfino lì si è trovato il modo di rovesciare la frittata e di puntare il dito contro i benefattori, di mettere sotto accusa chi si era prodigato. E lo stesso vale per ogni altro aspetto del cosiddetto "dialogo ebraico-cristiano", tanto auspicato dalla Chiesa postconciliare, dopo che la Nostra aetate, nel 1965, aveva espresso la piena sottomissione della Chiesa cattolica al senso di colpa per la morte dei Sei Milioni. In un vero dialogo, le parti si vengono reciprocamente incontro, cedendo ciascuna su qualcosa; nel dialogo fra ebrei e cattolici, a cedere su moltissime cose sono stati sempre e solo i cattolici, mai gli ebrei. Su cosa hanno ceduto, i rabbini? I papi hanno ceduto anche su ciò che non era in loro potere cedere, perché la dottrina è quella, e il loro compito consiste nel difenderla e tramandarla intatta. Invece, fin dalla Nostra aetate, essi hanno ceduto sulla cosa principale, e poi su molte altre secondarie: che l’Antica Alleanza, così come descritta nell’Antico Testamento, è sempre valida e operante, e quindi loro, gli ebrei, sono pur sempre il popolo eletto. Essi non hanno alcuna ragione di convertirsi a Cristo, perché, avendo la loro Alleanza, ed essendo certo che Dio non rinnega le sue promesse, sono già nella verità e nella salvezza. A che scopo, dunque, si sono convertiti a Cristo ebrei famosi, come Edith Stein e il rabbino Eugenio Zolli? Potevano risparmiarsi la fatica: potevano restare nel giudaismo, e sarebbe stato lo stesso. La conseguenza teologica di questa posizione assurda è che esistono due verità, due alleanze, due vie per la salvezza, entrambe perfettamente logiche e naturali: e che insomma seguire Gesù Cristo o maledirlo (come fanno i seguaci del Talmud), averlo accolto o averne voluto la morte, sono due cose perfettamente equivalenti, buone entrambe per giungere alla verità e alla salvezza.
Da parte nostra, incorreggibili tradizionalisti, ci permettiamo una sola piccola domanda: e se fosse vero, dopotutto, che il problema è proprio il rifiuto di Gesù Cristo da parte degli ebrei, allora e poi?
Fonte dell'immagine in evidenza: Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini