Siamo fatti di fango e non basta una vita a ripulirci
31 Ottobre 2020Il nostro progetto di vita? Fare la volontà del Signore
2 Novembre 2020Fare filosofia significa cercare la verità. Non una verità qualsiasi, ma la sola verità vera: perché, per definizione, non ci possono essere due o più verità diverse fra loro. Diversa, questo sì, potrà essere la prospettiva da cui la si contempla, perché l’uomo, per sua natura creatura finita, non può entrare nella verità e farsi tutt’uno con essa, quindi non può averne una visione totale e perfetta, ma solo parziale e imperfetta. E tuttavia: una cosa è vedere parzialmente e imperfettamente la verità, come un oggetto contemplato da lontano; un’altra cosa, e ben diversa, è che ciascun uomo pensi di avere la sua verità, o, peggio ancora, che ciascuno ritenga di avere diritto alla propria verità. Che c’entra la verità con i diritti? La verità è ricerca, fatica, sacrificio: e infatti non vi è certo la fila davanti ad essa. Gli uomini disposti a cercarla sinceramente, con tutta la loro intelligenza, con tutta la loro volontà e con tutta la loro anima, sono solo una esigua minoranza; gli altri preferiscono costruirsi le loro piccole verità personali, o di partito, o d’ideologia, per poi farvi la loro cuccia e viverci buoni e appagati sino alla fine dei loro giorni. Magari si danno un gran daffare per convertite gli altri, gli infedeli; si agitano, complottano, fomentano rivoluzioni, sognano cieli nuovi e terre nuove e intanto fanno scorrere fiumi di sangue: vogliono imporre al mondo intero la loro verità, ma non si sono mai presi la briga di verificare, con fatica e sacrificio personale, se quella sia propria la verità, la sola, l’unica. Per farlo, bisogna mettersi personalmente alla prova del fuoco; mentre è assai più facile pretendere di cambiare il mondo anziché por mano ad un profondo lavoro su se stessi. Se la formula magica per trovare la verità e metterla in pratica non si trova, è molto più semplice dare la colpa agli altri, dire che il mondo è sbagliato e mettersi a rifarlo, che non vedere le proprie insufficienze, la propria pigrizia, la propria mancanza di rigore intellettuale e morale. Perché la verità è esigente, non si concede agli animi fiacchi o alle menti svogliate; non si lascia neppure avvicinare dagli stupidi, dai presuntuosi e dai conformisti.
La verità, infatti, non è un oggetto inerte, rispetto al quale noi siamo la parte attiva: la verità invece è qualcosa di vivo, di pulsante, di caldo, che attira e che anima, che seduce e che regala agli uomini la gioia più grande che sia dato conoscere al mondo: ma non a tutti, bensì ai soli meritevoli. Se paragoniamo il filosofo, ossia il ricercatore della verità, ad un alpinista, possiamo vedere nella sua scalata verso l’alto la figurazione della sua ascesa verso il vero, a prezzo di fatiche e di pericoli, e nella conquista della vetta inviolata, il raggiungimento del fine prefissato: la contemplazione disinteressata e illuminante della verità. Ora, non è esatto vedere l’alpinista come la sola parte attiva, e la vetta della montagna come l’oggetto passivo, che riceve valore e importanza dal fatto di essere infine conquistata da qualcuno. Nella dialettica fra l’alpinista e la montagna, bisogna vedere entrambi, l’alpinista e la montagna, come fattori dinamici e attivi: il primo è proteso con tutta la sua volontà alla conquista della vetta, ma questa esercita un’attrazione irresistibile, magica, nel senso di non spiegabile in termini meramente razionali, su quanti la contemplano dal basso e da lontano. Infatti non esistono ragioni propriamente razionali per affrontare immani fatiche e grandissimi pericoli, fino a quello di perdere la vita, soltanto per la soddisfazione di posare il piede su un particolare luogo del paesaggio. L’attrazione che le montagne esercitano sugli alpinisti è in realtà di tipo spirituale, e potremmo anche dire mistico, considerato che le veglie, i sacrifici e la stessa severità della preparazione tecnica, nonché la concentrazione necessaria per affrontare i passaggi più ardui, presentano marcate somiglianze con la disposizione del monaco o dell’anacoreta i quali cercano la solitudine e la penitenza, e praticano la preghiera e la mortificazione corporale e spirituale, rinunciando ai piaceri e alle soddisfazioni del mondo, per intraprendere un itinerario di ascensione dell’anima verso Dio. L’uno e l’altro, il mistico e l’alpinista, hanno bisogno di rendersi leggeri per poter salire verso l’alto, e perciò attuano il distacco dalle cose grossolane in vista di un bene che è di natura interiore, inestimabile proprio perché immateriale.
