
Per dare un senso al modo la ragione crea l’inferno
3 Novembre 2020
La lotta infernale contro la ragione, il bene e il bello
5 Novembre 2020Ho ingoiato una formidabile sorsata di veleno. — Tre volte sia benedetto il consiglio che mi è giunto! – Mi bruciano le viscere. La violenza del veleno mi torce le membra, mi rende deforme, mi abbatte. Muoio di sete, soffoco, non posso gridare. È l’inferno, la pena eterna! Vedete come il fuoco si ravviva! Brucio come si deve. Va, demonio!
Avevo intravisto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza. Come descrivere la visione, l’aria dell’inferno non tollera gli inni! Erano milioni di creature incantevoli, un soave concerto spirituale, la forza e la pace, le nobili ambizioni, che ne so?
Le nobili ambizioni!
Ed è ancora la vita! — Se la dannazione è eterna! Un uomo che vuole mutilarsi è proprio dannato, non è vero? Io mi credo all’inferno, dunque ci sono. È l’adempimento del catechismo. Sono schiavo del mio battesimo. Genitori, avete fatto la mia sventura e avete fatto la vostra! Povero innocente! — L’inferno non può nulla contro i pagani. – È ancora la vita! Più tardi, le delizie della dannazione saranno più profonde. Un crimine, presto, ch’io cada nel nulla, secondo la legge umana.
Taci, ma taci!… è la vergogna, il rimprovero qui: Satana dice che il fuoco è ignobile, che la mia collera è orrendamente stolta. — Basta!… con gli errori che mi suggeriscono, magie, profumi falsi, musiche puerili. E dire che possiedo la verità, che vedo la giustizia: ho un giudizio sano e fermo, sono pronto per la perfezione… Orgoglio. — La pelle della mia testa si dissecca. Pietà! Signore, ho paura. Ho sete, tanta sete! Ah, l’infanzia, l’erba, la pioggia, il lago sulle pietre, IL CHIARO DI LUNA QUANDO IL CAMPANILE SUONAVA DODICI… il diavolo sta sul campanile a quell’ora. Maria! Vergine Santa! … – Orrore della mia stupidità.
Laggiù, non sono forse anime oneste, che mi vogliono bene… Venite… ho un guanciale sulla bocca, non mi sentono, sono fantasmi. Poi, nessuno pensa mai agli altri. Non avvicinatevi. Puzzo di bruciaticcio, è sicuro. […]
Dovrei avere un mio inferno per la collera, un mio inferno per l’orgoglio. — e l’inferno della carezza; un concerto di inferni.
Muoio di stanchezza. È la tomba, me ne vado ai vermi, orrore dell’orrore! Satana, burlone, tu vuoi dissolvermi, con i tuoi incantesimi. Esigo. Esigo! Un colpo di forcone, una goccia di fuoco.
Ah! Risalire alla vita! Gettare lo sguardo sulle nostre deformità. E quel veleno, quel bacio mille volte maledetto! La mia debolezza, la crudeltà del mondo! Mio Dio, pietà, nascondimi, mi comporto troppo male! — Sono nascosto e non lo sono.
È il fuoco che si ravviva col suo dannato.
Provate a indovinare di dove abbiamo tratto questo brano. Se però siete dei cultori di letteratura, il quesito è troppo facile, perché non è tratto dalla riproduzione stenografica di un esorcismo, come potrebbe sembrare — sfidiamo chiunque a dire il contrario – ma da quello che è considerato da molti come il vertice della poesia moderna: Nuit de l’enfer (notte d’inferno), che fa parte del poema in prosa di Arthur Rimbaud (1854-1891) Une Saison en enfer (una stagione all’inferno). Per questa sola opera Rimbaud, che quando la scrisse, nel 1873, aveva diciannove anni, ma già a diciassette aveva raggiunto la piena maturità artistica (con Le bateau ivre, il battello ebbro, del 1871) si è conquistato un posto definitivo nell’Olimpo dei poeti moderni, e non in posizione marginale, ma proprio al suo vertice. Gran parte dei critici è concorde nel vedere la poesia di Rimbaud come uno spartiacque nella storia della poesia, e nell’asserire che la poesia propriamente moderna nasce con lui; mentre i poeti delle generazioni precedenti, compresa quella di Baudelaire (1821-1867), sono considerati come dei precursori, ancora incerti a metà del guado.
