«E che mi frega a me, che so’ Pasquale io!»
13 Ottobre 2020La natura è incompleta? Le manca qualcosa?
14 Ottobre 2020A partire dalla Rivoluzione scientifica del Seicento, e più ancora dall’Illuminismo, la nostra visione del reale è divenuta sempre meno la visione cristiana, spirituale, trascendente, ma anche realistica, del realismo di Aristotele e san Tommaso d’Aquino, così vicino a quel "senso comune" di cui parlava Antonio Livi, e sempre più scientista, materialista, quantitativa, immanentista, meccanicista e antifinalista. Ma cos’è il senso comune, filosoficamente inteso, se non l’insieme delle certezze evidenti e incontrovertibili possedute da ciascuno sulla base della ragione naturale? Il che significa che la scienza moderna, galileiana e soprattutto cartesiana, strumentale e calcolante, ha cominciato ad allontanarsi dall’evidenza e dal buon senso, per imboccare la strada di un altro sapere, un sapere slegato dalla realtà e fatto di un "reale" risultante dalle formule matematiche applicate a delle teorie astratte e meramente ipotetiche, più che dall’osservazione e dalla sperimentazione concreta. Date le premesse, ciò era inevitabile: allargandosi a dismisura gli oggetti spaziali e temporali della osservazione scientifica, era impossibile conservare un equilibrio fra la percezione immediata e la nozione complessiva del reale. La mente umana, per esempio, non può concepire un universo antico 13 miliardi di anni, perché 13 miliardi di anni è un tempo che non trova riscontro nella sfera della nostra esperienza e quindi, semplicemente, non ne abbiamo la benché minima nozione. Possiamo solo porlo come dato matematico e assumerlo come strumento di ulteriore indagine, ma senza averlo introiettato, né assimilato, perché si tratta di una quantità temporale troppo grande per la nostra mente. Allo stesso modo, noi non possiamo concepire un universo infinto, o anche "semplicemente" illimitato, perché nella nostra mente non c’è alcun oggetto concreto che corrisponda a una simile nozione: tutto ciò che conosciamo ha un limite, per quanto grande, e nulla è privo di confini o di margini, nulla si prolunga in maniera esponenziale, senza giungere mai alla fine, a meno che ritorni su se stesso (come accade nella superficie di una sfera).
Pertanto, mano a mano che la scienza moderna spinge lo sguardo oltre le soglie del mondo visibile, con il radiotelescopio verso l’infinitamente grande e il microscopio elettronico verso l’infinitamente piccolo, gli scienziati si sono trovati a dover fare i conti proprio con questa mancanza di limiti, il che li ha portati, forse senza rendersene conto, a lasciare il sicuro terreno delle loro specializzazioni per improvvisarsi filosofi e metafisici, e ciò dopo quattro secoli che la metafisica è stata relegata nell’angolo morto della cultura occidentale. E quale filosofia, quale metafisica potevano essi formulare, considerate la loro formazione, la loro prospettiva, i loro metodi di lavoro, se non una filosofia del pensiero debole e una "metafisica" che è, di fatto, una antimetafisica? Perché voler fare della metafisica con gli strumenti concettuali dello scientismo altro non è che voler fare una cosa impossibile, o meglio il contrario di quella cosa. Lo si era già visto quando gli scienziati moderni hanno provato a cimentarsi con questioni affascinanti, ma limitate, quali i miracoli, le stimmate, la preveggenza dei santi, tutte cose che un tempo erano oggetto di fede o che la ragione tomista e aristotelica poteva "spiegare", fino a un certo punto, senza percepire alcun contrasto di fondo con la ragione in quanto tale, ma semplicemente ammettendo che esiste un livello del conoscere che oltrepassa la ragione. L’approccio scientista è stato, ed è tuttora, quello che si poteva immaginare: caratterizzato da una rigidità, da una presunzione, da una chiusura pressoché totali verso ciò che la scienza moderna non sa spiegare. Non si tratta di cercare la verità: la verità è già tranquillamente posseduta, partendo dal dogma: nulla è possibile che sia contrario alle leggi di natura. Laddove le "leggi di natura" non sono delle vere leggi, ma sono le costruzioni mentali degli scientisti, fondate sulla loro visione immanentistica, per cui nulla esiste fuori della natura, e ai loro pregiudizi antifinalisti, per i quali nulla ha un fine superiore o anteriore alla natura.