L’itinerario di sant’Agostino dal mondo a Dio, e poi la riflessione sul mondo fatta assumendo la prospettiva del divino, è un ottimo esempio di come l’anima possa elevarsi alla Verità suprema e poi, contemplandola, sia in grado di posare uno sguardo ampio, comprensivo, amorevole ma non egoico, sulla dimensione terrena. In un certo senso, per poter giudicare equanimemente il mondo e tutto ciò che appartiene alla sfera terrena, sia di ordine materiale che spirituale, è necessario prima rendere l’anima leggera e la mente capace di puntare dritto all’essenziale, proprio come l’alpinista che si prepara ad ascendere un’ardua vetta deve prima sbarazzarsi di tutto ciò che non è necessario e rendere il proprio corpo agile e scattante, così come la mente lucida e pronta. Sant’Agostino si è innalzato verso la Verità con lo slancio intellettuale e con l’ardore del desiderio spirituale, ossia con la tensione della mente e con quella dell’anima, per giungere alla comprensione che la Verità è Dio e che Dio è la Verità; e che la Verità divina è essenzialmente amore, l’Amore infinito del Creatore per le sue creature. E dunque si può giungere ad essa con lo strumento della ragione; ma poi c’è un abisso che solo lo slancio dell’anima può colmare, perché l’Amore divino si compendia in un immenso mistero, quello del Verbo che si fa carne per rendersi ancora più vicino alle sue creature e attirarle a Sé con la forza irresistibile del suo Sacrificio per amore di esse. E così come Dio si fa carne per andare incontro agli uomini, illuminarli e redimerli, innalzandoli dalla palude delle loro cieche passioni alla luce rasserenante e pacificante della Verità, analogamente l’uomo tende a Dio per un istinto insopprimibile che lo proietta oltre di sé, in quanto se con la carne è cittadino di questo mondo, con lo spirito partecipa della dimensione sopranaturale e quindi ha la sua patria naturale lì dove tutto ha avuto inizio, presso il Verbo divino che, solo, può spegnere l’inquietudine umana e appagare completamente e perfettamente l’umano desiderio di luce, verità, bellezza, giustizia e amore. Inquietum est cor nostrum donec requiscat in te, Domine: inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te, o Signore. E le due opere maggiori di Sant’Agostino, le Confessioni e La città di Dio, descrivono proprio tale doppio itinerario dell’anima, dall’umano al divino e dal divino all’umano: nel senso che l’anima, quando è giunta a specchiarsi in Dio, diviene così limpida e trasparente da poter comprendere le cose di quaggiù, a cominciare dalla storia umana, in una maniera così chiara e soddisfacente come mai è in grado di fare fino a quando rimane invischiata nelle passioni e nei desideri terreni, e quindi giudica il mondo con l’occhio torbido e greve di chi è schiavo della materia.
Una sintesi efficace di questo doppio itinerario è contenuta nel volume di Natalino Palermo e Giannino Balbis Romanae litterae (Milano, Minerva Italica, 1989, pp. 580-581):
Le "Confessioni" hanno la direzione dell’ascesa. L’io agostiniano drammaticamente si interroga, si studia, scevera tutte le proprie sfumature e le proprie "spaventose" capacità, si strappa e si ricuce lungi un riemergente interrogativo che contrappone la luce alle tenebre, il peccato alla fede, la perdizione alla salvezza; si tende spasmodicamente, sia a livello orizzontale (sul piano della biografia) sia a livello verticale (sul piano della riflessione introspettiva), nell’esigenza di un approdo ad una verità integrale. Finché, dopo il gran salto in Dio, l’autoanalisi psicologica non trova la via pianeggiante del dialogo con la divinità. E in questo dialogo s’acqueta l’ansia della scalata cioè di quello che potremmo chiamare il "viaggio di andata" dall’io alla sua "verità". (…)
La "Città di Dio" ha, invece, la direzione della discesa e del "viaggio di ritorno". E take direzione le deriva dal fatto di nascere, oltre che da uno spunto generatore di ordine contingente (controbattere le accuse pagane contro il cristianesimo come causa della rovina dell’Impero) e da immediati scopi apologetici e dottrinari, da una ormai chiara e consolidata filosofia della storia.