Abbiamo scelto questo brano come testo esemplare e al tempo stesso quale metafora esistenziale della modernità, perché ci sembra che ne riassuma i tratti essenziali con una sincerità e una sorta di macabro candore quasi disarmanti. Tralasciando gli aspetti propriamente estetici della Nuit d’enfer, perché in questa sede non vogliamo fare esegesi poetica ma limitarci all’aspetto culturale, morale e psicologico che da essa si riverbera, notiamo innanzitutto che l’andamento formale è quello di una confessione e al tempo stesso di una preghiera, se non addirittura di una supplica. L’io poetico dell’autore si sente bruciare, implora l’aiuto di Dio e della Vergine Maria, lamenta una sete divorante, un senso di soffocazione, vorrebbe gridare ma non ha la voce; si percepisce all’inferno, negli artigli di Satana, con un sillogismo quasi cartesiano (Io mi credo all’inferno, dunque ci sono): in breve, manifesta tutti i sintomi della possessione demoniaca durante una cerimonia di esorcismo. Tuttavia c’è anche qualcos’altro: c’è un’accusa, o una lamentazione, nei confronti dei propri genitori, per averlo battezzato e fatto istruire nel catechismo cattolico (Sono schiavo del mio battesimo. Genitori, avete fatto la mia sventura e avete fatto la vostra!); e c’è una deplorazione del battesimo, perché i pagani sono immuni dagli assalto del maligno, proprio in quanto ignorano la lotta del bene contro il male (l’inferno non può nulla contro i pagani). Qui il discorso si fa più scopertamente ideologico: è un attacco contro il cristianesimo, un atto d’accusa contro l’educazione cattolica, che – questa è la tesi suggerita – creando il senso della colpa, opera una lacerazione dolorosa e irreparabile nelle profondità della coscienza. Poi, dopo altre invocazioni a Dio e la confessione della propria paura, si entra in un’atmosfera più marcatamente psicologica, la cui nota dominante è data dalla nostalgia dell’infanzia, vista come età dell’innocenza perduta (Ah, l’infanzia, l’erba, la pioggia, il lago sulle pietre, IL CHIARO DI LUNA QUANDO IL CAMPANILE SUONAVA DODICI…). E ancora la presenza del diavolo, appollaiato sul campanile, che si sovrappone e deturpa oscenamente la cara immagine della chiesa del paese natio. Da ultimo, si diffonde un crescente orrore di morte, un senso di putrefazione e di dissoluzione (Muoio di stanchezza. È la tomba, me ne vado ai vermi, orrore dell’orrore!), intrecciato alla perversa voluttà d’un bacio mille volte maledetto che reintroduce proprio alla fine, come in certe poesie di Baudelaire, l’ombra del piacere sessuale (omosessuale, in questo caso, perché in filigrana s’intravede la torbida amicizia particolare di Rimbaud con Verlaine, come in Femmes damnées di Baudelaire si trattava dell’amore saffico) quale vertice di una consapevole voluttà del proibito, della trasgressione, della sfida satanica all’ordine morale costituito (Avevo intravisto la conversione al bene e alla felicità, la salvezza), al quale riserva parole ironiche e quasi irridenti (Erano milioni di creature incantevoli, un soave concerto spirituale, la forza e la pace, le nobili ambizioni, che ne so? Le nobili ambizioni!). Pertanto, le invocazioni a Dio e alla Vergine Maria devono essere intese in senso ironico e blasfemo; anche se nominato con orrore, è Satana il sovrano onnipotente di quest’universo infernale, ed è a lui che l’io narrante brama di consegnare la propria anima.
E ora passiamo ad allargare l’orizzonte della nostra analisi, trasferendo le osservazioni specifiche che abbiamo fatto a proposito di questo brano alla società moderna e alla cultura moderna nel loro complesso, cogliendo le analogie fra la situazione poeticamente descritta da Rimbaud e quella reale, storica, determinatasi in Occidente e nel mondo intero dopo l’avvento della piena modernità. Che si sia trattato non di un luminoso progresso, come vorrebbe la narrazione ufficiale e ideologica, ma di un pauroso regresso e addirittura di una discesa agli inferi, lo abbiano già sostenuto in numerosi scritti (in particolare nel recente Per dare un senso al mondo la ragione crea l’inferno, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 04/11/20; così come abbiamo colto la corrispondenza fra la letteratura moderna e l’aspetto diabolico della modernità (cfr. Perché i vampiri appaiono insieme ai filosofi del ‘700?, il 16/10/20; La casa sull’abisso? È la nostra, il 16/01/19; E. A. Poe scopritore di una nuova malattia dello spirito: la modernità, sul sito di Arianna Editrice il 29/11/12, poi su quello dell’Accademia Nuova Italia il 25/12/17). Se ci si pone da un tale punto di vista, allora testi come la Nuit de l’enfer, o come La caduta della casa degli Usher, di Edgar Allan Poe, cesseranno di apparirci come delle cupe eccezioni e ci sveleranno il loro carattere paradigmatico e tutt’altro che avulso dalla realtà. A quel punto, ciò che dovremmo chiederci è come vada che la critica e la cultura ufficiale, scuola compresa, abbiano fatto di un testo come Una stagione all’inferno il vertice della poesia europea; come non ne abbiano affatto colto il carattere nichilista, necrofilo e satanico; come abbondino tuttora di elogi e ostentata ammirazione per un testo che somiglia piuttosto, se guardato obiettivamente e con un minimo di distacco critico, alle rabbiose esternazioni di un indemoniato sottoposto ad esorcismo, che non a un esercizio di poesia, così come la poesia è stata sempre intesa, in Europa, dai suoi albori fino alla metà del secolo XIX. In altre parole, la domanda è questa: come accade che gli uomini moderni, i critici letterari moderni, i professori moderni, gl’intellettuali moderni, gli studenti moderni, non colgano la dimensione patologica, delirante, repulsiva, evocata da simili testi, e anzi li applaudiscano come opere autenticamente geniali, e li facciano studiare ai giovani, proponendoli come modelli da ammirare ed imitare? Davvero non ci sono delle opere poetiche più sane, più equilibrate, più innamorate della vita di queste, tali da meritare l’ammirazione e lo studio da parte dei giovani? Siamo in presenza di un ottundimento dell’intelligenza, di uno stravolgimento della sensibilità estetica, oppure di qualcosa di ancor più oscuro e inquietante?
