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Capire che il motore della storia è Dio, non l’uomo

Dove va la storia? E, soprattutto, chi o che cosa ne è il motore, il centro dinamico e propulsore? A queste domande si può rispondere in vari modi; e, di fatto, le varie culture che si sono succedute nel tempo hanno fornito risposte molto diversificate. Una linea di spartiacque, comunque, si può nettamente riconoscere fra tutte le civiltà del passato, europee ed extraeuropee, e la sedicente civiltà moderna: quella che tante volte abbiamo definito una anti-civiltà, in quanto le mancano tutti i requisiti che rendono tale una vera civiltà. E il primo dei requisiti che le mancano è appunto la visione trascendente della storia, ossia l’idea, variamente declinata, che le vicende umane non vivono di vita propria, non si alimentano esclusivamente da se stesse, né trovano in se stesse la loro ultima ragione, ma che su di esse aleggia una forza soprannaturale, un elemento di origine divina, e insomma che la divinità vi svolge una parte importantissima, per cui è essenziale che gli uomini la riconoscano, la onorino, cerchino di comprenderne e di rispettarne il volere; e, più di ogni altra cosa, che non si permettano di sfidarla e inimicarsela, perché ciò equivarrebbe a votarsi senza fallo alla catastrofe. Ora, al contrario, non solo i moderni non leggono a questo modo la storia, ma hanno addirittura eliminato Dio dal loro orizzonte spirituale, per cui mostrano d’ignorare completamente il timor di Dio, né si peritano di rivendicare a se stessi il merito e l’onere d’indirizzare le vicende della storia secondo il proprio esclusivo giudizio, facendosi semmai guidare dall’idea di progresso, e affidandosi alla scienza e alla tecnica per la sua realizzazione. Quanto al mondo naturale, ondeggiano fra un orgoglioso senso di superiorità, che li spinge a porsi come i dominatori della sfera fisica, e un altrettanto estremo atteggiamento di rispetto sacrale, quasi che avessero trasferito sul mondo fisico, concepito in maniera panteista, il culto che i loro avi riservavano al dio creatore e trascendente della tradizione cristiana.

Scriveva Giorgio de Santillana in testo illuminante Fato antico e fato moderno (titolo originale: Reflections on Men and Ideas; Massachusetts Institute of Technology, 1968; Milano, Edizioni Adelphi, 1985, pp. 36-37):

Mi sia consentito adesso tornare a Tolstoj, che ho detto l’ultimo grande scrittore epico, quello che riprende in linea diretta le speculazioni degli antichi sul problema di che cosa c’è di soggiacente agli eventi. "Se un’altra forza ha preso il posto degli dèi, bisogna spiegare in che cosa tale forza consiste; giacché è in essa appunto che sta tutto l’interesse della storia". È questo il tema di "Guerra e pace". In una profonda analisi del fenomeno ‘guerra’, egli scopre che il potere è la massima dipendenza in cui ci troviamo nei riguardi del tutto. Non già, questo tutto, inteso come la "ragione" di Hegel, ma un tutto che sono gli "altri", che si potrebbe ancora dire cosmo, un tutto infinitamente mobile e vivo. La parte, si chiami anche Napoleone, non può mai comprendere e dominare il tutto. Quanto più sale, tanto più chiaramente il potente è soggetto alla Necessità, strumento del Fato, "burattino degli dèi". Ci ritroviamo sul vecchio terreno. Solo che non si può più capir nulla, prefigurar nulla, della volontà degli dèi. Ogni pretesa di voler immettere la ragione nella Storia è arroganza di professori.

E questa arroganza viene da lontano. Ma già Marc’Aurelio dava per scontate le loro dimostrazioni, e si diceva: i casi sono due. O ci sono gli dèi e la Provvidenza, e allora tutto è per il meglio. O non ci sono, e allora pazienza, facciamo del nostro meglio. Questi erano gli ultimi sussulti del macchinone cosmico, ormai arrugginito, dove alla precisione matematica era subentrato il molesto precisionismo morale, col suo accompagnamento di prediche, denti stretti, muso duro e il resto. Il dubbio di Marc’Aurelio gli dà la dimensione della libertà, lo porta vicino a Tolstoj.

Ma non solo la comprensione della storia da parte delle civiltà tradizionali richiede capacità di guardare oltre le vicende meramente umane e il divenire immanente, e scorgere la loro radice in una dimensione più alta; richiede anche di saper guardare al mondo con gli occhi del mito ed elaborare una visione mitica del reale, perché il presupposto essenziale del mito è che la conoscenza riceva una garanzia superiore di ordine divino, laddove la visione laica e materialista è garantita solo da se stessa, cioè dall’occhio umano che la contempla. In questo senso, l’esito soggettivista e, in ultima analisi, nichilista della civiltà moderna è insito nelle sue premesse di ordine intellettuale: se la verità non deriva da un accordo fra la cosa e il giudizio, ma è, in qualche modo, una creazione del soggetto, allora chi potrà farsi garante del valore assoluto di tale verità? Inevitabilmente, si resterà prigionieri nel circolo chiuso del solipsismo: non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che il soggetto vede e giudica essere vero. Al di sopra del suo giudizio non c’è nient’altro: il soggetto è attore e giudice allo stesso tempo. Pertanto, il minimo che si possa dire della sua "verità" è che essa vale quanto tutte le altre verità di tutti gli altri soggetti: il che è come dire che, in termini assoluti, vale esattamente zero.

Riportiamo ancora un breve passaggio della citata opera di Giorgio de Santillana (p. 89):

Il momento della scoperta, la via che porta agli dèi, deve necessariamente essere mitologico, poiché implica che la comprensione dell’"uomo che sa" sia stata guidata correttamente ed elevata al di sopra delle opinioni dell’umanità.

Ora, il dramma della società moderna è che ha potuto essere ancora, bene o male, una civiltà, fino a quando è vissuta di riflesso accanto alla civiltà cristiana, che pure rifiutava e contro la quale era nata, proponendosi come il suo totale superamento. Ma a un certo punto si è verificato uno scambio di ruoli: mentre il mondo moderno si guardava intorno per cercare qualcosa che sostituisse la fede nel vecchio Dio, ed era incerto se individuarlo ancora nella scienza o se trasferire le sue aspettative sulla Madre Terra laicamente intesa (col corollario del senso del peccato sotto le spoglie del senso di colpa per averla ferita, sfruttata, inquinata), la cultura cristiana ha ceduto alla pressione della modernità, ha apostatato dal suo Dio creatore e trascendente e ha abbassato lo sguardo al livello della dimensione puramente terrena, rinunciando per sempre allo spazio mitico e quindi alla garanzia divina del proprio sapere. In altre parole, mentre la modernità cominciava a mostrare una certa stanchezza per se stessa, e a volgersi in direzione del mito e dell’assoluto, i cristiani, a cominciare dal clero cattolico, si sono stancati del mito e dell’assoluto e hanno abbracciato pienamente e decisamente, pur senza riconoscerlo con la necessaria franchezza (ma come si fa a riconoscere con franchezza la propria apostasia?) la visione moderna, del tutto immanente, laica, materialista del reale, e perciò anche della storia. Ma la storia, per cristiani, è storia della salvezza, quindi è tutta, direttamente o indirettamente, storia sacra: e una storia sacra richiede, esige, uno sguardo mitico sulle cose. Senza lo sguardo mitico, come si potrebbe accettare la visione di Gesù che cammina sulle acque; di Gesù che fa risorgere l’amico Lazzaro dal sepolcro; di Gesù che muore sulla croce e poi risorge Egli stesso? Diciamolo francamente: date le premesse, ciò diviene impossibile. Ed ecco che la sospensione della santa Messa per paura di restar contagiati dal Covid-19; la distribuzione del Corpo di Cristo con guanti e mascherina; la scomparsa dell’acqua benedetta dalle chiese e la sua sostituzione col disinfettante per lavarsi le mani quando si entra, attesta senza possibilità di errore che i cattolici odierni hanno respinto nelle profondità del passato la loro visione mitica della storia e hanno abbracciato, in tutto e per tutto, la visione moderna: né si aspettano più la vita eterna dal loro Dio, ma trepidano per la propria vita terrena e si affidano pienamente alla Scienza per difenderla contro il nemico impalpabile e invisibile che potrebbe annidarsi ovunque, anche sulle panche, o nell’acquasantiera, o addirittura nell’Ostia consacrata. E così non solo il cristianesimo firma il proprio atto di resa alla mentalità moderna e alla visone moderna del reale, facendole proprie, ma si rifiuta di continuare a svolgere la propria missione nel mondo, spegnendo la luce che rappresentava per esso, anche se questo, in apparenza, non la voleva accogliere — però sapeva che c’era, salda perché posta fuori del relativo.

Questo moto di riflusso è stato annunciato dal cattolicesimo liberale nel XIX secolo, poi dall’americanismo, dalla democrazia cristiana e dal modernismo all’inizio del XX, e ha conquistato la Chiesa e la cristianità col Concilio Vaticano II; adesso, col pontificato di Bergoglio, si assiste all’atto finale di auto-liquidazione. Di fatto, i cattolici hanno già perso la visione mitica del reale e perciò non possiedono più nemmeno gli strumenti per capire fino a che punto il falso papa Bergoglio stia sostituendo una visione laica della storia alla visione soprannaturale basata sul Vangelo. Quando egli dice, per esempio, che i cattolici devono smetterla di fare proselitismo, perché la salvezza è accessibile a tutti gli uomini di qualsiasi religione — e lo fa sviluppando un cattivo seme che era stato gettato appunto nel Concilio, con la Dignitatis humanae, pochi comprendono che sta liquidando il cristianesimo in quanto tale, e anche a quei pochi sfugge, salvo rarissime eccezioni, che l’errore non sta solo nella falsa affermazione, ma nella prospettiva che essa tradisce: vale a dire una storia fatta dagli uomini, ove anche l’evangelizzazione dei popoli è qualcosa di meramente umano, che parte dall’uomo e che senza l’uomo non avrebbe luogo. Invece l’autentica prospettiva cristiana parte dall’assunto che Dio è il padrone della storia, così come è il Re dell’universo; e quindi l’evangelizzazione, come ogni altra cosa, è nelle Sue mani; ed è Lui che suscita gli uomini di buona volontà, disponibili a farsene carico, Lui e nessun altro. Perché gli uomini, quanto a se stessi, non sono capaci di far nulla.

Tutto questo, sul piano psicologico e culturale, ha la sua radice nel fatto che, per l’uomo moderno, il mito è qualcosa di assai inferiore alla scienza, e la visione mitica è qualcosa di meno, non certo qualcosa di più, dello sguardo scientifico sul reale. E se i cattolici sono giunti ad adottare una tale prospettiva, ciò attesta che sono stati assorbiti dalla mentalità moderna: vale a dire che hanno cessato di essere cattolici. Non si può essere cattolici moderni: è un ossimoro; pertanto si deve scegliere, o si è cattolici o si è moderni, e i seguaci del Concilio hanno scelto di essere moderni. Chi è moderno si sente superiore alle religioni e anche al cristianesimo; se è cattolico, cerca di elaborare un "suo" cattolicesimo, emancipato e disinibito, senza più il mito e perciò senza dogmi: un cattolicesimo fluido, flessibile, adattabile. Il meccanismo è stato messo in moto dal complesso d’inferiorità dei cristiani nei confronti della cultura moderna. Le cose sono andate così: i protestanti si sono vergognati di essere sprovvisti di un elemento essenziale della cultura moderna, lo studio storico-biblico dei testi sacri, e lo hanno introdotto nella loro teologia e nella loro dottrina; i cattolici, più tardi, si sono vergognati di essere da meno dei protestanti, e hanno voluto imitarli (il modernismo è partito appunto da tale "richiesta", ma sul momento è stato bloccato dalla pronta ed energica risposta di san Pio X; si è preso però la rivincita mezzo secolo dopo, con il Vaticano II). A partire dal Concilio, il loro sforzo costante è stato quello di abbassare il cattolicesimo al livello della modernità: e hanno voluto credere, e far credere, che tale abbassamento fosse in realtà, chi sa come, un’elevazione, una purificazione. Ma la verità è che invece di convertire il mondo a Dio, e così spiritualizzarlo, si sono convertiti loro al mondo, e in tal modo hanno materializzato il Vangelo. Che ne siano consapevoli o no, in tal modo hanno realizzato una vera e propria contro-chiesa, che non è più cattolica, se non di nome, ma è in effetti un’orribile contraffazione di quella vera: ciò che nel Nuovo Testamento viene chiamato la sinagoga di Satana. Solo assumendo questa prospettiva si capisce perché il sedicente papa attuale non parla quasi più di Dio, e meno ancora di Gesù Cristo, ma parla continuamente, ossessivamente, dei migranti, del clima e dell’ambiente; perché s’inginocchia davanti agli uomini, ma non davanti al Santissimo; perché ha intronizzato gli idoli nella basilica di San Pietro e in un’altra chiesa romana, e assistito con compiacimento, nei Giardini Vaticani, alla loro adorazione da parte del suo clero: solo allora tali cose cessano di apparire delle strane aberrazioni e acquistano i loro veri contorni, quelli dell’attuazione metodica, consapevole, e perfettamente logica, di un piano preordinato. Preordinato da chi? Dalla massoneria, infiltratasi nella Chiesa da almeno due secoli, e poi da agenti segreti comunisti, infiltratisi nei seminari e divenuti preti, vescovi e cardinali dopo il 1945. tutto con il coordinamento e con l’alta e raffinata regia dei "fratelli maggiori", e in particolare del B’nai B’rith, che atro non è se non la massoneria ebraica, vale a dire la più potente e la più estesa di tutte le massonerie.

Eppure, nulla è perduto se resta la fede in Cristo: perché il motore della storia non è l’uomo, ma Dio.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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