Si trattava, comunque, di situazioni sporadiche, che tradivano il rozzo pensiero "filosofico" dei seguaci della scienza cartesiana, ma che ancora non si confrontava con una visione complessiva, sistematica e articolata, cioè propriamente filosofica, del reale. Era però fatale che arrivasse anche un tale momento, per la natura stessa delle nuove scoperte e per la sconfinata vastità dei nuovi orizzonti che esse aprivano, specialmente dopo la teoria della relatività di Einstein e la "scoperta" della fisica delle particelle elementari. A quel punto, cioè a partire dall’ultimo secolo, specialmente dagli ultimi decenni, i fisici, i cosmologi, i chimici, i biochimici, hanno indossato i panni dei nuovi metafisici e hanno sentenziato che la natura è il tutto e il tutto è la natura; che non c’è un prima né un perché, tanto meno un fine; e che la loro scienza, ed essa soltanto, a esclusione di ogni approccio extra scientifico e di un altro tipo di scienza (ad esempio quella cristiana medievale, ma anche quella dell’India classica) ha le chiavi per penetrare nei segreti della natura, al fondo dei quali non c’è alcun mistero, perché il concetto di mistero ha una connotazione metafisica, ossia trascendente, mentre per loro non esistono misteri, ma solo problemi, problemi scientifici e matematici, che prima o poi verranno risolti, oppure che verranno dichiarati irrisolvibili e perciò (qui in realtà vi è un salto logico, ma essi non se ne avvedono) ininfluenti e insignificanti, poiché per essi solo ciò che può essere scientificamente studiato e accertato è significativo e ci riguarda, tutto il resto no.
Le cose erano giunte a questo punto, venti o dieci anni fa, quando gli scienziati si sono accorti di una cosa che probabilmente non si aspettavano, e che li ha sconcertati: il significato ultimo delle idee, delle cose, dei fenomeni, non risiede in una qualche loro caratteristica scientificamente accertabile e misurabile, ma in qualche cosa d’altro, in un quid che non si capisce bene cosa sia, ma che insomma appare evidente a causa della sua assenza, non della sua presenza, cioè qualcosa che non si può dire che abbia uno spessore ontologico e corrisponda a un dato positivo e oggettivo, ma di cui si può intuire l’esistenza mediante la sua assenza. E abituati come sono a dare un nome positivo a ogni cosa e a ogni evento, non hanno potuto fare a meno di dare un nome anche a codesto quid, e l’hanno battezzato assenzialità. Può sembrare un ossimoro, e infatti lo è, perché nasce dal corto circuito fra una scienza che pretende di misurare tutto, quantificare tutto, e la constatazione dell’impossibilità di individuare una caratteristica precisa che fa di ogni cosa ciò che è, in altre parole la natura essenziale di ciascuna cosa, che coincide col suo significato.
Così esprime questo curioso paradosso l’antropologo americano Terrence William Deacon, classe 1950, professore prima ad Harvard e poi a Berkeley – la cui prospettiva evoluzionista e biologicista non condividiamo per nulla, ma con il quale possiamo fare insieme un pezzo del suo ragionamento – nel suo noto volume Natura incompleta. Come la mente è emersa dalla materia (titolo originale: Incomplete Nature How Mind Emerged from Matter, Norton & Company Inc., New York, 2012; traduzione dall’inglese di Alfredo Tutino, Roma, Le Scienze, 2012, pp. 13-15):
La scienza è arrivata a un punto in cui possiamo disporre con precisione singoli atomi su una superficie metallica, o identificare il continente degli antenati di una persona analizzando il DNA dei suoi capelli. Ironia della sorte, però, ci manca una comprensione scientifica di come possano le frasi scritte in questo libro essere riferite ad atomi, DNA o qualsiasi altra cosa. In sostanza significa che il meglio della nostra scienza — quell’insieme di teorie che presumibilmente arriva più vicino a spiegare ogni cosa — non include proprio questa fondamentalissima caratteristica distintiva del fatto che io sono io e tu, lettore, sei tu. In effetti, la nostra attuale "teoria del tutto" implica che noi non esistiamo, se non come collezione di atomi. Cos’è che manca, dunque? Per dirlo con un po’ di ironia, e in stile enigmatico, manca qualcosa che manca.
Consideriamo i seguenti, familiari fatti. Il significato di una frase non è un gruppo di scarabocchi che rappresentano le lettere su un pezzo di carta o su uno schermo. Non sta nei suono che questi scarabocchi possono farci emettere. Non è neppure il ronzio dei neuroni nel cervello di chi li legge. Ciò che significa una frase, e ciò cui essa si riferisce, manca proprio delle proprietà che le cose devono tipicamente avere per fare una differenza nel mondo. L’informazione trasmessa da questa frase non ha massa, né quantità di moto, né carica elettrica, né solidità, e neppure una chiara estensione nello spazio, dentro di noi o intorno a noi, o da qualsiasi altra parte. Più sconcertante ancora, le frasi che state leggendo in questo momento potrebbero essere insensate, e in tal caso non ci sarebbe nulla, nel mondo, cui potrebbero corrispondere. Ma persino questa proprietà di pretendere di avere un significato farà una differenza concreta nel mondo se influenzerà, in un modo o in un altro, il pensiero o l’azione di una persona.
