L’essenziale, paradossalmente, è quello che manca
13 Ottobre 2020Perché i vampiri appaiono insieme ai filosofi del’700?
15 Ottobre 2020Abbiamo parlato recentemente delle tesi dell’antropologo Terence W. Deacon, il quale, riflettendo su quale sia il significato di ogni cosa, ha constatato un’assenza invece di una presenza; di una mancanza che rivela, per via negativa, quell’elemento essenziale che fa di ogni cosa ciò che è, ovvero la sua intima essenza. Scrive Terence W. Deacon a conclusine del suo grosso libro Natura incompleta. Come la mente è emersa dalla materia (titolo originale: Incomplete Nature How Mind Emerged from Matter, Norton & Company Inc., New York, 2012; traduzione dall’inglese di Alfredo Tutino, Roma, Le Scienze, 2012, pp. 613-14; 619-20):
Le leggi della fisica restano indiscusse. Il mio senso di essere un agente senziente ed efficace nel mondo, di essere in grado di cambiare le cose in modi che somigliano ai fini che immagino, di riconoscere la bellezza quando sento un notturno di Chopin o di sentire la tragedia di far parte di un’umanità incapace di rinnegare un modo di vita che sta distruggendo il suo stesso futuro; tutte queste cose non sono cambiate. Ma a proposito di queste esperienze ora so qualcosa dio diverso. So qualcosa di più, e ne consegue che sono qualcosa di meno. Le mie esperienze sono intese in modo diverso, non più come sembravamo essere un tempo. Questo "io’" da cui parto, e dalla cui prospettiva l’intero mondo fisico spesso sembra estraneo, adesso appare in una luce diversa. Il mio io non è più lo stesso. Da un lato, ho in qualche modo perduto la solidità che un tempo davo per scontata, il mio "me" come corpo fisico non è più altrettanto sicuro, ma d’altro canto la mia incertezza sul mio posto nel mondo, il posto di significato e valore nello schema delle cose, sembra farsi più sicuro nel momento in cui i rendo conto che forse sono più vicino a essere il foro nel mozzo della ruota che non il bordo della ruota stessa. (…)
L’universo è davvero più vasto di quel che possiamo vedere, e toccare, e manipolare con le nostre mani o i nostri ciclotroni. Qui c’è qualcosa di più delle cose. C’è il modo in cui le cose sono organizzate e collegate ad altre cose. E c’è più di quel che è attuale. C’è quel che potrebbe essere, quel che è possibile e quel che è impossibile. Se i fisici quantistici possono imparare a star bene in mezzo alle conseguenze causali materiali della sovrapposizione di stati alternativi ancora non realizzati della materia, non dovrebbe essere un salto troppo grande quello di cominciare ad accettare la sovrapposizione di presente e assente nelle nostre funzioni, significato, esperienze e valori.
Nel titolo di un suo libro recente, Stuart Kaufmann identifica quel che manca alla nostra attuale visione metafisica del mondo, limitata da tanti paraocchi. Con tutto il potere e la conoscenza che ci ha fatto ottenere, questo modo così efficace di concepire il mondo non ci è servito in alcun modo a sentirci "a casa nell’universo". Proprio mentre ci davano il dominio di tante parte del mondo fisico intorno e dentro di noi, i nostri strumenti scientifici ci hanno allo stesso tempo alienato da questi stessi regni. È tempo di ritrovare la strada di casa.
