Il nostro progetto di vita? Fare la volontà del Signore
2 Novembre 2020
L’oscura attrazione dei moderni per l’abisso
4 Novembre 2020
Il nostro progetto di vita? Fare la volontà del Signore
2 Novembre 2020
L’oscura attrazione dei moderni per l’abisso
4 Novembre 2020
Mostra tutto

Per dare un senso al modo la ragione crea l’inferno

Se dovessimo sintetizzare in una sola definizione l’essenza dello spirito moderno, sarebbe questa: la pretesa di dare al mondo, che ne è sprovvisto, un senso e una forma ben definita, sottomettendolo mediante la razionalità strumentale e calcolante. In altre parole, l’uomo moderno trova che il mondo non è di suo gusto, non corrisponde alle sue aspettative, e perciò aspira a rifarlo grazie alla ragione, che gli dà i mezzi per piegarlo come cera nelle sue mani e per conferirgli un riflesso della sua stessa razionalità, salvandolo dalla mancanza di senso e così operando una redenzione nei confronti del reale. Non si tratta, per quest’ultimo aspetto, di una volontà pienamente cosciente; del resto, l’uomo moderno non è cosciente di nulla per ciò che riguarda le radici da cui discende, ossia la civiltà cristiana che gli ha dato i mezzi, l’occasione e l’idea stessa di auto-emanciparsi, ponendosi come un novello creatore, o quantomeno come un novello demiurgo, di fronte al mondo delle cose. Tuttavia è certo che dal cristianesimo ha ereditato, sia pure inconsciamente, l’idea che una redenzione è necessaria, e quindi è lui stesso che vuol essere anche il nuovo redentore del mondo. Cristo, infatti, pretende di averlo redento in senso spirituale, l’uomo moderno invece lo vuol redimere in senso materiale, eliminando o correggendo ciò che in esso è irrazionale, e imprimendo sulle cose il marchio della propria razionalità assoluta. D’altra parte, la razionalità assoluta non può coesistere con il mistero: qualsiasi visione del mondo che contenga in sé elementi di mistero, vale a dire di un qualcosa che non può essere interamente analizzato, né soddisfacentemente spiegato, con il solo strumento della ragione.

Ciò significa, come ha visto acutamente, fra gli altri, ma più di altri, Max Weber, pervenire ad un pieno e completo disincanto del mondo. Infatti il mondo è un luogo incantato solo allo sguardo di chi conserva il senso del limite e quello del mistero: che poi sono le categorie fondamentali del sentire religioso. La religione è permeata di mistero e sorge come adorazione di esso: nel cristianesimo, al centro di tutto vi è il duplice mistero della Unità e Trinità di Dio, e della divina Incarnazione; poi il Mistero Eucaristico come perenne presenza di Dio fra gli uomini. Di conseguenza, la razionalità moderna, intesa come dominio sulle cose e come capacità di rifare il mondo a partire da essa, equivale alla negazione sia di ogni sguardo incantato sul mondo, sia di ogni sopravvivenza dello spirito religioso. Significa anche, ci sembra di poter aggiungere, la fine della poesia: se è vero, come è vero, che la poesia è la parola magica con cui si esprime un mondo incanto, o quantomeno un modo pieno di misteri e di cose inspiegabili. La stessa cosa si può dire per le arti figurative e specialmente per la più spirituale di tutte le arti, la musica: come potrebbero seguitare ad esistere nella prospettiva di un disincanto totale? Ne deriva che la poesia moderna, l’arte moderna, la musica moderna, sono altrettante espressioni prive di senso. Non c’è, né potrebbe esserci, alcuna poesia moderna, alcuna arte e alcuna musica moderna; se esistono, ciò significa che non sono moderne, nel senso che non attingono alle radici culturali e spirituali della modernità, ma si rifanno alla tradizione premoderna; oppure sono dei tentativi e degli esperimenti, più o meno velleitari, più o meno disordinati, condannati fatalmente al fallimento dalla loro stessa natura intrinsecamente contraddittoria, che non può generare se non opere spurie.

A proposito del rapporto fra ragione, senso e mondo, nel pensiero di Max Weber, ha scritto lo storico Gian Enrico Rusconi nel suo saggio Razionalità, razionalizzazione e burocratizzazione, nella raccolta di saggi intitolata Marx Weber e l’analisi del mondo moderno, a cura di Piero Rossi (Torino, Einaudi, 1981, pp. 189-91):

In prima istanza e in termini generali, la razionalità è per Max Weber un procedimento di controllo per dominare la realtà dentro e fuori dell’uomo. I criteri di tale procedimento sono la calcolabilità, la prevedibilità, la generalizzabilità dei mezzi rispetto al fine di controllo o padronanza del mondo ("Weltbeherrsschung"). La razionalità è dunque un concetto riferito a comportamenti pratici, non conoscenza di leggi oggettive di movimento della società o rivelazione di significati immanenti alla storia o natura umana; anzi è la risposta alla mancanza di senso del mondo. È disincantamento del mondo. In un passo della "Wissenschaft als Beruf" ["La scienza come professione", 1919] Weber scrive: "La progressiva intellettualizzazione e razionalizzazione NON significa crescente conoscenza generale delle condizioni di vita che ci circondano. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento provare che non vi sono forze fondamentalmente misteriose e imprevedibili le quali intervengano in modo tale da impedire che si possa DOMINARE — in linea di principio tutte le cose mediante la PREVISIONE razionale. Ma ciò significa disincantamento del mondo".

Questa determinazione della razionalità e della razionalizzazione come controllo mediante mezzi intellettuali dà forma definitiva a una tesi che anni prima Weber aveva illustrato come "produzione di senso" da parte del "Kulturmensch". "La cultura è una sezione finita della infinità priva di senso del divenire del mondo, alla quale è attribuito senso e significato dal punto di vista dell’uomo… Noi siamo esseri culturali dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di dargli un SENSO".

La produzione di senso non caratterizza soltanto la razionalità come capacità complessiva dell’uomo storico. Il senso è anche un connotato interno all’agire sociale: su di esso, sulle sue modalità di espressione, si articola la razionalità dell’agire sociale. Tale agore è inteso come "riferito – secondo il suo senso, intenzionato dall’agente o dagli agenti — all’atteggiamento di altri individui e orientato nel suo corso in base a questo". Di conseguenza, l’agire sociale consente l’individuazione di "leggi razionali" soltanto come "possibilità tipiche, confermate dall’osservazione, di un certo corso dell’agire sociale che è possibile attendersi in presenza di determinati fenomeni – possibilità che risultano intelligibili in rapporto ai motivi tipici e al senso intenzionato da coloro che agiscono". Intenzionalità soggettiva, intelligibilità del comportamento, razionalità dell’agire non sono sinonimi. Un comportamento non è razionale perché come tale percepito o esibito dal soggetto agente: quello che da un determinato punto di vista è razionale, da un altro può essere irrazionale. L’agire diventa intelligibile — dunque razionale — soltanto alla luce dei tipi ideali, cioè di costruzioni di modelli di comportamento in sé coerenti, rispetto ai quali i comportamenti effettivi risultano più o meno distanti o devianti. Ma gli stessi tipi ideali, lungi dall’esaurire la fenomenologia dell’agire effettivo, rispondono a possibilità "euristiche" dell’indagine sociologica. Questo vale anzitutto per la dicotomia tra "Zweckrationalität" (razionalità rispetto allo scopo) e "Weltrationalität" (razionalità rispetto al valore), che rappresenta l’ultimo sforzo di concettualizzazione weberiana, compiuto nel primo capitolo di "Wirtschaft und Gesellschaft" ["Economia e società", 1921-22, postumo].

Se prendiamo la riflessione di Max Weber come punto di partenza per un ulteriore approfondimento, ci sembra di poter evidenziare i seguenti passaggi chiave:

1) La razionalità moderna, da Weber estesa arbitrariamente alla razionalità in quanto tale, è un progetto di dominio dell’uomo sulla realtà, dentro e fuori di lui. Ciò implica una guerra incessante e una tensione insanabile sia con il mondo, sia con se stesso: non esiste, infatti, una terza parte che possa svolgere una funzione mediatrice, tanto meno pacificatrice, nella contesa fra l’io e il mondo e fra l’io e se medesimo. Non si può non notare che tale atteggiamento di dominio e di violenza da parte dell’uomo appare sterile e distruttivo, perché tende a elidere uno dei due poli della relazione dialettica, senza aver nulla che possa sostituirne la funzione, e così riequilibrare l’assetto interno dell’io, posto che questo riesca a spuntarla nella guerra contro il mondo.

2) La razionalità moderna trova la sua espressione più compiuta in una serie di comportamenti pratici, che in un certo senso la convalidano e la inverano. Senza di essi, il suo statuto concettuale resterebbe incerto ed ambiguo; il che è naturale, dato che le sue radici si trovano nella ragione contemplativa e non strumentale di origine greca e cristiana, mentre la sua trasformazione in una macchina da guerra per sottomettere il mondo risale alla "svolta" di Cartesio, Galilei e Newton. In questo senso, la razionalità moderna è ideologica e trova il suo esito naturale prima nell’idealismo hegeliano, poi nel marxismo, in quanto filosofia della praxis e non come conoscenza "pura".

