La difesa che cercano di toglierci: quella di Maria
30 Novembre 2020Riscrivere il passato, ultimo atto del suicidio morale
2 Dicembre 2020Un bambino va per la strada tenendo la mano della sua mamma, giovane e bella. Lei lo ha portato con sé per una normalissima commissione, però in un quartiere della città dove di solito non vanno mai; e adesso, nella luce di un mattino d’inverno che si posa obliquamente sulle facciate delle vecchie case, tutto ha un che di nuovo, di festoso, di sorprendente nell’animo di quel bambino. Ogni cosa, ogni finestra con gli scuri di legno, ogni portone, ogni cortile interno che fa capolino col suo piccolo orto, ogni pietra del selciato, grossi ciottoli di fiume arrotondati e disposti come un fiume silenzioso che corre fra gli isolati con un ritmo sempre uguale, e l’odore di pane e latte che esce dalle panetterie, e il profumo del caffè che aleggia nei bar, e perfino il riverbero del sole sui vetri delle finestre delle case più umili, nella zona più povera e sprovvista di negozi, solo vecchie case modestissime dagli spessi muri anneriti e screpolati, tutto, tutto acquista una leggerezza, una trasparenza, un fascino che riempie il cuore di una meraviglia che vi s’imprime per sempre, e che accompagnerà quel bambino per il resto della vita. Così come non scorderà mai quella dolce intimità con la mamma, il suo sorriso buono e rassicurante, il fazzoletto annodato sotto il mento, che le copre i bellissimi capelli neri, il senso di protezione che prova camminandole al fianco di buon passo, la piena consapevolezza del legame affettuoso che li lega e che si estende a tutta la famiglia, luogo di calore, di ascolto, di scambievole desiderio di bene. E poi, come uno strumento di sottofondo che quasi non si nota e invece avvolge tutto con la sua melodia quasi impalpabile, la città: quella città, e non un’altra; la città dove sono nati, dove vivono i nonni, dove ci sono tutte le cose care; non una città qualsiasi, non un luogo indifferente, ma un luogo d’elezione, unico, insostituibile, ove tutto è amabile, e perfino gli aspetti meno belli diventano cari e preziosi: i tetti disuguali, i muri spessi delle vecchie case, i balconi in ferro battuto, quell’atmosfera un po’ severa, con tutte quelle caserme e quei conventi, quel cielo, quel dialetto, quel modo di camminare della gente, gente chiusa e taciturna, ma capace di donare il cuore ai veri amici. Sarebbe semplicemente inconcepibile un altro sfondo, un’altra cornice; sarebbe impensabile non assaporare tanta dolcezza dall’aria e rapire un simile incanto dai giardini, se non ci fossero quelle vecchie case, quei borghi raccolti, quelle pietre, quegli scuri di legno con i ganci di ferro, quei camini svettanti sulle tegole, quelle rogge che corrono sotto i ponti, quel profumo di caldarroste, quei tramonti estivi, quei viali di pioppi con le foglioline frementi a primavera, quei bambini che vanno a scuola con la cartella in mano, nei loro grembiulini neri col colletto bianco, quei clienti inamovibili delle osterie, col bicchiere sempre pieno avanti a sé, seduti ore ed ore al tavolo di legno, a lisciarsi i baffoni e ricordare il buon tempo andato.
E quelle associazioni mentali, quei ricordi intrecciati alle sensazioni di allora, sempre vive nella stanza più segreta della memoria: il senso di scoperta, di novità, di pulizia; e la mamma che insegna al bambino le prime nozioni di latino, e arrivati ai piedi del santuario, su cui campeggia la scritta Gratiarum Virgini Sacrum, lo invita a tradurre; e quella pittura con Maria e il Bambino sulla facciata della casa d’angolo; e quella via dal nome buffo, via generale Chinotto, che naturalmente fa venir in mente la bevanda dal gusto un po’ frizzante, eppure deve avere a che fare con le cose militari, vallo a sapere. La mente del bambino ha un suo modo di ragionare: e se la nonna prepara il rosto con l’osmarin, ciò vuol dire che la piantina aromatica con cui ella cucina l’arrosto, la domenica, è l’osmarino, non il rosmarino; e che delusione quando scoprirà che si chiama proprio rosmarino, come ormai da qualche tempo sospettava, perché osmarino era tanto più bello, aveva un suono assai più esotico e melodioso. Non c’è confine fra le cose reali e le cose pensate; o meglio, per lui sono tutte reali. E se in chiesa le donne sciolgono alla Vergine Maria un canto che a un certo punto dice: salva, Maria, chi t’ama, e il bambino capisce invece salva Maria chitana, allora pensa a una specie di chitarra, lo pensa anche se non capisce; e benché non ne comprenda il senso, gli piacciono quelle strane parole e le ripete volentieri, mentalmente, così come le ha capite, rese più interessanti da quell’aura di mistero. E se in un libro di fiabe ha visto il disegno di un topo-pirata, con la gamba di legno, che alla fine della storia viene punito per le sue malefatte sospingendolo, con la punta delle spade, a imboccare la passerella che si protende nel vuoto dal fianco della nave, mentre la pinna paurosa di uno squalo appare fra le onde del mare, lui ne è colpito e turbato proprio come se quella scena fosse vera, come se il povero topo cattivo venisse condannato a morte lì, sotto il suo sguardo, reso ancor più patetico dalla sua povera gamba di legno che gl’impedisce di camminare speditamente, e dal suo occhio orbo, nascosto dal fazzoletto. Perfino gli odori, perfino i gusti hanno per lui un significato diverso che per l’adulto, legati come sono a sensazioni e impressioni cariche di risonanza: perché, altrimenti, da un certo giorno dell’infanzia, l’odore di vernice fresca e il sapore di quei biscotti ripieni di fichi si sono impressi con tanta soavità nel cuore di quel bambino, per sempre?
