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Riscrivere il passato, ultimo atto del suicidio morale

Che cosa mancava ancora affinché il nostro suicidio biologico, politico, finanziario, economico, giuridico e culturale fosse perfetto? La riscrittura del passato, il disconoscimento dei nostri avi, il disprezzo verso quelli che ci hanno generato e che ci hanno consegnato il nostro mondo, così come lo abbiamo sempre conosciuto. In pratica, il rifiuto radicale di noi stessi, indice di un odio implacabile contro ciò che siamo, contro ciò cha cui veniamo, contro ciò che la nostra esistenza e la nostra civiltà rappresentano, comunque le si voglia giudicare. Negli Stati Uniti i Black Lives Matter, fra le altre cose, rovesciano le statue di Cristoforo Colombo, l’infame europeo che, portando le caravelle sulle coste dell’America, aprì la strada agli infami conquistadores. In Francia e in Cile incendiano e distruggono le chiese, simbolo dell’immondo clericalismo e della perfida religione venuta dalla Galilea, oppio dei popoli e oscuramento della civiltà mondiale per una ventina di secoli. In Egitto, in Siria, in Nigeria, in Kenya, in Indonesia, ammazzano i cristiani con le bombe nei mercati, oppure fermando le corriere e facendo scendere i viaggiatori: chi sa leggere il Corano è salvo, chi non lo sa fare viene decapitato sul posto al grido di Allah akhbar. In Australia i giudici condannano un anziano cardinale perché un signore afferma che alcuni decenni prima, quand’era chierichetto, lo aveva palpeggiato in sacrestia, nella cattedrale di una grande città, subito dopo la santa Messa, cioè in un luogo e in un momento in cui la chiesa era strapiena di gente, ma senza uno straccio di prova o di testimonianza: e la corte giudica l’accusato, lo condanna alla prigione e lo tiene al fresco per più di un anno, nell’indifferenza dei mass-media, prima che qualcuno si accorga che forse qualcosa non ha funzionato quanto al rispetto dei diritti costituzionali del cittadino, e ne decreti la scarcerazione. E in Italia? In Italia vandalizzano le statue dei generali "negrieri" del XIX secolo; o, almeno, così ce la raccontano. Ciliegina sulla torta: i discendenti di quei personaggi storici, interpellati su tali atti di vandalismo, non trovano di meglio che approvare l’operato di chi ha voluto sensibilizzare gli italiani, evidentemente troppo distratti e un pochino inclini al razzismo, su questioni così urgenti e scottanti. Il tutto mentre l’ONU ha varato da vent’anni un piano d’invasione dell’Italia da parte di 100-200 milioni d’immigrati africani; le città sono diventate invivibili anche a causa della criminalità dei clandestini; un governo asservito alla grande finanza criminale sta distruggendo l’economia con la scusa dell’emergenza sanitaria; migliaia di aziende, di alberghi, di esercizi commerciali sono costretti alla chiusura; e milioni d’italiani entrano a far parte del già troppo numeroso esercito dei disoccupati e dei poveri, ridotti a sopravvivere della pubblica carità.

Facciamo un esempio. Antonio Baldissera è stato un generale italiano. Nato a Padova nel 1838 e morto a Firenze nel 1917; suddito austriaco, la prima parte della sua carriera militare si è svolta sotto le bandiere di Francesco Giuseppe, fino al 1866, quando combatté sul fronte boemo. Passato al Regio esercito dopo l’annessione del Veneto e lo scioglimento del giuramento di fedeltà dei sudditi austriaci ivi residenti, fu inviato in Eritrea nel 1888-89, poi di nuovo nel 1896, dopo la battaglia di Adua, in sostituzione di Baratieri, sostituzione che anzi avrebbe dovuto avvenire prima e che fu la molla che spinse l’incauto Baratieri a forzare i tempi e ad andare incontro al disastro del 1° marzo di quell’anno. Giunto sul teatro delle operazioni troppo tardi, Baldissera seppe contenere l’offensiva etiopica e sotto un altro governo, che avesse conservato i nervi saldi, quasi certamente avrebbe dato all’Italia una solenne rivincita. Prese infatti le misure necessarie, egli propose un’azione controffensiva, ma dopo la caduta di Crispi il governo di Rudinì aveva perso la testa e gli ordinò di rientrare in patria, avendo deciso di firmare la pace di Addis Abeba del 26 ottobre 1896. Questa la sua storia. Non fu né un criminale di guerra, né uno schiavista, semmai gli schiavisti erano gli etiopi, e lo furono fino a quando Mussolini non conquistò l’Etiopia nel 1936 e fece abolire la schiavitù. Non fu in alcun modo un militare moralmente peggiore di tanti altri, anzi esistono testimonianze di una sua moderazione nei confronti delle popolazioni africane, insolita in quei tempi e in quei luoghi. Lo conosciamo di nome sin da bambini, perché la nostra città natale gli ha dedicato una via molto caratteristica, nel quartiere nord-occidentale, lontano dal centro ma sempre entro le mura; e lo ha fatto perché sua madre, dopo la morte precoce del marito, l’aveva mandato proprio là a frequentare le scuole primarie, sotto la protezione dell’arcivescovo Zaccaria Bricito, dopo di che era passato alla prestigiosa Accademia militare di Wiener Neustadt, nel 1849, all’età di soli undici anni. Altri tempi, un altro mondo. Nulla di disonorevole, dunque, nella vita di Antonio Baldissera: nessuna macchia, nessuna vergogna, nessuna atrocità, neanche per gli standard dell’epoca; niente che consenta di qualificarlo un razzista o un tipico esponente dell’imperialismo. Se poi si vuol fare il processo al colonialismo europeo in quanto tale, appiattendo quel complesso fenomeno storico, che ebbe le sue ombre e le sue luci, e condannarlo in blocco come una pagina ignobile della storia europea, allora si potrebbero scegliere figure ben più eloquenti, ad esempio quel generale tedesco Lothar von Trotha che il 2 ottobre 1904, nell’Africa Sud-Occidentale, emanò il criminale ordine di sterminio (Vernichtungsbefehl) contro gli ottentotti Ova Herero, donne e bambini compresi, dopo che erano stati sconfitti militarmente e ridotti a una massa di fuggiaschi, disperati e assetati, sulle soglie del Deserto del Kalahari.

Ma no. Dopo che il mondo occidentale si è commosso per la morte del delinquente George Floyd, rapinatore a mano armata, e Laura Boldrini e alcuni deputati del Pd si sono platealmente inginocchiati alla Camera per onorare la sua memoria, gesto che si erano scordati di fare quando, ad esempio, era stato ritrovato tagliato a pezzi, dentro due valigie, il corpo di Pamela Mastropietro, la ragazza italiana diciottenne che aveva avuto la sfortuna d’imbattersi nello spacciatore nigeriano, Innocent Oseghale, immigrato clandestino e già espulso da un programma di assistenza, che l’ha accoltellata e sezionata. Ebbene, nel clima di ardente commozione suscitato dalla vicenda di Floyd, e che ha avuto ripercussioni in tutto il mondo, grazie al ruolo svolto dai mezzi d’informazione mondialisti, tutti a libro paga dell’élite finanziaria, gli stessi che ora ci martellano da mesi con il terrorismo psicologico per convincerci che siamo in preda a una pestilenza micidiale e che se non faremo il vaccino moriremo in massa, qualcuno ha pensato bene di prendersela proprio con il generale Antonio Baldissera, o almeno con la sua memoria. Il fatto non è avvenuto nella nostra città di nascita, che gli ha dedicato una strada, ma a Roma, dove, fra i 229 busti che adornano i giardini del Pincio, c’è anche il suo. Gli ammiratori nostrani del Black Lives Matter — un movimento che, per quanti non lo sapessero, si è reso responsabile d’innumerevoli violenze negli Stati Uniti, omicidi compresi — hanno imbrattato il busto del generale con della vernice rossa; per la precisione, gli autori della prodezza appartengono alla rete autonominatasi Restiamo Umani. È in nome della umanità, dunque, che hanno sfregiato quel busto e additato al pubblico disprezzo il ricordo di un uomo che ha servito con onore la sua patria, vale a dire la nostra, nonché l’esercito che la serviva e che ad essa aveva giurato fedeltà. Un suo discendente, l’ultimo, pare, residente proprio nella città della nostra infanzia, richiesto di esprimere un parere, ha alzato le palle e osservato che suo bisnonno non era peggiore di tanti altri militari del tempo, ma che, se quel gesto è servito a riportare all’attenzione i misfatti del colonialismo e a ricordare quanto grave sia il pericolo razzista che incombe oggi sul nostro Paese, allora ben venga la vernice rossa sul busto del suo avo: lui non ci trova niente di male e non ha nulla da obiettare (https://www.open.online/2020/06/21/ultimo-discendente-generale-negriero-vandalizza-busto-nonno-baldissera-riflettere/). Se questi gesti fanno riflettere, lo scopo è raggiunto, ha detto tranquillamente. Perfetta sintesi della cultura del Politicamente Corretto che oggi si respira ormai ovunque, che viene apertamente insegnata a scuola dai professori, e perfino predicata in chiesa dai pulpiti, durante la santa Messa. Nessun prete ricorda i sacerdoti sgozzati sull’altare dai fanatici islamisti, in compenso ce ne sono parecchi i quali, ogni domenica che Dio manda, ritengono loro dovere parlare ai fedeli, con la scusa dell’omelia di commento al Vangelo, indottrinandoli con sermoni pro migranti e pro islam, nonché colpevolizzando la storia d’Europa e del cristianesimo stesso, reo di aver fatto le crociate e istituito i tribunali della Santa Inquisizione.