Ovvero: raggiunto il piano e ridiscusso tutto alla luce di esso, fino a entrare in possesso di quella che si potrebbe dire la "visuale di Dio", Agostino ridiscende tra gli uomini e le loro vicende per offrire un’interpretazione globalmente definitiva. Intanto non esiste una storia "delle nazioni" (e lo stesso ruolo storico di Roma è tutto da ridiscutere), ma una generale storia "dell’umanità"; in essa non hanno rilievo assoluto i fattori politici contingenti, ma gli eventi di ordine spirituale, cioè i "fatti" in cui agisce la mano di Dio; anche i due modelli che continuamente si contrappongono sulla sena storica — la "città divina" e la "città terrena" — non assecondano confini geografici e politici, ma abbracciano l’umanità di sempre, in quanto attraversano l’intimità di ogni singolo individuo. La storia umana, creata da Dio, è il regno della Provvidenza; al suo centro è Cristo e al suo culmine è quell’ultima età del mondo che da Cristo ha inizio; il tempo la racchiude come in una grande bolla di sapone, che è tuttavia immersa nella totalità eterna di Dio.
Infatti. Come la lettura delle Confessioni è impareggiabile per innalzare l’anima verso Dio, così quella della Città di Dio è tale da spalancare un orizzonte molto più ampio sulla storia umana, facendoci toccare con mano quanto sia miope e ristretta la nostra lettura abituale dei fatti, sempre condizionata dal temporale e dal contingente e perciò incapace di rivelarci la presenza divina nella storia. Eppure, come diceva Renzo nel capolavoro manzoniano, la c’è, la Provvidenza: eccome se c’è; solo che noi non sappiamo vederla perché il nostro sguardo, totalmente assorbito dalla dimensione immanente, è incapace di riconoscerla. Si tratta d’una incapacità tutta nostra, colpevole, perché originata dalla superbia e dalla pigrizia: la superbia che ci fa presumere di essere noi soli gli artefici della storia; la pigrizia, perché non vogliamo assumerci l’impegno — faticoso, sì, ma anche doveroso e a suo modo lieto, perché tale da conferire un significato alla nostra vita – di cercare il vero. Cercare il vero con l’ausilio della retta ragione naturale porta al riconoscimento della verità in Dio; e la ragione, sostenuta dalla Rivelazione, ci aiuta a fare il passo ulteriore, ossia a dare un volto e un nome a quel Deus absconditus che invano i filosofi ateniesi onoravano, perché quando venne san Paolo ad annunciarlo nella Persona del Verbo incarnato, gli risero in faccia e se ne andarono per i fatti loro. I passaggi, dunque, sono questi: la ricerca del vero, come espressione di un bisogno reale e insopprimibile, connaturato alla struttura della mente umana; il suo riconoscimento mediante la ragione e la sua conferma mediante la fede (che non è qualcosa d’inferiore alla ragione, semmai una facoltà superiore ad essa); la conversione del cuore, della mente e della volontà per servire, adorare, lodare il Verbo che è fonte di vita: Io sono la via, la verità e la vita, come dice Gesù a quelli che lo hanno riconosciuto, non per merito proprio, ma perché la grazia divina, che sempre viene in soccorso a quanti cercano appassionatamene e sinceramente il vero, lo ha rivelato. Da ciò deriva un’importante conseguenza: tutto il buono che gli uomini riescono a fare, è il frutto della grazia divina che agisce per mezzo di loro; il male, invece, è ciò che sanno fare quando pretendono di agire da soli. E anche questo concetto, fondamentale per la retta comprensione della storia — non solo della grande storia, ma anche di quella piccola storia, per noi infinitamente preziosa, che è la nostra vita individuale – è stato spiegato in modo chiarissimo da Gesù Cristo (Gv. 15, 1-8):
1 «Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. 2 Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 1Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. 4 Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. 5 Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6 Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7 Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. 8 In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Il padrone della storia è dunque Dio: nulla vi accade che Lui non voglia o che non permetta. Nel particolare momento storico che stiamo vivendo molti sono preoccupati, angosciati, depressi e perfino disperati: temono che un futuro orribile stia per avverarsi, che ogni cosa finisca sotto il dominio del Male. Temono inoltre per la loro vita individuale: più che la paura della morte, è il senso d’incertezza e smarrimento che li sta sopraffacendo. Ma la paura è una forma di attaccamento alle cose di questo mondo, tanto quanto la brama: e i cristiani sanno o dovrebbero sapere che questo mondo di creta è destinato a finire, nessuno sa quando, forse anche domani, forse stasera. Eppure questo pensiero non turba chi ha compreso che tutto è nelle mani di Dio, che è il Bene, oltre che il Vero. Non sono perciò i buoni a doversi preoccupare, ma i malvagi: su di loro incombe il giudizio…
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