Ed ecco l’espressione per sempre. È la più usata e abusata da tutti gli innamorati, e anche da tutti gli odiatori: ti amerò per sempre, ti odierò per sempre (ma si sa che l’odio è un amore rovesciato). Sorgono spontanee, anche se novantanove volte su cento sono solo espressioni di un impulso momentaneo, che svanisce prima di quel che si credeva. Solo i bambini la prendono sul serio: per sempre, per loro, significa esattamente ciò che vuol dire: senza mai fine. E i bambini sanno più cose di quante ne conoscano gli adulti: le sanno per via istintiva, ma le sanno, con la certezza infallibile di chi è più vicino alla sorgente, e non più lontano. Gli adulti, con tutti i loro ragionamenti, con la loro saggezza, con la loro maturità, hanno perso la cosa principale: lo stupore davanti al mondo; perciò, anche se conoscono mille cose, ne sanno per davvero solo tre o quattro, e anche quelle le sanno per modo di dire, cioè le sanno a parole, ma non le calano nella loro consapevolezza più profonda. I bambini sono venuti al mondo da poco: dov’erano prima nessuno lo sa, però sta di fatto che hanno conservato una specie di vago ricordo, ed è quel ricordo che illumina loro la strada e funge da cristallo per guardare e interpretare la realtà. Quel che intendiamo dire è che la realtà, per il bambino, è data da ciò che si vede, si ode, si tocca, si odora, si gusta, da ciò che si ricorda e da ciò che s’immagina (ma non da ciò che si prevede, perché il bambino non prevede nulla; e non prevede per la semplice ragione che non fa calcoli), più qualcos’altro. Per l’adulto la realtà è data da ciò che si vede, si ode, si tocca, si odora, si gusta, si ricorda, s’immagina (poco), si prevede (moltissimo), si calcola e si può dimostrare con il ragionamento astratto. Dei due, è il bambino ad essere più vicino al cuore delle cose, perché invece di scomporle, le afferra con tutto il suo essere; invece di studiarle ed esaminarle, le accetta e le accoglie; invece d’imporre loro la sua verità e la sua spiegazione, le interroga pieno di meraviglia e lascia che siano esse a rispondergli, a sussurrargli il loro segreto in una lingua che l’adulto non conosce più, perché l’ha dimenticata. E così il bambino sa certamente meno cose dell’adulto, però sa quelle essenziali; non solo: sa quali domande hanno un senso e quali non ce l’hanno, e per queste ultime si astiene dal chiedere, lui così curioso che vorrebbe far domande su tutto, fino a stancare chi lo ascolta. Sa, per esempio, che la domanda: qual è il senso della vita?, non ha senso, non perché la vita non abbia senso, ma perché non ha senso fare la domanda a qualcun altro e aspettare la risposta. La risposta c’è, ma non è formulabile a parole; o meglio, la si può formulare, ma è solo un’approssimazione, alquanto inadeguata, della risposta vera, che non giunge dai discorsi, ma dalla vita stessa. E non giunge quando viene posta, astrattamente, la domanda, ma nel momento in apparenza più impensato; perché la vita ha i suoi tempi e le sue leggi, i suoi silenzi e le sue rivelazioni, e li stabilisce lei, non noi. E se vogliamo sapere troppo e subito, la nostra domanda rimane insoddisfatta: non perché la vita non risponda, ma perché noi non siamo ancora capaci di cogliere la risposta. Abbiamo troppo rumore negli orecchi, e così non udiamo la risposta alla domanda che noi stessi avevamo formulato. In un certo senso, guardavamo dalla parte sbagliata, e così non riuscivamo a veder nulla.
Naturalmente tutte queste sono solamente immagini simboliche: quando diciamo che la vita parla, che la vita risponde, in effetti vogliamo dire che Dio parla, che Dio risponde: perché Dio è il signore del mondo e il padrone della vita, e tutto ciò che domandiamo alla vita, lo domandiamo a Lui; e tutto ciò che vorremmo dalla vita, lo vorremmo da Lui. E siccome noi guardiamo dalla parte sbagliata, non lo vediamo; e siccome abbiamo mille rumori inutili nell’orecchio, non lo udiamo. Ma Dio è vicino ai bambini, perché i bambini sono più vicini a Lui. Non a caso Gesù ammoniva: (Mt 18, 3-5; Gv 18, 10):
In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me.
Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli.
Ora, quando un bambino dice, o pensa: questa cosa è per sempre, non lo dice né lo pensa con una riserva mentale, come fa l’adulto, ma vi mette tutto se stesso. E se scrive, in una letterina per la mamma, ti voglio bene sempre, non la per gioco, ma ci crede davvero. L’adulto, davanti a una simile espressione, scuote il capo, pensando che nulla è per sempre: se non altro perché c’è la morte. La morte, così ragiona l’adulto, si porta via tutto: anche le promesse, anche i giuramenti, anche i sentimenti più profondi. E inoltre, pensa l’adulto, il bambino fa dichiarazioni eterne perché non sa cos’è la morte: non sa che la morte è la fine, e che ogni cosa, anche quella che sembrava più durevole, appare caduca non appena si presenta lei. Questa è la saggezza dell’adulto, e in nome di tale saggezza egli si crede assai più esperto sulla vita del bambino; anche se arriva quasi ad invidiare il bambino per la sua beata ignoranza della morte. E per consolare un bambino che ha perso la sua mamma, l’adulto gli dice che lei è volata in cielo; ma lui, quanto a se stesso, non ci crede affatto. Gli dice anche che lei lo guarda e lo assiste da lassù, e che ora è felice presso Dio, e veglia su di lui. Ma non ci crede, e lo dice solo per consolarlo. E infine gli dice che un giorno la rivedrà, che si rivedranno, che si abbracceranno e che sarà per sempre: ma non lo pensa veramente, perché il pungiglione della morte lo ha trafitto al cuore, ed è come un assetato nel deserto che vuol offrire l’acqua a un altro, e fa l’atto di versargliela in bocca, ma le sue mani sono vuote.
E tuttavia, se non fosse così? Se fosse vero che la mamma è volata in cielo; che ora è felice presso Dio; che veglia sul so bambino, e che un giorno si rivedranno e si abbracceranno? Certo, queste cose le dice la religione cristiana: non disse forse Gesù al buon ladrone (Lc 23, 43): In verità io ti dico: oggi stesso tu sarai con me in paradiso? Tuttavia l’adulto, si sa, è anche un cristiano adulto, e alle favole non crede più, benché gliene sia rimasta una certa nostalgia. Eppure, proviamo a domandarci: perché l’adulto ha detto quelle dolci parole di consolazione al bambino rimasto orfano di sua madre? Forse perché si è ricordato del catechismo? Forse perché ha pensato alla dottrina cattolica? No: le ha dette d’istinto, perché gli sono sgorgate dal cuore, gli sono affiorate alle labbra prima di qualsiasi ragionamento. Gli è parso cosa buona e giusta dire così, non saprebbe nemmeno lui spiegare come e perché. Ecco: questa è la fonte di ciò che è radicato nel nostro essere, dunque di ciò che viene da Dio, Noi siamo stato creato a immagine e somiglianza di Dio: quel che abbiamo in fondo al nostro essere, viene da Lui. In fondo al nostro essere c’è questa certezza istintiva: che tutte le cose belle sono per sempre, non per essere ingoiate dal tempo e divenire nulla; che tutto ciò che è buono non andrà perduto, mai, ma un giorno lo ritroveremo, purificati dalla nostra sofferenza e dalla lunga separazione. Dio non ha posto al cuore del nostri essere un tale grado di certezza per prenderci in giro. Dio non fa nulla a caso, ma ogni cosa, anche la più piccola e apparentemente insignificante, è stata fatta per il bene, nasce dal bene ed è diretta a un fine buono. Lasciamo ai tristi psicologi materialisti l’amara soddisfazione che il desiderio di vita eterna è una forma di nevrosi di un animale intelligente che non accetta l’idea di dover morire. Noi sappiamo, noi sentiamo, che la verità è un’altra; e la stessa ragione naturale, che ci guida alla conoscenza, sia pure parziale, di Dio, ci dice che Dio, l’essere perfettissimo, non crea inganni o illusioni nella mente dell’uomo, la sua creatura prediletta. Come scrive san Paolo, con gioiosa sicurezza (Rm 6,22-23): Ma ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per frutto la vostra santificazione e per fine la vita eterna; perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore.
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