Questo è quasi un grido di dolore nei confronti di una visione della scienza che ha allontanato e alienato l’uomo da se stesso e dal mondo, invece di avvicinarlo e di farlo sentire a suo agio, nonostante il dominio materiale che gli ha assicurato sulle cose. Spingersi più oltre, considerate le premesse materialiste e immanentiste della scienza moderna, non è possibile; anzi, bisogna riconoscere che scienziati come Deacon si sono già spinti al di là delle premesse e che si sono esposti più di quanto la maggior parte dei loro colleghi e delle facoltà universitarie siano disposti a tollerare, sia pure in via d’ipotesi meramente teorica. Che cosa dice, in sostanza, Deacon? Che nella materia non c’è tutto; che le cose non rivelano tutto allo sguardo della scienza moderna; e che la parte nascosta, invisibile, assente, rinvia a una dimensione ulteriore, che non è solo quella prevista, e ammessa, dalla fisica classica. E questo qualcosa di ulteriore, che poi si rivela in sostanza come assenza e non come presenza, rimanda, secondo lui, non alle cose in sé, non alle cose come ci si mostrano, ma alla loro organizzazione intima e alla relazioni che le legano le une alle altre. Il che, però, significa restare pur sempre entro l’orizzonte della fisica, della materia, della scienza moderna. Un passo ulteriore effettivo sembra essere compiuto quando Deacon ammette che per capire il reale bisogna tener conto non solo della realtà effettuale, ma anche di quella potenziale; che oltre a ciò che è, bisogna considerare anche ciò che potrebbe essere, ciò che è stato ma non è più, e ciò che non è ancora. Benissimo. Egli poi osa un passo ancor più audace, ed include nel conteggio totale del reale non solo il possibile, ma anche l’impossibile. Qui, veramente, si vede la debolezza del suo pensiero, perché l’impossibilità, come l’assenza, non sono cose, né qualità di cose, e neppure possono contribuire a far delle cose ciò che sono, perché si tratta di concetti astratti, ai quali non corrisponde nulla di reale. Dire che oltre al treno delle 17,30 bisogna considerare anche il treno delle 17,50, che non esiste e non c’è mai stato, ma che potrebbe esistere, e che forse esisterà nel futuro, somiglia più a un gioco della fantasia o a un romanzo di fantascienza che a un pensiero positivo. È apprezzabile tuttavia lo sforzo che qui viene fatto per uscire dal vicolo cieco di uno scientismo di matrice positivista, secondo il quale il mondo è fatto solo di cose, di cose misurabili e quantificabili, e dalla somma meramente aritmetica delle loro relazioni. Che ci sia dell’altro, che ci possa essere dell’altro, è un’ipotesi che fa onore a uno scienziato moderno, ma che lascia il tempo che trova e si ferma lì fin dove è giunta, per mancanza di una spinta ulteriore. E nessuna spinta ulteriore le potrà mai venire, finché si resta ingabbiati nella prigione della scienza moderna, che pretende di dare un nome e una funzione a tutte le cose, ma si rifiuta di considerarne il senso e il valore. In altre parole, questo tentativo di spingersi oltre il materialismo più gretto è eccessivo e inaccettabile per la prospettiva della scienza moderna, ma decisamente troppo timido e insufficiente per la spiegazione ulteriore, complessiva del reale, che è, è sempre stata e sempre sarà, quella che scaturisce da una prospettiva metafisica. Platone diceva che è filosofo colui che sa vedere il tutto e no solo le parti e chi non lo sa fare, non lo è. Analogamente potremmo dire che per vedere il tutto bisogna avere uno sguardo metafisico; e che per avere uno sguardo metafisico bisogna essere aperti all’invisibile, al trascendente, al finalismo e quindi al senso e allo scopo. Bisogna comprendere che le cose non vengono dal nulla, né vanno verso il nulla; che tutto fa parte d’un insieme armonioso, interconnesso, organico; che la natura, pertanto, non può essere compresa solo con gli strumenti delle scienze naturali, ma solo assumendo una prospettiva più alta, un punto di vista superiore. Questo, per gli scienziati, equivale a un inaccettabile salto nel vuoto, ma ad essi appare tale solo perché hanno commesso il peccato originale di assolutizzare la loro forma di conoscenza: quella matematica. Gli oggetti della natura non sono fatti solo di cerchi, triangoli e altre figure geometriche, come sosteneva Galilei; sono fatti di moltissime altre cose; e la loro essenza non risiede in loro, ma nello scopo per cui esistono e nel fine verso cui sono diretti. E poiché gli scienziati moderni non vogliono sentir parlare di fini e di scopi, restano fatalmente esclusi da una comprensione complessiva del reale, e invano si dibattono fra il dogma fondamentale del meccanicismo e l’insoddisfazione che alcuni di essi provano davanti all’incapacità che esso dimostra di offrire una vera spiegazione del fatto che le cose esistono, e che esistono nel modo preciso in cui esistono.
La natura, dunque, per questi scienziati insoddisfatti, è, o meglio sarebbe, incompleta, perché rivela un’assenza al fondo delle cose, più che una presenza, quale elemento ultimo di significato. Ma è proprio vero che la natura è incompleta? È incompleta solo se la si considera dal punto di vista della scienza moderna, materialista e meccanicista: allora sì, essa dà l’impressione, beninteso a chi voglia spingere lo sguardo più a fondo nelle cose, di un che di assente, di mancante. Ma se la si considera dal punto di vista della metafisica, allora appare chiaro che non è la natura ad essere incompleta, ma lo sguardo con cui la osservano gli scienziati moderni (e sottolineiamo moderni, perché altro era lo sguardo degli scienziati prima del Rinascimento). La natura, quanto a se stessa, è completa, nei limiti in cui può esserlo una realtà in perpetuo movimento e in perenne trasformazione; ma anche una realtà armoniosa, sapientemente organizzata e perciò perfetta, nel senso in cui si dice che è perfetta quella cosa che presenta realizzata al meglio la propria (ci si perdoni il gioco di parole) natura. E tuttavia, osserverà qualcuno, come si può dire "perfetta" una realtà nella quale il male svolge una parte così grande? Gli animali costretti, per sopravvivere, a divorarsi gli uni con gli altri; uomini torturati da disturbi mentali che arrivano fino al delitto e al suicidio; malattie dolorose e incurabili che colpiscono anche i bambini innocenti: come si può affermare che la natura è perfetta? Eppure lo è: non riguardo allo stato dei singoli individui, ma riguardo alla realtà complessiva che essa esprime e al fine cui tende: perpetuarsi e continuare a esistere, trasformandosi. Non è perfetta nel senso che non fallisce mai, ma nel senso che dispone di strategie e di modi di esistenza che funzionano nel migliore dei modi possibili rispetto alle condizioni date, che sono il risultato delle loro interazioni. La vita di una stella o una galassia e quella di un leone o un moscerino rispondono tutte al medesimo principio: garantire la continuità, in successione, degli individui, delle specie, dei sistemi più complessi e più longevi, da quelli che vivono poche ore a quelli che durano milioni di anni. Tuttavia il male esiste, eccome, nel mondo della natura: ed è una ben magra consolazione dire che il concetto di male presuppone un giudizio di valore, mentre nel mondo della natura non vi sono valori, ma solo fatti e situazioni atti o meno alla sopravvivenza. Perché la gazzella che muore di sete ne deserto, a causa di una prolungata siccità, soffre, comunque si chiami quella sofferenza: sia che la si consideri una forma di male, sia che la consideri un elemento necessario nel complesso delle forze naturali; e anche se la sua carcassa offrirà un lauto pasto ai piccoli animali e ai microrganismi che si cibano di residui organici, e per i quali quell’evento si potrebbe considerare senza dubbio come una forma di "bene".
E allora? E allora bisogna per forza di cose riconoscere che la natura, pur essendo a suo modo perfetta, e quindi tutt’altro che incompleta, è però incompleta qualora la si consideri come il principio e la fine di tutto, ossia come una realtà che "copre" tutto lo spazio dell’esistente. Nella prospettiva cristiana la natura, per quanto bella e armoniosa, è però creata, dunque infinitamente meno perfetta del Creatore; inoltre è "ferita" dalle conseguenze del Peccato originale. Era buona nella sua condizione originaria, appena sorta dal disegno sapiente e amorevole del Creatore; ma poi è successo qualcosa, un episodio oscuro, una ribellione della sua parte intelligente, ossia l’essere umano, che ha rifiutato di adorare Dio e ha preteso di farsi simile a Lui, e con ciò ha corrotto ogni ente e gettato una distanza abissale fra le creature ed il Creatore, che solo l’Amore Infinito poteva colmare, col mistero dell’Incarnazione. Le conseguenze di quel Peccato però rimangono, e resteranno sino alla fine della storia e del mondo stesso, nella condizione materiale nella quale siamo immersi e che ci sembra la sola reale, mentre è la più bassa e la meno armoniosa. Al di sopra di essa, infatti, vi è la condizione spirituale, propria dell’uomo moralmente evoluto e redento dalla Grazia; al di sopra di questo, la condizione angelica, propria dei Puri Spiriti buoni, creati da Dio senza alcun concorso di materia; indi la Realtà ultima e vera, la Realtà divina, Causa e Principio di tutto, increata, auto sussistente, luminosa, meravigliosa e assolutamente perfetta, mentre per le altre dimensioni bisogna sempre parlare di perfezione relativa. Verso di essa tutto ciò che esiste è irresistibilmente attratto, come la rondine è attratta dal nido e come l’amore è attratto dal bene, perché ogni cosa tende al bene e al vero e per resistere al bene e al vero od opporsi ad essi è necessario uno sforzo, un impulso innaturale della volontà deviata, una vera e propria ribellione contro l’ordine universale, che al vero è uniformata e dall’amore riceve impulso e calore. Ma come si può capire tutti ciò, se si nega l’esistenza di Dio, relegandola fra le superstizioni del passato, e si rifiuta il mistero ineffabile, ma salvifico, dell’Incarnazione e quello della Redenzione? Ed ecco spiegato come mai la scienza moderna, nonostante i suoi apparenti successi nel regno della quantità, come direbbe Guénon, si è preclusa un orizzonte di senso, e non sa spiegare perché le cose esistono, né si capacita del fatto che nelle cose vi sia una misteriosa assenza che sembra tradire l’esistenza di qualcos’altro. Questo qualcos’altro la scienza moderna non lo sa, né lo vuol riconoscere: gli farebbe ombra. La scienza moderna, cartesiana e meccanicista, nasce dalla superbia: è una replica dell’atto di orgoglio luciferino con cui i primi uomini si ribellarono all’offerta d’amore di Dio. Il quale Dio si nasconde ai sapienti e agl’intelligenti e si rivela ai piccoli (Mt 11,25), perché così è piaciuto a Lui…
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