Una cosa ci sembra chiara: nella modernità esiste una vera e propria attrazione per l’orrido, il macabro, il raccapricciante, il deforme, il mostruoso. Lo si vede nelle arti figurative, nella musica, nel cinema, nello spettacolo in genere, ma anche nella letteratura e nella poesia. Prima delle modernità tale attrazione esisteva, perché è connaturata a un aspetto della personalità umana, ma si esprimeva in forme assai meno visibili, sia per quantità che per qualità. Sopratutto, si esprimeva come consapevole eccezione alla regola: e la regola, in ambito estetico, è la ricerca del bello. Anche se Hegel ha dichiarato la fine dell’arte bella già al principio del XIX secolo, resta il fatto che un’arte brutta è una contraddizione in termini, perché l’arte esprime lo slancio dell’anima verso il bello, e se l’anima invece è attratta dal brutto, dal deforme, dal crudele, ecc., ciò significa che quell’anima è malata, o, nel caso della modernità, che l’intera società è gravemente malata. In un mondo malato, la malattia diviene la norma: ed ecco come si spiega la mancata reazione repulsiva del pubblico e della critica nei confronti di poesie e di opere d’arte che trasudano angoscia, tristezza, paura, delirio, rifiuto radicale della realtà. In una società malata, gli autori che realizzano opere sane, vitali e gioiose vengono bollati come noiosi, superficiali e incapaci di cogliere il vero sentire del loro tempo. E anche da questo lato si coglie che la cultura moderna è una forma di malattia: perché, da che mondo è mondo, la categoria del bello, come quella del vero e come quella del buono, non va declinata in senso storico; non esiste qualcosa che si possa considerare bello in un determinato tempo, e brutto in un altro, oppure vero e falso, se non entro un ristretto margine di oscillazione, che non ammette capovolgimento totali. In una società sana, il brutto non diverrà mai bello e il bello non sarà mai percepito come brutto, almeno dalla stragrande maggioranza delle persone. Ma in una società malata questo accade. In tal senso, il secolo XVII, con l’irruzione del marinismo e con la centralità improvvisamente acquistata da soggetti brutti, deformi o anche solo sconvenienti (la donna sdentata, la cisposa, la pidocchiosa, la zoppa) indica già una tendenza all’inversione del gusto e dunque una degenerazione del comune sentire riguardo a una aspetto fondamentale dell’esistenza. Verso la fine del secolo successivo, il "caso" De Sade, con la sua interminabile e monotona sequela di stupri, incesti, sacrilegi, sodomizzazioni, maltrattamenti e torture ai danni di giovani fanciulle virtuose, mentre le viziose trionfano e si godono i frutti di un successo mal guadagnato, è un altro significativo campanello d’allarme, con l’aggravante che qui siamo già in presenza di un satanismo consapevole: infatti tutta l’opera di Sade altro non è che un inno al male e alla malvagità, e una sostanziale denigrazione e ridicolizzazione del bene. Poi arrivano i Baudelaire coi loro fiori del male, i Rimbaud con le loro discese all’inferno per vedere sino a che punto ci si possa degradare, i Miller, i Moravia, i Pasolini, che sguazzano senza ritegno nelle stanze più brutte del romanzo e del cinema. Si potrebbe obiettare che anche grandissimi scrittori, come Dostoevskij, non hanno esitato ad esplorare quei fetidi scantinati; è vero, ma lo hanno fatto con tutt’altro spirito e con ben altra sensibilità. Dostoevskij, come Shakespeare, come Dante, esplora gli abissi del male per trovare la luce; Rimbaud vi s’immerge al solo scopo di uccidere quel che di buono, e cioè di autenticamente umano, vi è nel proprio cuore. Per questo la modernità è una anti-civiltà: uccide il bene che vi è negli uomini, anche nei peggiori, mentre li stimola a tirar fuori il proprio lato tenebroso e malvagio…
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels