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Gesù prega per i suoi discepoli ma non per il mondo

C’è un versetto del Vangelo di Giovanni, nel quale si riporta la solenne preghiera di Gesù al Padre suo nella notte in cui fu tradito, che basterebbe da solo a smentire tutte le chiacchiere sul falso ecumenismo e sul dialogo con le false religioni, a ridicolizzare tutte le marce interreligiose per la pace, tutti i convegni interreligiosi così cari al cuore dei seguaci della nuova religione del Vaticano II, con tanto di pastori protestanti — o magari pastore e vescove, meglio ancora se sposate con un’altra donna -, rabbini ebrei, imam islamici, lama buddisti, stregoni pellerossa dalle piume colorate e, da ultimo, seguaci della Pachamama o Madre Terra, intronizzata in Vaticano e in onore della quale Bergoglio fa coniare delle apposite monete. Il versetto è questo (17, 9): Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. Più chiaro di così: Io prego per loro, non prego per il mondo. Gesù non prega per il mondo: dice anzi esplicitamente che si rifiuta di pregare per il mondo, ossia per tutti quelli che pur avendolo conosciuto, o potendo conoscerlo e giungere così alla Verità, si rifiutano di riconoscerlo e si ribellano alla sua Rivelazione.

Riflettendo su questi versetto, così carico di suggestione, anche perché esprime l’ultima preghiera di Gesù fatta insieme ai suoi discepoli, che aveva chiamato "amici" durante l’Ultima Cena, dicendosi pronto a sacrificare la vita per loro, si comprende quanta falsità, quanta menzogna e quanta tremenda responsabilità gravi su chi, mentendo, non solo omette di confessare la Verità di Cristo come la sola che conduce alla salvezza, ma si unisce ai seguaci delle false religioni e li incoraggia a perseverare nei loro errori, dando loro a credere che non vi è alcuna differenza fra l’una e l’altra fede e che tutte, alla fine, conducono allo stesso Dio, e quindi alla verità e alla salvezza dell’anima. Non parliamo neppure del documento di Abu Dhabi: è così palese il suo carattere eretico, è così sfrontata la sua mendacia, che se qualcuno ancora si rifiuta di prendere atto che il signor Bergoglio è un ateo e massone travestito da papa (ateo non perché massone, ma sebbene sia massone, perché i massoni sono, a loro modo, credenti), allora ciò significa che ha deciso di non capirlo mai, neanche di fronte all’evidenza più lampante. Ma a quell’infame documento, nel quale si attribuisce a Dio stesso la volontà di far sussistere le false religioni, non si è arrivati da un giorno all’altro: la marcia di avvicinamento alla piena e conclamata apostasia dei nostri giorni è stata abile e graduale, ed è iniziata col Concilio, più precisamene con la Dignitatis humanae e con la Nostra aetate, documenti nei quali v’era già, in germe, tutto quel che poi è avvenuto, fino alla dichiarazione di Abu Dhabi e all’intronizzazione della Pachamama nella basilica di San Pietro, passando per il cosiddetto incontro interreligioso di Assisi, del 1986, promosso da Giovanni Paolo II (e basterebbe già questo per capire che Giovanni Paolo II non è santo, non può essere santo, ma è stato proclamato santo dal massone Bergoglio solo ed esclusivamente per ragioni di strategia massonica) e tutta una serie di altri gesti più o meno altamente simbolici. Fra i quali ricordiamo, tanto per rinfrescarci la memoria, Paolo VI che rinuncia alla tiara e la depone per metterla in vendita; il discorso massonico-globalista tenuto dallo stesso Paolo VI all’Assemblea generale dell’ONU, nel 1965; il dono dell’anello piscatorio, ancora da parte di Paolo VI (altro bellissimo "santo" proclamato da Bergoglio) al primate anglicano Ramsey, che volle mettergli personalmente al dito, come fosse un qualsiasi oggetto di sua proprietà; la sua visita al Consiglio ecumenico delle Chiese, a Ginevra; il bacio ai piedi del metropolita Melitone (e dunque anche il bacio ai piedi dei politici del Sud Sudan da parte di Bergoglio ha un "illustre" precedente); l’aver indossato, sempre l’ineffabile Paolo VI, il "pettorale del giudizio", simbolo dell’Antica Alleanza, come un sacerdote ebraico. Per tacere di altri gesti clamorosi e ugualmente scandalosi degli altri papi postconciliari.

Avevamo già svolto una prima riflessione su quel versetto del Vangelo di Giovanni (vedi l’articolo «Non prego per il mondo», pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 19/03/18); vogliamo ora tornarci sopra, partendo dal Commento a Giovanni del teologo e biblista Giuseppe Segalla (1932-2011), del quale è in corso il processo di beatificazione (Ed. Paoline, 1986, pp. 416-417):

In questo verso sono messi in contrasto radicale discepoli e mondo. Il mondo, in quanto chiuso in se stesso ed alla rivelazione, anche se avesse dei valori mondani, è già escluso dalla salvezza. L’unica condizione, come dice il Barrett, per diventare oggetto della preghiera di Gesù per il mondo sarebbe quella di cessare di essere "mondo". Gesù è venuto per salvare il mondo (3,14-16), ma solo se esso accetta di uscire dalle tenebre, se accetta di non poter darsi la luce e la salvezza, di essere messo in questione e di abbandonare le sue sicurezze per un’altra sicurezza. Bisogna tener presente questa concezione negativa di "mondo" in tutto il brano17,9-16. La teologia di Giovanni è a favore di una critica al mondo ed è lontana da un atteggiamento positivo verso il mondo, come è oggi un po’ di moda.

Ci sembra probabile che l’ultima osservazione di don Segalla difficilmente sarà passata inosservata e che poco deve essere piaciuta agli ambienti progressisti e vatican-secondisti della curia patavina, presso la quale era stimato professore e oltretutto, in quanto studioso del "Gesù storico", non lontano, in linea di massima, dal sentire di quei signori. Ma come perdonargli di aver messo lì, quasi a margine del suo commento, questa osservazione pungente dal sapore polemico: che oggi è di moda, nella Chiesa, presentare il mondo sotto una luce totalmente positiva, il che si colloca all’opposto della teologia di Giovanni? D’altra parte, il rischio che si corre privilegiando un’impostazione storicistica degli studi biblici è proprio questo: di perdere un po’ di vista (un po’ troppo, a volte) il fatto che i Vangeli, come del resto tutta la Scrittura, sono testi divinamente ispirati; che in essi è possibile cogliere delle sfumature differenti nel modo di raccontare i fatti concernenti la vita di Cristo, non però, propriamente parlando, delle diverse "teologie": perché la teologia del Vangelo è una ed una sola, quella dichiarata da Gesù stesso: Io sono la via, la verità e vita; nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me. Pertanto è un po’ azzardato parlare di una teologia di san Giovanni, di una teologia di san Paolo, ecc.: perché il Vangelo, non lo si scordi mai, è uno ed uno solo, come non si scorda di rammentarci san Paolo (1 Cor. 3,4): Quando uno dice: «Io sono di Paolo», e un altro: «Io sono di Apollo», non vi dimostrate semplicemente uomini? A noi sembra che il grande pericolo insito in un’impostazione puramente storica dell’esegesi biblica risieda in ciò: che si finisca per leggere i Vangeli in una maniera del tutto umana, come si potrebbe leggere le pagine di Tucidide, di Tito Livio o di Tacito, e si perda così di vista il fatto che la chiave di lettura indispensabile è quella che viene dalla fede, e perciò da un’assistenza soprannaturale da parte di Dio stesso. Nessuno può comprendere la Bibbia se la legge con uno sguardo puramente umano; nessuno può lasciarsi afferrare dalla verità profonda del Vangelo se non chiede a Dio d’illuminarlo e aiutarlo a porsi nel giusto atteggiamento, non solo di ordine intellettuale, ma anche e soprattutto spirituale. Osserva a questo proposito il biblista Édouard Cothenet (in: Augustin George e Pierre Grelot, a cura, Introduzione al Nuovo Testamento, vol. 4, La questione giovannea; titolo originale: Introduction critique au Nouveau Testament, vol. IV, La Tradition Johannique, Parigi, Desclée, 1977; traduzione dal francese di Giuseppe Barbaglio, Roma, Borla, 1978, p. 232):

Se si paragona Giovanni a Paolo, l’altro grande teologo del Nuovo Testamento, non sono meno evidenti somiglianze e differenze. L’uno e l’altro vogliono dimostrare la novità sconvolgente del Cristo e del suo messaggio; ma lo fanno su registro differenti, Paolo con la sua foga di polemista, Giovanni con l’ardore contenuto del contemplativo. L’uno vede nell’opera del Cristo una nuova creazione, l’altro dà la priorità all’illuminazione portata dalla vera Luce entrando nel nostro mondo (1,9). L’uno e l’altro sono i grandi teologi della fede, ma con apprezzabili sfumature: l’uno parla piuttosto della fede come principio di vita ("pistis"), l’altro dell’atto di credere ("pisteuein") come adesione alla persona. Dialettico, Paolo insiste sulla rottura con il sistema della Legge e oppone alla giustificazione attraverso le opere la giustizia della fede. Giovanni non ignora, al contrario, il linguaggio giuridico, ma lo usa per caratterizzare il processo del mondo contro Gesù, testimone della verità, e il processo di Dio contro il mondo incredulo. Mentre da moralista Paolo commenta volentieri tutte le categorie di peccati che travolgono il mondo, Giovanni concentra la sua attenzione sul peccato per eccellenza, cioè il rifiuto di credere (per es. 3,36; 9,41; 12,48).

Il peccato più grave di tutti, dunque, è non credere in Gesù, non credere che Gesù è via, verità e vita: e basterebbe già questo per capire che Bergoglio e tutta la sua falsa chiesa, i suoi Spadaro, i suoi Paglia, i suoi Galantino, i suoi Parolin, non sono veri cristiani, né vero cattolici, visto che in nome di un falso dialogo sono pronti a baciare il Corano, e baciare l’anello dei rabbini, a inchinarsi di fronte, a inchinarsi e baciare i piedi di fronte a qualunque personaggio non cristiano e non cattolico., dati che lo fanno non quale segno di umiltà, ma quale occasione per umiliare la veste che portano, per disprezzare quel Gesù di cui a parole sono seguaci, tanto è vero che quasi mai li si ved e inginocchiarsi davanti a Santissimo, ma restare ritti in piedi, gonfi di orgoglio e di superbia, come è tipico dei fratelli massoni. E da dove nascono quest’orgoglio, questa superbia smisurata, se non dall’idea, falsa e aberrante, che il mondo sia buono così com’è, e che tutti gli uomini siano fratelli (vedi l’ultima "enciclica" del signore argentino), non però fratelli in Cristo, ma in quanto figli della Madre Terra, la quale richiede, lei sì, umiltà e adorazione, e anche che ci si getti a terra in segno di suprema sottomissione, come avvenne nei Giardini Vaticani — orrido spettacolo — quando vi fu introdotto il brutto idolo della Pachamama e una sua sacerdotessa, o sciamana, o strega, come la si vuol chiamare, eseguì gli oscuri riti da lei pretesi? Sempre dall’idea d’un mondo fondamentalmente buono, quasi non toccato dalla ferita del Peccato, nasce l’idea del Concilio Vaticano II, espressa da Giovanni XXIII già nel discorso di apertura (§ 4,2-3; e 7, 1-2):

Spesso infatti avviene, come abbiamo sperimentato nell’adempiere il quotidiano ministero apostolico, che, non senza offesa per le Nostre orecchie, ci vengano riferite le voci di alcuni che, sebbene accesi di zelo per la religione, valutano però i fatti senza sufficiente obiettività né prudente giudizio. Nelle attuali condizioni della società umana essi non sono capaci di vedere altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori; e arrivano fino al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa.

3. A Noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo.(…)

1. Aprendo il Concilio Ecumenico Vaticano II, è evidente come non mai che la verità del Signore rimane in eterno. Vediamo infatti, nel succedersi di un’età all’altra, che le incerte opinioni degli uomini si contrastano a vicenda e spesso gli errori svaniscono appena sorti, come nebbia dissipata dal sole.

2. Non c’è nessun tempo in cui la Chiesa non si sia opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati, e talvolta con la massima severità. Quanto al tempo presente, la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore; pensa che si debba andare incontro alle necessità odierne, esponendo più chiaramente il valore del suo insegnamento piuttosto che condannando.

C’è qualcosa che non va, in questo discorso. Da un lato si riconosce che il mondo è pieno di errori; dall’altro ci si scaglia contro quelli che ne denunciano i pericoli, chiamandoli profeti di sventura (ma non è questo il compito dei profeti?), e si dice di voler sostituire la "misericordia" disarmata e pacifista alla giusta condanna di essi. È come dire che, di fronte a un leone infuriato e pronto a balzare, bisogna abbassare la guardia e trattarlo con dolcezza e mansuetudine. E c’è una critica sottintesa a tutto il Magistero anteriore: si suggerisce che finora la Chiesa non ha saputo esporre la dottrina nel modo giusto, eccedendo in severità. Eppure Gesù in Persona ha detto (Gv 3,18-19): Chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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