Ovviamente, malgrado questi qualcosa di non presente che caratterizza il contenuto dei miei pensieri e il senso di queste parole, le ho scritte per i significati che — forse — potrebbero trasmettere. Ed è presumibile che questo sia il motivo per cui tu, lettore, stai focalizzando il tuo sguardo su di esse, e che potrebbe spingerti a fare un certo sforzo mentale per trovarci un senso. In altre parole, il contenuto di questa, o di ogni altra frase — qualcosa che non è una cosa – ha conseguenze fisiche. Ma come fa?
Il significato non è la sola cosa che presenti un problema di questo tipo. Parecchie altre relazioni del nostro quotidiano condividono questo aspetto problematico. La funzione di una pala non è la pala né un buco nel terreno, ma la possibilità di fare buchi più facilmente che ci mette a disposizione. Ciò a cui si riferisce la mano che fa un gesto di saluto non è il movimento della mano, e neppure la convergenza fisica degli amici, ma l’avvio di una possibile condivisione di pensieri ed esperienze richiamate alla memoria. Lo scopo del mio scrivere su questo libro non è battere sui tasti, né depositare inchiostro su pezzi di carta, e neppur produrre e far distribuire un gran numero di copie di un libro come oggetto materiale; sta nel condividere qualcosa che non è contenuto in nessuno di questi processi e oggetti della realtà fisica: idee. E, bizzarramente, è proprio perché queste idee mancano di simili attribuiti fisici che possono essere condivise con decine di migliaia di lettori senza mai esaurirsi. Cosa ancora più enigmatica, accertare il valore di questa impresa è quasi impossibile da ricollegare a qualche specifica conseguenza fisica. È qualcosa di quasi interamente virtuale: forse nulla più che rendere certe idee più facili da concepire o, se i miei sospetti dovessero risultare corretti, accrescere la nostra sensazione di avere un posto nell’universo.
Ogni fenomeno di questo genere — funzioni, riferimenti, propositi, valori — è in qualche modo incompleto. C’è qualcosa che non è lì. Senza questo "qualcosa" che manca non sarebbero che puri e semplici eventi od oggetti fusici, destituiti di questi altrimenti curiosi attributi. Nostalgia, desiderio, passione, appetito, lutto, perdita, aspirazione — sono tutti basati su un’analoga intrinseca incompletezza, un "essere privi" che di essi è parte integrante. Nel riflettere su questo curioso stato delle cose, mi colpisce il fatto che non ci sia una specifica parola che sembri riferirsi a questo elusivo carattere delle cose di questo tipo. Quindi, a rischio di iniziare questa discussione con un goffo neologismo mi riferirò a questo carattere chiamandolo "assenziale", per denotare i fenomeni la cui esistenza è determinata in riferimento a un’essenziale assenza.
È curioso: costretti, dalle loro premesse logiche e operative, a occuparsi dell’essenza delle cose, gli scienziati moderni scoprono che essa risiede non in una qualità (naturale) positiva ma in un’assenza: nostalgia, desiderio, passione, appetito, lutto, perdita, aspirazione, rimandano a qualcosa che non c’è, a qualcosa che manca. E cadono nel paradosso di chiamare questa cosa, anzi questa non-cosa, assenzialità, come se dare un nome al nulla equivalesse a far del nulla una sostanza. Quanto meglio sarebbe stato se gli scienziati moderni, da Cartesio e Galilei in avanti, si fossero limitati a fare gli scienziati, e non avessero preteso di asserire né che tutta la natura è scritta in caratteri matematici, né che oltre la natura non c’è nulla, o comunque nulla di significativo. Ciò li ha costretti a improvvisarsi filosofi, ma li ha messi di fronte all’essenza della metafisica: la questione del significato. Non è una questione che si possa risolvere in una prospettiva immanentista e coi mezzi concettuali del meccanicismo e dell’antifinalismo, però loro ci stanno provando. E che altro potrebbero mai trovare, se non l’assenzialità, vale a dire il nulla spacciato per qualcosa? Niente affatto, cari signori; così non va. Occupatevi della materia, ma astenetevi dal dire che oltre la natura non c’è altro, e che la natura stessa si può comprendere solo mediante gli strumenti matematici. Non è così. E rileggetevi quel passo di Shakespeare in cui Amleto dice: Vi sono più cose fra cielo e terra di quante ne possa sognare tutta la vostra filosofia. Risparmiatevi la vostra ridicola assenzialità e ammettete piuttosto la vostra ignoranza. Il pensiero dovrebbe ripartire da dove si è interrotto quattro secoli fa: dal fine e dal significato, cioè dalla metafisica. La quale conduce all’Essere, cioè a Dio…
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