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Il segreto della rinascita è uno solo: tornare a Dio

Una cosa ci sembra evidente, se si giudicano le cose con occhio imparziale e libero da pregiudizi: la società dei nostri genitori, e soprattutto dei nostri nonni, funzionava meglio, mille volte meglio di quella attuale. La famiglia, innanzitutto; poi, lo Stato; poi la Chiesa; poi le banche, il lavoro, le imprese, le pensioni, la scuola, le poste, le ferrovie, perfino lo sport, lo spettacolo, la stampa e la televisione: ciascuna di queste cose funzionava meglio; molto, ma molto meglio di oggi. Non è passatismo e non è, o non è soltanto, nostalgia: è la verità dei fatti, confermata dagli indici statistici, dal nudo linguaggio delle cifre. Tanto è vero che l’Italia era divenuta la quarta potenza economica mondiale; che la lira era una delle monete più stabili al mondo; che le sue riserve auree erano fra le più cospicue a livello planetario; che le automobili italiane correvano su tutte le strade del mondo, le imprese italiane costruivano ponti e dighe colossali in ogni continente, i vestiti e la cucina italiana facevano scuola ovunque, e il nostro sistema scolastico dava risultati eccellenti, almeno fino alla svolta del ’68, tanto da non aver nulla da invidiare a nessun altro. Se, negli anni ’60, si voleva fare una vacanza senza spendere troppo, si andava all’estero, in Austria per esempio: il cambio era così vantaggioso che si spendeva meno che a farla in patria. Facciamo appello ai ricordi personali di chi ha almeno cinquanta o sessant’anni. La piccola borghesia poteva permettersi di andare al ristorante quasi ogni domenica: era normale anche per una famiglia di quattro, cinque persone. Si ordinava il primo piatto, il secondo, il contorno, il dolce e il caffè, e si lasciava una discreta mancia alla cameriera. Oggi una famiglia va al ristorante una domenica ogni tanto, meglio in pizzeria, così spende meno; oppure ordina solo il primo, o il secondo, e in genere non lascia nulla. Parlate con un cameriere, ve lo confermerà: a lasciare la mancia, ormai, sono quasi soltanto i turisti stranieri. E il pranzo domenicale faceva parte della gita in automobile: non tutti l’avevano, chi non l’aveva, noleggiava una macchina e pagava il pranzo anche al taxista. Era normale: un piccolo borghese poteva permetterselo, mentre oggi noleggiare un taxi per tutta la giornata sarebbe impensabile. Il piccolo risparmio veniva incoraggiato fin dalla scuola elementare: ogni bambino riceveva in dono un simpatico salvadanaio a forma di musina; qualche anno dopo, i genitori accompagnavano in banca il loro ragazzino e gli facevano aprire un conto corrente personale, iniziando con poche migliaia di lire. Il ragazzino depositava ogni mese qualche risparmio e stava a contemplare quel libretto sul quale erano segnate le entrate e le uscite: si sentiva responsabilizzato, si sentiva importante, e intanto imparava a risparmiare. D’estate si comprava il ghiacciolo anziché il cono o la coppetta: costava pochissimo, e la differenza, un po’ alla volta, prendeva la strada del deposito in conto corrente. Le piccole imprese, gli artigiani, i commercianti, lavoravano sodo e non restavano mai inattivi; le merci viaggiavano, le ordinazioni arrivavano a pioggia, anche e soprattutto dall’estero. Le tasse erano ancora ragionevoli, lo Stato non spremeva il ceto medio come un limone da gettare nel cestino dopo averlo prosciugato. I prodotti italiani, il modo di lavorare italiano, la rapidità di esecuzione e l’ingegnosità italiani, erano apprezzati in tutto il mondo.

E come funzionavano bene le cose materiali, così funzionavano assai meglio di oggi quelle culturali, spirituali, morali: basta fare il confronto fra un laureato di allora e uno di oggi; fra un giornalista di allora e di oggi; fra un padre o una madre di famiglia di allora e di oggi; fra una famiglia di allora e una di oggi. Nove volte su dieci, il confronto è umiliante per la realtà odierna. Non che non ci siano più le brave persone: ma lo sfarinamento dei costumi, della competenza, della stessa intelligenza, è evidente. L’individualismo esasperato, l’edonismo, il consumino, hanno fatto a brani il tessuto sociale, cominciando dalla famiglia. Aborto, unioni di fatto, omosessualità dilagano e sono accettate come cose perfettamente naturali; al contrario, diventano sempre più rare le coppie che non hanno mai divorziato, che non si sono mai separate, che non si sono mai tradite reciprocamente, che sono riuscite a tirar su dei figli maturi e con la testa sulle spalle. Le cause sono molte e complesse e non intendiamo scaricare ogni responsabilità sulle singole persone, perché è evidente che l’intera società è caduta sotto l’effetto ipnotico di un incantesimo maligno: pure, è innegabile che la società dei nostri giorni, ad onta dei progressi scientifici e tecnologici, è più povera di valori, di idee, di affidabilità, di senso di responsabilità. Le persone sono continuamente istigate dal concerto dei mass-media a godersi la vita spensieratamente, vale a dire irresponsabilmente ed egoisticamente; a cercare il proprio piacere in tutte le forme possibili; a cercarlo ad ogni età, dalla pre-adolescenza alla vecchiaia, senza alcun pudore o imbarazzo, anzi, con l’aria di chi esercita un legittimo diritto o rivendica una pretesa più che ragionevole. La patria è divenuta un nome senza sostanza, se non una parola che fa sorridere; la cittadinanza è per chiunque la voglia, per chiunque sia nato nel territorio italiano, anche se arrivato da te giorni, anche se del tutto alieno dall’idea di integrarsi e accettare i nostri valori culturali e sociali. Predomina l’insicurezza, per non dire la paura: la sera ci si chiude a doppia mandata con le porte blindate, si installano i sistemi di allarme, si posizionano le telecamere di sorveglianza; eppure i malviventi trovano sempre il modo di entrare nelle ville e negli appartamenti e fare un lauto bottino, non di rado maltrattando, picchiando e violentando le persone. I delinquenti spadroneggiano sul territorio, e a quelli nostrani se ne aggiungono migliaia e migliaia di stranieri, magari venuti appositamente per rubare, rapinare, spacciare droga o gestire il racket della prostituzione; se arrestati, trovano troppo spesso un giudice incredibilmente comprensivo che li rimette in libertà o li condanna a una pena irrisoria, il che li conferma nell’idea che l’Italia è uno Stato debole, imbelle, pronto a lasciarsi conquistare dal primo venuto. E come è venuto meno il sentimento della patria, è venuta meno la fede religiosa: cosa agevolata e affrettata dal clero stesso, il quale, a un certo punto, diciamo a partire dal Concilio Vaticano II, si è messo a smantellare la dottrina pezzo per pezzo, dapprima con una certa prudenza e abilità truffaldina, poi in maniera sempre più scoperta e da ultimo con furia iconoclasta, dopo che la liturgia era stata totalmente stravolta e ciò aveva predisposto le anime a porsi in un rapporto sbagliato con Dio, o addirittura a non rapportarsi più a Dio, ma a una non meglio identificata "comunità dei fedeli". Fedeli, a quel punto, non si sa più nemmeno di che cosa: forse della Pachamama.

Ora, la domanda che ci preme sul cuore è capire quale sia stata la causa principale di questa involuzione complessiva della nostra società. Le cause, infatti, come abbiamo sopra accennato, senza dubbio sono state e sono tuttora molteplici; e molte di esse provengono non già da una tendenza naturale della società stessa, ma da una regia occulta che ha orientato il deragliamento delle persone e delle istituzioni attraverso l’influenza dei mass-media, la moda, lo spettacolo e tutto ciò che crea e plasma l’immaginario collettivo. Nondimeno, siamo persuasi che, fra tutte, deve essercene una prevalente; una che ha reso possibile il cedimento complessivo e che in certo qual modo compendia tutto l’insieme di questa triste deriva che prelude al naufragio, anche in senso strettamente biologico, della società, visto che la natalità italiana è divenuta la più bassa a livello mondiale (in altre parole, ci stiamo estinguendo come popolo, e pare che ciò non importi nulla alla nostra classe dirigente, tanto più che si possono facilmente sostituire le braccia italiane con delle braccia straniere importate dall’Africa nella maniera che tutti sappiamo, oltretutto con la nobile giustificazione della filantropia). Ebbene, a noi sembra che la causa principale, che a sua volta spiega ogni altra crisi e involuzione, risieda nella perdita della fede religiosa dei nostri padri. Una società non è semplicemente una somma aritmetica d’individui; non si può paragonare a un certo numero di persone che vivono in un certo territorio, intercambiabili le une e indifferente il secondo; non è, insomma, qualcosa di meccanico e inerte, ma una comunità viva, di persone calde d’affetti e vibranti di passioni, intelligenza e voglia di vivere, legata a quel territorio, a quelle tradizioni, a quei padri, a quei valori, e a nessun altro; aperta verso il modo, ma al tempo stesso ben cosciente delle proprie radici e della propria identità, e niente affatto desiderosa di gettarle via come se fossero un inutile fardello. Ora, la fede cristiana è stata ciò che forniva ai nostri padri la malta per tenere unite le diverse pietre dell’intera costruzione sociale, per fonderle in un tutto unico, per dare anima e idealità all’orizzonte della loro esistenza. Le sosteneva nei momento difficili, le abituava alla pazienza e alla tenacia, le educava a disdegnare le apparenze e a concentrarsi sulla sostanza delle cose; in breve, è stato il cristianesimo a fare di loro delle persone serie, oneste, affidabili, responsabili, mature, laboriose, solidali, umane nel più bel senso della parola. In altre parole, oltre al contenuto intrinseco di verità, che conferisce all’esistenza un nobile significato e la sottrae al greve materialismo e al nichilismo di chi non crede in nulla e non si aspetta nulla dopo la morte, il cristianesimo ha svolto un’importantissima funzione sociale ed è stato il grande educatore di generazioni e generazioni di persone, le quali, grazie ad esso, hanno imparato a tenere sotto controllo i propri istinti più bassi e a impegnarsi nella vita con le proprie forze migliori. L’amore e il timor di Dio ha insegnato ai nostri padri a rispettare il prossimo, a prendere la vita con serietà, a risollevarsi dopo le disgrazie, a sperare nelle ore buie, a conservare sempre il rispetto di se stessi, a non cedere ai compromessi degradanti, a non lasciarsi sedurre dal miraggio del piacere ottenuto a buon mercato. In breve, ha trasmesso e insegnato loro, non solo in senso teorico ma nella pratica della vita, tutto quell’insieme di valori che poi la marea fangosa del diabolico consumismo, generosamente regalatoci da coloro che ci hanno liberati a suon di bombe nell’ultima guerra mondiale, ha corroso e infine spazzato via, nel corso di poco più d’una generazione.

Il nostro problema fondamentale, perciò, al presente, è ritrovare la fede perduta che avevano i nostri padri. I quali avevano il diploma di quinta elementare, mentre oggi una laurea non si nega ad alcuno; erano dignitosamente poveri o avevano giusto il necessario per vivere, mentre noi, anche se impoveriti dalle folli politiche della nostra classe dirigente (ma sarebbe meglio chiamarle con il loro vero nome, tradimento), non sappiamo più fare a meno di cento cose superflue, sciocche, volgari e stravaganti; loro si assumevano tutte le responsabilità della vita e sapevano sopportare grandi sacrifici per amore della famiglia, della patria e della fede, mentre molti di noi scappano davanti alle prime difficoltà e si strappano lo zaino dalla schiena, gettandolo via, non appena il sentiero si fa erto e faticoso. Dunque è probabile che vi sia una stretta relazione fra le due cose: fra la semplicità con la quale i nostri padri accoglievano la grazia della fede, e il loro stile di vita austero, laborioso, cosciente dei propri doveri, ligio alla morale. Noi oggi, con tutte le nostre lauree, i nostri master e i nostri Erasmus, ci sentiamo troppo colti e intelligenti per piegare le ginocchia davanti a Dio o invocare la protezione della Vergine Santissima, come facevano loro: e questa è la nostra condanna. Sappiamo più cose, ma abbiamo smarrito l’essenziale. Siamo stati accecati dalla superbia e abbiamo disprezzato la lezione di umiltà delle passate generazioni. Ci hanno fuorviato i cattivi maestri: al liceo, all’università, abbiamo udito i professori parlare con sufficienza o disprezzo della fede cattolica, e abbiamo dedotto che una persona colta e intelligente semplicemente non può credere nella stessa verità professata dalle vecchiette e dai bambini; che la fede è per il popolino, un residuo del passato destinato a estinguersi. Ecco dunque la risposta che cercavamo: ritrovare l’umiltà; chiedere a Dio, le mani giunte e le ginocchia piegate, che ci doni la grazia della fede.

Così invocava Dio san Anselmo d’Aosta all’inizio della sua ricerca filosofica (Proslogion, 1; in: N. Abbagnano, Storia della Filosofia, UTET, 1993, e Gruppo. Edit. L’Espresso, 2006, vol. 1, p. 625):

Insegnami a cercarti, e mostrati a me che ti cerco. Io non posso cercarti, se tu non mi insegni, né trovarti se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti, che ti desideri cercandoti, che ti trovi amandoti, e che ti ami trovandoti. Io ti riconosco, Signore, e ti ringrazio di aver creato in me questa tua immagine affinché di te sia memore, ti pensi e ti ami; ma essa è così consunta dal logorio dei vizi, così offuscata dal cumulo dei peccati, che non può far quello per cui fu fatta, se tu non la rinnovi e non la ricostituisci. Non tento, o Signore, di penetrare la tua altezza perché non paragono affatto ad essa il mio intelletto, ma desidero in qualche modo di intendere la tua volontà, che il mio cuore crede ed ama. NÉ CERCO DI INTENDERE PER CREDERE; MA CREDO PER INTENDERE. E ANCHE QUESTTO CREDO: CHE SE PRIMA NON CREDERÒ, NON POTRÒ INTENDERE.

Che altro aggiungere a questa perfetta invocazione? Nulla: meditarla, ripeterla, pregare Dio con essa, supplicarlo e chiedergli di perdonare la nostra sciocca, grossolana superbia. Tu sei Tutto, o Dio: Verità, Sapienza, Amore; noi, senza Te, siamo nulla. Abbi misericordia e mostraci il Tuo volto.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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