3) La razionalità moderna è intesa anche e soprattutto, come risposta alla mancanza di senso del mondo. Anche questa è una logica conseguenza dell’abbandono e del rifiuto della tradizione greca e cristiana, in particolare di Aristotele e san Tommaso d’Aquino, entrambi convinti finalisti. Per l’uomo moderno niente ha un fine, perché niente ha un senso: ecco dunque che lui stesso si sente chiamato a dare un senso al mondo, facendo, in tal modo, le veci del Dio che lo ha tradito, o ingannato, o che non è mai esistito. Ciò implica un totale disincanto del modo, per cui si può definire la civiltà moderna come la prima civiltà della storia, e l’unica fino ad oggi, che si fondi su un disincanto completo del mondo. Da ciò deriva quella caratteristica nota drammatica, meglio ancora disperata, che serpeggia nella cultura moderna, nella filosofia, nelle arti, nella letteratura, nella poesia, nel teatro, nel cinema: mano a mano che si spengono gli ardori e i fuori dell’età dei lumi e si addensano e nebbie della tarda modernità, l’orizzonte esistenziale si fa sempre più fosco e sopraggiunge la nausea, come dice Sartre, ovvero il disgusto, come in Gadda, o la rivolta, come in Camus, o l’assurdo, come in Beckett, o il cupio dissolvi, come in Cioran. L’orizzonte di senso della modernità, partito dalle splendide premesse illuministe e dall’ottimismo del progresso, approda al nichilismo più completo, percorrendo le tappe dello sbandamento e dell’auto-dissoluzione come le stazioni dolorose di un’autentica via Crucis del pensiero.

4) Le azioni pratiche determinate dal Logos della razionalità moderna non sono necessariamente razionali in senso oggettivo; di certo non li rende razionali — e qui la critica di Weber si fa acuta e pungente – il fatto di essere sbandierati come tali. Esiste una razionalità rispetto allo scopo e una razionalità rispetto ai valori. Pertanto, non si può dire che la razionalità moderna sia razionale in senso assoluto: le azoni pratiche che essa ispira, in campo economico, politico, sociale, giuridico, ecc., sono generalmente razionali quanto allo scopo, ma non quanto al valore, perché la modernità è povera di valori, e comunque non riconosce loro uno statuto universale e atemporale. Il tratto più tipico della cultura moderna è lo storicismo e, di conseguenza, il relativismo: le cose sono valide in un determinato tempo e luogo, ma necessitano di un continuo aggiornamento, perché il tempo e le circostanze le logorano dall’interno e le rendono obsolete, inefficaci. La modernità vive sul filo di una perenne corsa contro il tempo; chi si ferma è perduto. In tale prospettiva, non vi sono valori assoluti, e quindi anche i "tipi ideali" ai quali si ispirano i comportamenti che vogliono essere razionali, devono essere continuamente rivisti e adattati. Non esistono tipi ideali assoluti, quindi ciò che è razionale oggi, apparirà come irrazionale domani, in una spirale senza fine.

Ebbene, i caratteri della razionalità moderna che abbiamo enucleato, a partire dalla riflessione di Max Weber, configurano un quadro d’insieme che somiglia tremendamente all’inferno. Una ragione che arde dalla brama di rifare il mondo di sana pianta, ma che si scontra continuamente con il proprio limite, ossia con il tempo che tutto divora e che divora anche le forme pratiche del proprio agire. Un essere umano che vuol dominare le cose e se stesso, senza però avere dei punti di riferimento assoluti, ma dovendo continuamente brancolare e incespicare nel terreno infido del contingente e del transeunte, che rende velocemente vecchi e superati tutti i suoi disegni e i suoi propositi. Uno sforzo titanico per dare senso al mondo, al prezzo del suo disincanto, reso tuttavia irrealizzabile e velleitario dalla mancanza di senso che alberga nell’uomo stesso, in quanto soggetto che si fa mille domande alle quali pretende di saper rispondere, per poi constatare che molte di esse, e le più importanti, sono disperatamente al di fuori della sua portata. Una razionalità che si esprime nelle azioni pratiche, ma che si definisce come tale solo rispetto agli scopi, e non rispetto ai valori: per cui le azioni risultano tremendamente razionali ma in un senso ristretto, univoco, e sovente distruttivo e disumano, perché calpestano ciò che vi è di più sacro nella vita dell’uomo, il mistero della sua origine e della sua destinazione finale. Un buon esempio di tale disumanità della ragione finalizzata unicamente allo scopo è dato dalle politiche sanitarie adottate in questo 2020 per fronteggiare la supposta pandemia da Covid-19. Al fine di prolungare di qualche giorno l’agonia dei morenti, li si lascia soli e abbandonati, senza il conforto dei loro cari. Quale umanità vi è in questo? E quale razionalità vi è nel distruggere l’economia in vista di un’immaginaria protezione sanitaria?

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.