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7 Ottobre 2020Ci sono due modi di vivere una città: amarla o utilizzarla; come ci sono due modi di passeggiare per le sue strade, con o senza le fette di salame sugli occhi: il primo è tipico di chi la usa, il secondo di chi la ama. Voler bene a una città implica che non si cammini mai per le sue vie con distacco o indifferenza, ma sempre con profonda simpatia e partecipazione: il che, a sua volta, implica che la si scopra a poco a poco, fino nei suoi angoli più nascosti, e non ci si limiti a percorrere sempre gli stessi itinerari, o per andare al lavoro o per fare gli acquisti, ma la si "senta" tutta quanta come cara, come propria, nel senso un po’ geloso dell’affetto unico ed esclusivo, simile a quello che un uomo prova per una donna e sa che non è possibile amarne contemporaneamente un’altra. E se lo crede, mente o vuole ingannare se stesso.
Con questo spirito di amore, di stupore, di continua scoperta, abbiamo camminato da bambini e da ragazzi per le vie della nostra città, quasi all’estremo Nord-Est dell’Italia, a non più di venti chilometri dal confine di Stato in linea d’aria. E abbiamo imparato molto, sia osservando gli edifici, i portoni, i cortili, i filari di alberi, la stessa disposizione delle strade, sia interrogandoci sui loro nomi e scoprendo, non senza una sincera sorpresa, che i nomi delle vie cambiano col cambiare delle vicende storico-politiche; una sorte che le accomuna ai monumenti, i quali, se non possono venire ribattezzati con altri nomi e assumere nuove identità, possono però venire spostati a seconda delle circostanze. In questo modo abbiamo scoperto che la nostra strada, quella della casa in cui siamo nati (perché allora si nasceva in casa e la società non era stata ancora del tutto ospedalizzata, come lo è oggi), e che credevamo ingenuamente essersi sempre chiamata via della Prefettura, un tempo – un tempo neanche tanto lontano: quello dei nostri genitori — si chiamava via Costanzo Ciano, proprio come piazza Matteotti si chiamava, semplicemente, piazza San Giacomo, o piazza del Mercato. Solo che il nome di Costanzo Ciano – eroe della Prima guerra mondiale, ma con la grave colpa di essere stato il padre di Galeazzo, genero di Mussolini – era sparito per la stessa ragione per cui quello di Matteotti era comparso: ossia perché l’Italia repubblicana e "antifascista" aveva preteso di riscrivere il recente passato, esaltando ciò che la inorgogliva e facendo dimenticare quel che non le suscitava bei ricordi. Allo steso modo la statua equestre di Vittorio Emanuele II, che troneggiava nel bel mezzo della piazza Contarena, ribattezzata piazza Libertà, dopo il 1946 era stata trasferita in un luogo meno vistoso, ai Giardini Ricasoli, dove noi bambini, durante i nostri giochi spensierati, l’avevamo sempre vista, ma dove lui, l’orgoglioso "padre della Patria", incolpevole dei fasti e dei nefasti dei suoi successori, non avrebbe mai immaginato di finire, messo quasi in castigo dietro la lavagna, ai suoi tempi d’oro, allorché dominava dall’alto della piazza più centrale, con l’elmo piumato sulla testa, pavoneggiandosi in sella al suo focoso destriero. E che dire del Cinema Centrale, il più grande e il più bello della città, che prima si chiamava Garibaldi, e prima ancora Savoia, e in origine Eden: ma che aveva ogni volta cambiato nome, la prima al tempo della guerra d’Etiopia, in spregio al ministro inglese Anthony Eden, fautore delle inique sanzioni; la seconda nel 1943, al tempo della spaccatura fra Regno del Sud e Repubblica Sociale, quando la città era stata occupata dai tedeschi e inserita nel Litorale Adriatico; e la terza nel 1947, per non dare adito a speculazioni ideologiche in tempi di Fronte Popolare, quando l’Eroe dei due Mondi era divenuto il simbolo della sinistra social-comunista?
Questo per quanto riguarda l’intestazione dei nomi. Ma altre cose non meno interessanti si possono imparare dalla corrispondenza fra il nome di una strada e la sua ubicazione topografica. È ragionevole aspettarsi che le strade del centro storico non conservino lo stesso nome quando proseguono in aperta periferia, e viceversa: anche se la strada è la stessa, non ha lo stesso nome dentro e fuori il centro storico. In molte città italiane, compresa la nostra, il centro storico è segnato dalla circonvallazione stradale creata per evitare l’attraversamento di esso da parte del traffico pesante; e questa, a sua volta, ricalca il perimetro della città medievale, che generalmente è segnato dalle antiche mura, o dal loro tracciato, anche se sono state demolite. Ciò posto, ci aveva colpito il fatto che alcune vie conservassero lo stesso nome prima e dopo essere entrate nel centro storico: l’amata via Castellana, per esempio, una laterale di via Villalta, da cui si diparte all’altezza di una bellissima villetta con giardino, estremamente caratteristica (e dove esisteva una fontana che un brutto giorno è sparita, e chissà in quale giardino privato è andata a finire), e poi via Gorizia e via Planis, l’una che oltrepassa la circonvallazione nord all’altezza di via Antonio Caccia, l’altra, qualche centinaio di metri più in là, all’altezza del cavalcavia Simonetti. Ora, la domanda che ci sorgeva alla mente era questa: perché via Castellana non "finiva" all’incrocio con via MarcoVolpe, ossia con la circonvallazione ovest, ma proseguiva fino al Canale Ledra, e addirittura lo scavalcava, arrivando all’incrocio con viale Ledra, per poi proseguire col nome di via Mentana? E perché via Gorizia non "finiva" all’incrocio con via Caccia; e via Planis all’altezza del cavalcavia Simonetti? Lo "stacco" fra il centro storico e la periferia, nella nostra città, era molto netto: perciò che senso aveva che una strada conservasse lo stesso nome attraversando luoghi tanto diversi da apparire quasi due mondi distinti? La risposta ci si presentò alla mente per via logica, e non dalla lettura di qualche libro o guida turistica: evidentemente, il centro storico attuale non corrispondeva perfettamente al centro storico effettivo; era la sola spiegazione possibile, ed era quella giusta. In fondo, si trattava di tratti stradali relativamente brevi: la parte più lunga, almeno nel caso delle ultime due vie, era quella extraurbana; e ciò stava a significare che il tracciato dei viali di circonvallazione, in quei punti, non coincideva con quello delle antiche mura. Infatti, una successiva indagine ci confermò che era così: ma già la cosa dovrebbe apparire evidente dalla semplice osservazione del paesaggio urbano. Le case recenti, i giardini spaziosi, le file alberate di quelle vie, addirittura l’esistenza della più ampia zona di verde pubblico, il Parco della Rimembranza, attestano chiaramente che tale zona non era all’interno delle mura, ma all’esterno; in pratica, tutto l’angolo nord-est dell’attuale centro storico, fra il viale Armando Diaz e la via Caccia, non faceva parte della città medievale. Per questo non vi si trova un solo edificio che sia più antico di un secolo; e lo stesso vale per il tratto esterno di via Castellana. Queste cose, peraltro, le abbiamo chiarite a noi stessi solo più tardi, ma fin da ragazzini avevamo avvertito che c’era qualcosa di strano, una sorta d’incongruenza, fra l’aspetto che avevano quelle vie e quello che avrebbero dovuto avere, se fossero state parte del vecchio centro storico. E come spiegare altrimenti il fatto che la Roggia di Palma fiancheggia via Planis per tutta la sua lunghezza, prima in periferia, poi dentro l’anello dei viali esterni, e scompare sottoterra solo più avanti e più in basso, all’altezza di via sant’Agostino, per riapparire sotto la basilica della Madonna delle Grazie, con una piccola cascata, in quell’enorme spiazzo che tutti i cittadini chiamano Giardino Grande e non Piazza Primo Maggio? Nel centro storico le rogge sono state ricoperte quasi tutte, negli anni ’50, per ragioni di viabilità e di spazio; ma in via Planis, no. Non era forse un indizio?
La terza categoria di cose che abbiamo imparato camminando ben svegli per le vie della nostra città e imparando a toglierci le fette di salame dagli occhi, un po’ con l’aiuto di qualche adulto e un po’ per intuizione spontanea, ancorché confusa, è legata direttamente alla loro intitolazione. Non vogliamo affatto dire che queste scoperte le abbiamo fatte fin da subito; in gran parte sono state frutto di un processo successivo: ma i germi erano già presenti negli anni del’infanzia, certo anche per la fortuna di aver scoperto la nostra città, le prime volte, sotto la guida di genitori sensibili e intelligenti. Dunque, i nomi delle vie, e specialmente i nomi dei personaggi altrimenti sconosciuti. Per anni avevamo pensato che la targhetta recante l’indicazione Via Ciro di Pers fosse in qualche modo "sbagliata", o magari che fossero cadute le ultime due lettere della parola "Persia", perché il solo Ciro a noi noto dai tempi della terza elementare, quando si studiava la storia antica piuttosto bene, e dalla enciclopedia Conoscere, piena di bellissime illustrazioni a colori e carte geografiche, era il Re dei Re di cui parlano le storie di Erodoto. Solo più tardi abbiamo appreso che la via era dedicata, invece, a un personaggio locale, un poeta del Seicento abbastanza famoso e abbastanza bravo, marinista ma non troppo, che era anche il castellano di Pers, un paesino del Friuli ove non ci era mai capitato di passare. Stranezze della scuola italiana: che un bambino di terza elementare, e poi delle scuole medie, conosca il nome degli antichi imperatori persiani, ma non abbia mai neppure udito quello di una delle maggiori glorie letterarie della regione in cui vive! Questo per dare un’idea delle clamorose cantonate che prende un giovanissimo esploratore della toponomastica della sua città natale, se qualcuno più esperto di lui non lo accompagna in tali esplorazioni; e tuttavia, come dice il proverbio, sbagliando s’impara, e in fondo è giusto che chi vuole scoprire il mondo intorno a sé impari in prima persona, per tentativi ed errori, che le cose non sempre sono come appaiono, anzi, che la regola è proprio il contrario. Tuttavia, se la lezione che abbiamo imparato dalla scoperta della via Circo di Pers è che le cose possono non essere ciò che sembrano, la lezione che abbiamo appreso da quella di via Padre Reginaldo Giuliani è che ci sono molte cose che non sappiamo, e che alla fine scopriamo per caso, o forse per un destino, ma che non avremmo mai scoperto se non ci fossimo armati in partenza di una certa dose di sana curiosità. Reginaldo Giuliani, avrebbe detto il buon don Abbondio: e chi è costui? Inutile frugare nella memoria: mai sentito. Quando abbiamo letto sulla targa questo nome, imboccando il ponticello che scavalca il canale Ledra e mette in comunicazione via Martignacco e via Passons, invano abbiano frugato nel bagaglio delle nostre conoscenze: è stato giocoforza ricorrere all’enciclopedia. Ed ecco la scoperta: Reginaldo Giuliani, nato a Torino 28 agosto 1887, è stato un uomo assai conosciuto ai suoi tempi, poi pressoché dimenticato: un frate domenicano, notissimo e apprezzato predicatore; uno studioso, professore di Cultura cattolica presso l’Università torinese; un soldato, cappellano militare in due guerre, decorato con una medaglia di bronzo, due d’argento e una d’oro alla memoria; un acceso patriota, già legionario fiumano, che per amore dell’Italia e della religione cattolica ha girato il mondo, ha predicato nelle due Americhe e infine, scoppiata la guerra etiopica, ha voluto arruolarsi volontario e ha incontrato la morte al Passo Uarieu, a soli 48 anni, il 21 gennaio 1936. L’ha incontrata da eroe e da martire, perché non volle abbandonare i feriti e rimase accanto a un moribondo, onde impartirgli l’estrema unzione: fu allora che una banda di abissini gli si avventò sopra e lo trafisse con le zagaglie. Dopo la sua morte, il regime fascista ne volle fare un simbolo dei propri valori, certo strumentalizzandolo un poco, perché non è chiaro fino a che punto il buon frate fosse realmente fascista e fino a che punto, invece, come tanti altri italiani, vide semplicemente nel fascismo la forza morale e materiale che avrebbe custodito i sacrifici fatti dalla nazione nella guerra del 1915-18 e che l’avrebbe difesa dal comunismo, risparmiandole la sorte della Russia. Inutile dire che padre Giuliani accolse il Concordato fra Stato e Chiesa, che sanava una dolorosissima ferita, con molto entusiasmo: tutta la sua vita, del resto, era stata spesa all’insegna dell’entusiasmo giovanile, della generosità spinta fino al dono totale di sé, tanto da non temere i pericoli della guerra in prima linea, né quella contro gli austriaci, né quella contro gli abissini, tanto era grande la sua fede nei destini della Patria, che egli, come i fascisti, certo, ma non loro soltanto, avrebbe voluto vedere più grande, più forte e rispettata nel mondo. Dopo la guerra e la sconfitta, con la nascita dell’Italia repubblicana e democratica, la sua memoria è diventata imbarazzante. È notevole il fatto che una via della nostra città, come anche di alcune altre città italiane, conservi oggi il suo nome; ciò si deve a una lieve ripresa d’interesse nei confronti della sua figura, verificatasi negli ultimi decenni. Certo, il solo fatto dell’esistenza di un uomo come padre Giuliani è una sfida insopportabile a tutti i dogmi della cultura dominante progressista, laicista, internazionalista, e quindi visceralmente antipatriottica. Egli riunisce in sé tre caratteristiche che per i progressisti non possono esistere in un fascista: fu una persona generosa, buona e leale; una persona colta; un uomo di grande fede; laddove secondo i dogmi della sinistra qualunque fascista, o qualunque persona abbia simpatizzato anche alla lontana col fascismo, non può essere che un mascalzone, un ignorante e un falso cattolico. Perché i soli cattolici che piacciono a costoro sono quelli alla Vincenzo Paglia, inclini a fraternizzare col mondo nei suoi vizi più turpi, naturalmente con la scusa di portare il Vangelo in strada e di andare incontro agli ultimi; e infatti sono i soli che vengono invitati a pontificare nei salotti televisivi, ovviamente per dir male dei veri cattolici e dei veri valori cristiani. Davvero la figura di padre Giuliani è un segno di contraddizione. Come additarla quale esempio ai giovani, quelli che idolatrano Fedez e Chiara? Può sembrare del tutto anacronistico. Eppure non lo è: perché consumismo e superficialità lasciano il tempo che trovano, mentre l’etica del sacrificio è di tutti i tempi, specie se difficili. E Dio sa se dovremo affrontare i più grandi sacrifici per sopravvivere, sia come individui che come popolo.
Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels