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8 Novembre 2020Una caratteristica tipica ed evidente dell’uomo moderno è la presenza costante, in lui, di una forma d’inquietudine che non prelude allo slancio verso la meta, anche perché l’uomo moderno non ha mete, dal momento che non riconosce alcuna verità assoluta; ma che sempre ristagna e fermenta in lui, tormentandolo e straziandolo in una danza di morte, per dirla con lo scrittore e drammaturgo svedese August Strindberg. Un’inquietudine che degenera sovente in vera e propria in angoscia, il cui simbolo potrebbe essere L’urlo di Edvard Munch, il famosissimo quadro del pittore norvegese considerato, insieme all’olandese Vincent Van Gogh, il massimo precursore dell’espressionismo (e sarebbe una questione non oziosa capire perché siano tutti scrittori o artisti nordici, figli della cultura protestante, calvinista o luterana; e mettiamoci pure il danese Kierkegaard e il norvegese Ibsen). Ma perché l’uomo moderno è costantemente inquieto e angosciato, visto che si è affidato alla scienza e al progresso per emanciparsi dalle paure che invece, a suo credere, tormentavano i figli del buio medioevo? Come si spiega questo apparente paradosso?
Proviamo a rispondere partendo da una pagina di René Guénon, tratta da Iniziazione e realizzazione spirituale (titolo originale: Initiation et Réalisation spirituelle, Paris, Éditions Traditionelles, 2003; traduzione dal francese di Pietro Nutrizio, Milano, Luni Editrice, 2003, pp. 22-24):
A tal proposito si può rilevare subito che la perpetua inquietudine dei moderni altro non è che una delle forme di quel bisogno di agitazione che abbiamo spesso denunciato, bisogno che in campo mentale si traduce nella ricerca per se stessa, ossia di una ricerca che, invece di trovare il proprio termine nella conoscenza come normalmente dovrebbe, si protrae indefinitamente e non porta veramente a nulla, ed è del resto intrapresa sena nessuna intenzione di arrivare a una verità, alla quale tanti dei nostri contemporanei non credono neppure. Siamo d’accordo che una certa inquietudine può avere il suo legittimo posto all’inizio di ogni ricerca, in quanto impulso incitante ala ricerca stessa, giacché è ovvio che se l’uomo fosse soddisfatto del suo stato di ignoranza resterebbe immerso in esso indefinitamente e non cercherebbe affatto di uscirne; forse sarebbe meglio dare un altro nome a questo tipo di angustia mentale: in realtà essa non è nient’altro che quella "curiosità" che secondo Aristotele è l’inizio della scienza, la quale — beninteso — non ha nulla in comune con i bisogni puramente pratici a cui gli "empiristi"e i "pragmatisti" vorrebbero attribuire l’origine di ogni conoscenza umana; ma in tutti i casi, la si chiami inquietudine o curiosità, essa è qualcosa che non avrà più ragion d’essere né potrà più sussistere in alcun modo a partire dal momento in cui la ricerca sia arrivata al suo fine, vale a dire dal momento in cui la conoscenza sia stata raggiunta, e questo, di qualunque tipo di conoscenza si tratti; a maggior ragione essa dovrà necessariamente scomparire, in modo completo e definitivo, quando a essere in questione sia la conoscenza per eccellenza, che è quella della sfera metafisica. Si potrebbe perciò vere, nell’idea di un’inquietudine senza termine, e di conseguenza di un’angustia che non serve per trarre l’uomo dalla sua ignoranza, il segno di una specie di "agnosticismo", che in molti casi può anche essere più o meno cosciente, ma non è per questo meno reale: parlare di "inquietudine metafisica" in fondo equivale, lo si voglia o no, a negare la conoscenza metafisica, o quanto meno a dichiarare la propria impotenza a ottenerla, cosa che in pratica non è molto diversa; e quando tale "agnosticismo" sia realmente consapevole, in genere si accompagna con un’illusione che consiste nel prendere per metafisica qualcosa che non lo è affatto, e non è neppure una qualsiasi conoscenza valida, foss’anche di ordine relativo; intendiamo parlare della "pseudo metafisica" dei filosofi moderni, la quale è un effetti incapace di dissipare l’inquietudine anche più piccola, inteso che non è una vera conoscenza e non può quindi, ben al contrario, se non accrescere il disordine intellettuale e la confusione d’idee di coloro che la prendono sul serio, e rendere la loro ignoranza ancora più inguaribile; da questo punto di vista, così come da ogni altro, la falsa conoscenza è sicuramente molto peggiore della pura e semplice ignoranza naturale.
Qualcuno, come abbiamo detto non si accontenta di parlare di "inquietudine", ma si spinge fino a parlare di "angoscia", che è ancora più grave, ed esprime un atteggiamento forse ancor più antimetafisico, se fosse possibile; i due stati d’animo sono a ogni modo più o meno comunicanti, e ciò a motivo del fatto che l’altro hanno una comune radice nell’ignoranza. Di fatto l’angoscia è soltanto una forma estrema e per così dire "cronica" di paura; ora, l’uomo è naturalmente portato a provare paura di fronte a ciò che non conosce o non capisce, e questa stessa paura diventa un ostacolo che gli impedisce di vincere la propria ignoranza, poiché lo spinge a distogliesi dall’oggetto in presenza del quale la prova e al quale ne attribuisce la causa, quando in realtà quest’ultima risiede soltanto in lui; per di più tale reazione negativa è anche troppo spesso seguita da un senso di vera e propria avversione per ciò che è incognito, soprattutto se l’uomo ha l’impressione, sia pure confusa, che tale incognito si pone al di là dalle sue attuali possibilità di comprensione. Se però l’ignoranza può venir dissipata, la paura svanisce con ciò stesso immediatamente, come nell’esempio ben noto della corda che viene confusa con un serpente; la paura, e di conseguenza l’angoscia, che di essa è solo un caso particolare, è perciò incompatibile con la conoscenza, e se tocca un livello tale da diventare veramente invincibile, la conoscenza sarà da essa impedita, quand’anche in assenza di qualsiasi altro ostacolo connesso con la natura dell’individuo; in questo senso si potrebbe perciò parlare non di "angoscia metafisica", ma al contrario di un’"angoscia antimetafisica" che ricopre il ruolo, in certo qual modo, di un vero e proprio "guardiano della soglia", secondo l’espressione degli ermetisti, e impedisce all’uomo l’accesso alla sfera della conoscenza metafisica.
Ci sembra di poter concordare su molti passaggi del ragionamento di Guénon, non però sul suo presupposto di fondo, né sulla conclusione. È vero, infatti, verissimo, che l’inquietudine dell’uomo moderno è un aspetto della più generale agitazione che lo caratterizza in tutti i suoi atti, frutto della velocità che la tecnica ha impresso a ogni aspetto della vita, e della stessa, incalzante ideologia del progresso, che è alla base di tutta la concezione del mondo moderna. Ed è altrettanto vero che l’inquietudine, o piuttosto l’agitazione, a livello intellettuale, è la manifestazione visibile di una ricerca che non tende a una meta, per la semplice ragione che l’uomo moderno non crede alla verità, e quindi la sua ricerca diviene fatalmente fine a se stessa, come un cane che si morde la coda; il che attesta l’essenza antimetafisica o, se si preferisce, "agnostica", di tutta la cultura moderna. Vero, infatti, anche il concetto che giungere alla metafisica equivale ad acquietare l’animo, perché l’intelligenza trova il cibo di cui aveva fame, e la volontà trova l’acqua di cui aveva sete; mentre il persistere dell’inquietudine, o piuttosto, come osserva giustamente Guénon, della curiosità come premessa d’una conoscenza più sostanziosa, che però non arriva, indica che si è ben lontani dalla vera metafisica, ma s’indugia piuttosto in ambito anti-metafisico, perché inquietudine e angoscia, se non sono il segno d’una tensione interiore verso la meta della vera conoscenza, ma la spia di un movimento che gira a vuoto e si avvolge su se stesso, tradiscono uno stato di disordine intellettuale che è l’opposto dell’ordine armonioso originato dalla vera conoscenza metafisica.
E tuttavia, la premessa di tutto questo ragionamento è errata, dunque è errata anche la conclusione. Con tutto il rispetto dovuto a una figura di studioso serio e profondo come René Guénon, a noi sembra che il suo ragionamento sia viziato da un pregiudizio che egli non si cura di dimostrare, ossia che l’inquietudine e l’angoscia dell’uomo moderno sono il frutto della paura, e che la paura è a sua volta l’effetto dell’ignoranza. L’errata conclusione è che basta liberarsi dall’ignoranza per superare automaticamente anche la paura: proprio come, per Socrate, liberarsi dall’ignoranza etica equivale automaticamente a scegliere il bene, e a farlo. Entrambe le cose, al contrario, sono tutt’altro che dimostrate; quanto a noi, le neghiamo recisamente. Non è vero che si ha paura solo di ciò che non si conosce: si ha paura anche del male, e il male si vede benissimo. Socrate, che non lo vede, è un illuminista, e lo è anche Guénon: se davvero bastasse conoscere il vero per liberarsi da ignoranza e paura, e quindi da inquietudine e angoscia, vorrebbe dire che non esiste separazione fra il conoscere e il volere, né fra il volere e l’agire; e che non esiste il male. Inoltre, vorrebbe dire che tutte le intelligenze rispondono agli stessi meccanismi e tutte le anime sono mosse dalla stessa aspirazione al vero e al bene: ma anche questi presupposti sono, a nostro parere, falsi; o meglio sono veri, ma solo a livello teorico, vale a dire considerando le menti e le anime non per ciò che effettivamente sono, ma per ciò che potrebbero essere, se assecondassero il movimento universale del Vero e del Bene. Di fatto, gli esseri umani assecondano o no il movimento universale verso il Bene e il Vero per una libera scelta, che non tutti sono disposti a fare: e tale rifiuto non è questione d’ignoranza, o non solo d’ignoranza, ma di cattiva volontà. In altre parole, non basta vedere il vero per amarlo, né è sufficiente vedere il bene per riconoscerlo e metterlo in pratica (qui i passaggi sono addirittura due: il comprendere e l’agire). Rousseau, sulle orme di Socrate — dal quale, per altri aspetti, è così lontano, e soprattutto così immensamente inferiore – crede nell’innocenza originaria dell’uomo, proprio come Guénon crede che basti illuminare l’anima con la verità metafisica perché si trasformi e si orienti nella giusta direzione, vincendo i fantasmi dell’ignoranza, della paura, dell’inquietudine e dell’angoscia. Per questo abbiamo detto che Guénon, come Socrate, è un illuminista: ripone tutta la sua fiducia nella virtù soteriologica dell’illuminazione interiore, che nel suo pensiero fa le veci della redenzione cristiana (si noti che aveva lasciato il cristianesimo per l’islamismo, sia pure nella sua forma esoterica, perché sentiva quest’ultimo più vicino alla sua visione di un tradizionalismo radicale). Ma chi pensa che l’uomo possa auto-illuminarsi, e tutti gli esoteristi lo pensano, proprio come gli illuministi — ed ecco la naturale convergenza fra illuminismo e massoneria — concede troppa grazia alle virtù naturali dell’uomo e ne fa, addirittura, un piccolo dio, o meglio un dio in potenza, che attende solo la magica scintilla per risvegliarsi e rendersi conto della propria natura divina. Anche Platone, il massimo discepolo di Socrate, e Plotino, il massimo continuatore di Platone, la pensano in tal modo. Ebbene tutti costoro: Socrate, Platone, Plotino, Rousseau e Guénon, sopravvalutano immensamente le possibilità della creatura umana; e gli ultimi due, che vengono dalla cultura cristiana e la rifiutano deliberatamente, pensano che la redenzione di Cristo possa essere sostituita dall’auto-redenzione dell’uomo. Ciò è la conseguenza del rifiuto del Peccato originale: chiunque affermi che l’uomo ha in sé gli strumenti per elevarsi con le sue forze al di sopra della propria inquietudine e dissipare ogni senso d’angoscia e paura con la contemplazione della verità, è un illuminista; in senso cristiano, è un pelagiano.
L’errore concettuale di Guénon è quello di scambiare la causa per l’effetto. L’anima non si libera dalla paura quando è illuminata, ma è illuminata quando si libera dalla paura; e la mente non giunge alla vera conoscenza quando si libera dall’ignoranza, ma si libera dall’ignoranza quando perviene alla vera conoscenza. L’uomo tuttavia non può compiere questo doppio movimento, dell’anima verso l’illuminazione e della mente verso la verità — che poi è un solo movimento, che alla conoscenza imperfetta appare formato da due elementi distinti, e sia pure contigui e paralleli — con le sue sole forze e i suoi soli mezzi. Opinare diversamente è come credere che un uomo sprofondato in una profonda palude possa tirarsene fuori semplicemente afferrandosi per i capelli e tirando verso l’alto; o che un uomo immerso nelle tenebre più fitte possa giungere a vedere la luce ordinando al sole d’illuminarlo. In realtà, né l’uomo può uscire dalla palude facendo forza su se stesso, né può vedere la luce finché si trova al fondo d’una buia e profondissima caverna, per uscir dalla quale non dispone di alcuno strumento: lampada, scaletta, bussola. L’uomo non è un piccolo dio e neppure un dio in potenza, un dio inconsapevole, un dio temporaneamente addormentato; in lui vi è, sì, una scintilla divina, ma non della stessa sostanza di Dio, bensì come riflesso del Creatore nella sua creatura. E non è neppure una creatura naturalmente innocente e naturalmente buona: se lo fosse, allora sì che basterebbe contemplare il vero e il bene per metterli in pratica. Di fatto, tra il vedere ciò che è vero e ciò è bene, e metterli in pratica, corre una distanza immensa, che l’uomo può superare solamente a due condizioni: primo, che ne abbia effettivamente la volontà, il coraggio e la determinazione; secondo, che riconosca la propria piccolezza, fragilità e insufficienza e perciò chieda, e riceva, l’aiuto della grazia divina. Senza ciò, l’uomo è condannato a restare nell’angoscia e nella paura. E non c’è luce che possa indicargli la via, né salvezza possibile: uno solo è il Redentore.
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