Eh già, quanto criminali sono stati i nostri nonni; quanto razzisti, quanto negrieri. Ma la cosa che fa più riflettere, in questo suicidio morale che consiste nel rifiuto e nella demonizzazione di tutto il nostro passato e dei suoi simboli, è il nome che si son dati i vendicatori di George Floyd, nell’atto d’imbrattare il busto del generale Baldissera (tanto, lo si ripulisce in dieci minuti, ha osservato sagacemente il pronipote): Restiamo Umani. Come dire che loro sono e vogliono restare umani; mentre chi non capisce la gravità del problema razzista in Italia, e che esso rappresenta la vera emergenza del nostro popolo, in questo momento storico, è disumano. E se è disumano, non è neppure un avversario, ma un nemico, come direbbe il buon Carl Schmitt. I nemici non si affrontano sul piano delle idee, tanto meno ci si abbassa a discutere con loro: bisogna fare in modo che spariscano, puramente e semplicemente: la loro esistenza disonora il genere umano. Meno male che ci sono gli altri, i Buoni, che sono ancora umani e si battono coraggiosamente per tenere alto il vessillo della vera umanità. Siamo davvero fortunati a vivere in questi tempi di accesa umanità. Non abbiamo il permesso di andare al bar o al ristorante, di giocare a carte con gli amici, nemmeno di passare il Natale in casa nostra coi genitori o coi nonni, però siano coscienti dei torti che i nostri avi hanno fatto agli abissini e a tutte le genti di colore, nel passato lontano e vicino, e naturalmente nell’ora presente: e questa consapevolezza ci scalda il cuore e fa sì che la nostra natura umana sopravviva, non si affievolisca, non si spenga. Grazie, Black Lives Matter; grazie, Restiamo Umani; grazie, Laura Boldrini.

Tuttavia, c’è qualcosa che dovete sapere, voi Buoni, voi umani, voi che sapete tutto e che volete non solo indicare la via del futuro, ma anche riscrivere i sentieri del passato. Guardate, c’è pericolo che stiate tirando un po’ troppo la corda. Gli italiani onesti e laboriosi, che stanno perdendo l’azienda, il negozio, il bar, la libertà, e che lo stesso potere di cui voi siete espressione, vorrebbe costringere a sottoporsi a tamponi e vaccini di più che dubbia utilità e di certa pericolosità, dopo aver loro imposto, per mesi, distanziamenti e mascherine, vale a dire museruole di riconoscimento e assoluto isolamento sociale, sono forse ormai al limite della loro capacità di sopportazione. Rovinati, umiliati, sbeffeggiati e colpevolizzati. È colpa loro, infatti, se c’è il debito pubblico: hanno speso troppo negli anni passati. Ed è ancora colpa loro se arriva la seconda o la terza ondata del virus micidiale, non rispettano i decreti del governo e si danno ai bagordi e alla pazza gioia, invitando per Natale la nonnina e perfino il cuginetto. Ed è sempre colpa loro se qualche barcone di migranti fa naufragio, come ha detto anche il signor Bergoglio quando si è recato a Lampedusa, l’8 luglio del 2013, e, gettando sulle onde una corona di fiori in ricordo delle vittime dei naufragi, ha esclamato a voce alta, fremendo di santa indignazione, quasi con rabbia: Vergogna! Certo, sicuro: siamo noi che dobbiamo vergognarci. Non siamo abbastanza accoglienti e ospitali; le nostre navi civili e militari non sono abbastanza sollecite nel raccogliere i migranti; siamo duri di cuore, egoisti, insensibili, tanto è vero che non regaliamo loro nemmeno le nostre seconde case, figuriamoci se ci stringeremmo fra noi per regalare loro un paio di stanze nella prima, quella i cui viviamo, visto che ormai siamo così vecchi e così pochi, e di metri quadrati inutilizzati ne abbiamo più che a sufficienza. Eh sì, certo. Che vergogna essere italiani; che vergogna essere cristiani, e per giunta cattolici; che vergogna essere razzisti; che vergogna voler difendere i confini; che vergogna avere dei bisnonni come il generale Baldissera. Siamo gente indegna, spregevole: che ci stiamo a fare al mondo? Ha ragione Grillo, hanno ragione i signori del Bilderberg e del World Economic Forum: siamo in troppi e siamo inutili, brutti, sporchi e cattivi. Dobbiamo e possiamo render l’ultimo favore all’umanità, noi italiani, noi europei, noi cristiani: sparire. Lasciare il posto ad altri, liberare lo spazio per i popoli del Sud della terra, che ne hanno più bisogno e più diritto di noi. Noi, siamo come le piante infestanti: sporchiamo, inquiniamo, e per giunta abbiamo un passato lungo così da farci perdonare, da far dimenticare. Solo sparendo riusciremo in parte ad espiare le nostre colpe e quelle dei nostri nonni e bisnonni. Aborto, eutanasia, unioni omosessuali, tutto questo va bene, ma non è ancora abbastanza. Bisogna far sul serio, bisogna passare al suicidio di massa, come i lemming, affinché le nostre case restino finalmente libere, e le nostre città siano a disposizione di chi se le vuol pigliare, con tutto ciò che vi hanno accumulato, col lavoro, i nostri predecessori. Attenti, però, cari signori della Bontà e dell’Umanità. State tirando la corda davvero un po’ troppo.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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