Non vinceranno perché ignorano cos’è la giustizia
19 Novembre 2020La colpa dei cristiani mediocri è di non sperare più
21 Novembre 2020Il nonno Francesco e la nonna Gemma riposano uno accanto all’altra, come sono sempre vissuti fin da quando, giovanissimi, si erano conosciuti, fidanzati e sposati, senza mai uno screzio, senza mai una parola amara, con piena, reciproca fiducia e comprensione; e insieme se ne sono andati, a pochi giorni di distanza uno dall’altra, perché dopo la malattia e la more della nonna il nonno, che pure era sempre stato una persona energica e intraprendente, non aveva più voglia di restare quaggiù, e lo si vedeva benissimo. Avevano unito le loro esistenze quando appena taciuto la voce del cannone, dopo le prove durissime della Prima guerra mondiale, fra cui l’invasione nemica e la fuga della nonna tra i profughi – profughi di quelli veri e non fasulli – nel Mezzogiorno d’Italia, mentre il nonno era rimasto nella città occupata, per badare alla casa e a quel poco che era rimasto dopo le privazioni, oggi per noi quasi inimmaginabili, dovute a quattro anni di guerra durissima combattuta nella propria terra, con la gente che moriva letteralmente di fame. Si erano sposati, cioè, mentre in Europa e nel mondo infuriava l’influenza spagnola,che si portò via decine di milioni di persone e non per finta, come oggi ci si vuol far crede con il Covid-19, ma per davvero: vale a dire non persone ottantenni e novantenni già seriamente malate, ma bambini e giovani nel pieno delle loro energie. Eppure, essi hanno creduto nella vita e non si sono lasciati intimidire dallo spettacolo della morte: si sono giurati amore e sostegno reciproco nella buona e nella cattiva fortuna, in chiesa, davanti a Dio, e così hanno fatto, con perfetta semplicità e linearità, lavorando sodo per tanti anni, senza mai un viaggio o una vacanza, e trovando il modo di mettere al mondo e di crescere nel modo migliore quattro figlie (le quali però, di nipoti, gliene hanno dati in tutto appena cinque: era l’inizio del tracollo demografico, ma allora, in pieno "miracolo economico", nessuno sembrava essersene accorto, e politici, giornalisti e intellettuali parevano affaccendati in cose ben più importanti di questa: la continuità e la sopravvivenza biologica del popolo italiano). Nessuno ricorda di averli mai visti tristi, o corrucciati, o amareggiati, anche se i pensieri e le preoccupazioni non mancavano loro di certo, per non parlare delle ansie e dei pericoli sopportati nell’altra guerra mondiale, ancor più tremenda della prima, che li ha investiti in pieno, insieme a quaranta milioni di connazionali e che stavolta ha reso profughi permanenti, e non solo temporanei, trecentocinquantamila poveri cristi delle terre giuliane e dalmate, colpevoli d’essersi trovati dalla parte sbagliata della storia e divenuti capri espiatori dell’odiosa ideologia abbracciata anche da tanti italiani, che pareva destinata a divenire il sole radioso del futuro per il mondo intero. E adesso i nonni riposano lì, vicini, come sempre sono vissuti, nella pace e nel silenzio del piccolo cimitero posto all’estremo limite della loro città, nel quartiere periferico di Paderno, dove le ultime case cedono il posto ai campi di granoturco e ai liberi orizzonti dell’aperta campagna, in mezzo a quel verde che avevano amato tanto, la nonna in modo tutto speciale.
Anche ora che fisicamente non ci sono più, e sono ormai tanti anni che ci hanno lasciati, la loro lezione di vita e il ricordo della loro profonda umanità continuano a essere d’esempio, incitamento e conforto per noi che siamo rimasti qui, in mezzo al tumultuare della vita, e che ci troviamo a dover affrontare situazioni così strane e difficili, così impreviste e imprevedibili, che neppure loro, che pure ne hanno viste e passate così tante, avrebbero mai potuto immaginarsi. Di guerre mondiali, loro, ne hanno viste e vissute ben due, ma la terza, che si sta combattendo ora, la più decisiva, non si combatte sui campi di battaglia, ma in ogni ambiti della società, e più ancora dentro di noi stessi: perché la posta in gioco è l’asservimento della nostra anima oltre che della nostra vita materiale, fatta di lavoro, stipendio, pensioni, risparmio, una casa e una famiglia da mantenere. Eppure, ci sembra che l’insegnamento più prezioso della loro umile, semplice esistenza sia proprio questo, e tanto più importante e significativo nei tempi difficilissimi che ci troviamo a vivere: non temevano esageratamente la morte. Amavano la vita, credevamo nella vita, servivano onestamente la vita, e tuttavia non erano ossessionati dalla paura di morire. Sapevano, come tutti i buoni cristiani, che morire bisogna, ma che l’importante è morire in grazia di Dio: e del resto non si deve aver paura, perché fa parte del ciclo naturale delle cose e inoltre, per il credente, la morte non è un raccapricciante scivolare nel nulla, mail lieto ritorno lì da dove siamo venuti: nelle mani amorevoli di Dio Padre. Sono loro, i Padroni universali, che hanno paura: temono di morire.
Rileggiamo con attenzione quel passo importantissimo di san Paolo nella Prima Epistola ai Corinzi (15, 12-28; id., 40-50; id., 53-55):
12 Ora, se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? 13 Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato! 14 Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. 15 Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non risorgono. 16 Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; 17 ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. 18 E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. 19 Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. 20 Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. 21 Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; 22 e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo. 23 Ciascuno però nel suo ordine: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo; 24 poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. 25 Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. 26 L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, 27 perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi. Però quando dice che ogni cosa è stata sottoposta, è chiaro che si deve eccettuare Colui che gli ha sottomesso ogni cosa. 28 E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anche lui, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti. (…)
40 Vi sono corpi celesti e corpi terrestri, ma altro è lo splendore dei corpi celesti, e altro quello dei corpi terrestri. 41 Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle: ogni stella infatti differisce da un’altra nello splendore. 42 Così anche la risurrezione dei morti: si semina corruttibile e risorge incorruttibile; 43 si semina ignobile e risorge glorioso, si semina debole e risorge pieno di forza; 44 si semina un corpo animale, risorge un corpo spirituale.
Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale, poiché sta scritto che 45 il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46 Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47 Il primo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo. 48 Quale è l’uomo fatto di terra, così sono quelli di terra; ma quale il celeste, così anche i celesti. 49 E come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste. 50 Questo vi dico, o fratelli: la carne e il sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che è corruttibile può ereditare l’incorruttibilità. (…)
53 È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità. 54 Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. 55 Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»
A ben riflettere, è proprio questa la differenza decisiva esistente fra le parti in lotta, quando due visioni del mondo vengono a confronto: vince chi non ha paura di morire, o chi ne ha di meno; soccombe chi è paralizzata da essa. Il cristianesimo vinse, duemila anni fa, perché i cristiani non avevano paura di morire, anzi, come scrive ancora san Paolo, consideravano la morte un guadagno, perché affretta l’incontro gioioso con il Cristo per quelli che si sono sacrificato per Lui, come Lui si è sacrificato per la salvezza degli uomini. I procuratori romani erano sconcertati e adirati per la loro incrollabile fede in Gesù Cristo, che spingeva anche timide vergini e inesperti fanciulli a resistere incrollabilmente a lusinghe e minacce: come osavano quegli zoticoni, quegli ignoranti, rifiutare l’atto di adorazione al dio-imperatore; come osavano mostrare tanta indifferenza o disprezzo nei confronti della fede dei loro padri? Se non altro per questo, e non per qualche crimine specifico, meritavano il più severo dei castighi, cioè la morte. E questa era la posizione di un intellettuale moderato, Plinio il Giovane, quando si trovò a governare la provincia della Bitinia e chiese lumi all’imperatore Traiano circa il modo di regolarsi con quei fastidiosi fanatici che i pagani odiavano tanto e non si stancavano di denunciare, anche per mezzo di lettere anonime. Neppure i terroristi suicidi del fondamentalismo islamico odierno temono la morte, e lo dimostrano continuamente; certo lo sprezzo che mostrano nei suoi confronti nasce da una radice ben diversa, anche se anch’essi si considerano dei martiri: perché mentre i cristiani affrontavano e affrontano la morte con un sentimento di amore verso gli uomini, spinto fino alla preghiera per i carnefici (Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno) essi scelgono di morire con il cuore gonfio d’odio verso quelli che considerano nemici irredimibili indegni di vivere, e non esitano a provocare la morte anche di donne e bambini. Non è dunque lo sprezzo della morte in se stesso, ma l’origine di tale sprezzo, a far la differenza fra chi sa andare verso la morte nel modo giusto, in pace con Dio e con il prossimo, e chi ci va, invece, con l’anima avvelenata da un odio tanto insano quanto insaziabile, votandosi con ciò stesso al più severo dei giudizi e meritandosi il più duro dei castighi, il castigo eterno che attende colui che Dio non teme. Il vero Dio, ovviamente, Padre giusto e misericordioso, e non un Moloch assetato di sangue umano, che si pasce e si delizia delle più efferate crudeltà consumate nel suo nome.
Sorge a questo punto la domanda: quando abbiamo incominciato ad avere una così cieca, una così deplorevole, una così irrazionale paura della morte? La risposta non può essere che ovvia: da quando abbiamo voltato le spalle alla religione dei nostri nonni; da quando abbiamo abbracciato la piena modernità, intrisa di materialismo e narcisismo. Ogni cultura materialista reca in sé il pungiglione della paura della morte, perché non sa dare una risposta a quella che per molti è la domanda decisiva: dove andremo? Le forze che attualmente dominano il mondo stanno sfruttando questa paura agitandoci davanti al viso il drappo rosso della pandemia, e con ciò ottengono una servile obbedienza di fronte all’instaurazione di un vero e proprio regime totalitario, quale mai era stato neanche immaginato dai più spietati dittatori della storia. È significativo: il cristianesimo, accusato dalla cultura illuminista di aver introdotto l’odio per la vita, ha saputo insegnare agli uomini l’arte di vivere e quella di morire; mentre quella stessa cultura illuminista, che oggi domina pressoché incontrastata, altro non sa fare che spaventarci fino al parossismo con il terrore della morte, ma non ha nulla da offrirci né per vivere bene, né per andare incontro alla morte con passo fermo e sereno. C’è un momento preciso in cui questo passaggio è stato registrato e immortalato dagli artisti: i primi decenni del XVII secolo, allorché alcuni pittori, come il Guercino e Nicholas Poussin, hanno raffigurato la scena, e riportato la scritta: Et in Arcadia ego. Come è noto, questa frase può essere interpretata in vari modi, ma quello più semplice e naturale significa: anche nell’Arcadia dei pastori, cioè nel favoloso regno dell’innocenza e della pura bellezza, della vita a contatto con tutte le cose bella della natura e non velata dal senso del peccato, ci sono io, la morte; è con me che dovrete fare i conti, alla fine. Ma certo che c’è la morte, con l’Arcadia o senza l’Arcadia; con il buon selvaggio o senza; con l’uomo "innocente" per natura, alla Rousseau, o senza di lui. E allora? L’avevamo sempre saputo; è l’unica certezza immediata che sia concessa alla vita umana: la cognizione della morte. Il problema è sorto nella modernità — il problema, perché fino al XVII secolo morire non era un problema, era un fatto — a causa dell’oblio della visione spirituale e soprannaturale della vita stessa. Da quando abbiamo mandato in soffitta il Vangelo, siamo rimasti angosciati e inconsolabili di fronte a questa assoluta certezza: tutti, un giorno, belli e brutti, buoni e cattivi, giovani e vecchi, moriremo. Di fronte a tale certezza, la sola cosa che importa è chiedersi se si sta vivendo la propria vita nella maniera giusta: non come una vacanza, ma come una preparazione. Il cristiano, poi, ha una consolazione in più: la morte è il cadere del velo che impedisce di vedere Gesù, di essere abbracciati da Lui e poter finalmente capire ogni cosa in Lui…
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