La debolezza italiana spiegata in 2 parole e 1 esempio
22 Settembre 2020
Ed era notte
25 Settembre 2020
La debolezza italiana spiegata in 2 parole e 1 esempio
22 Settembre 2020
Ed era notte
25 Settembre 2020
Mostra tutto

La condanna di Gesù, pietra d’inciampo del dialogo

Ne abbiamo già parlato in diverse occasioni, pure riteniamo giusto tornarci sopra ancora una volta: perché è questo il nodo di tutti i nodi, dal quale dipende il futuro della Chiesa cattolica, la sua credibilità e la sua capacitò di attrarre le anime, oppure, viceversa, il suo ulteriore declino e, in prospettiva, la sua estinzione o – il che è lo stesso – il suo svuotamento pressoché completo di linfa vitale. Se, infatti, come noi pensiamo e abbiamo ripetutamente cercato di documentare, l’idea centrale e lo scopo recondito del Concilio Vaticano II risiede in un segreto accordo con le lobby ebraiche, e specialmente con la massoneria del B’nai B’rith, ovvero in una resa a discrezione della Chiesa cattolica all’ebraismo, ebbene al centro di quella resa e all’origine di tutto il preteso rinnovamento conciliare vi è, in buona sostanza, la necessità di presentare le riforme che la Chiesa decide riguardo a se stessa e riguardo alle relazioni con il mondo, comprese le altre fedi religiose, come una libera scelta e un autonomo ripensamento della propria azione pastorale e del proprio patrimonio liturgico, mentre in effetti altro non sono che il paravento dietro il quale si nasconde una precisa volontà di sottomissione della Chiesa e una piena rivalutazione di quelli che, fino ad allora, erano stati non i fratelli maggiori del cattolicesimo, ma i suoi più implacabili nemici, non per scelta dei cattolici ma per volontà loro. A partire dalla fine della Seconda guerra mondiale e dalla nascita dello stato d’Israele, con l’inizio delle guerre arabo-israeliane, la pressione dell’ebraismo, rafforzato sul terreno psicologico e culturale dalla persecuzione subita ad opera dei nazisti e, indirettamente, dalla polemica sui pretesi silenzi di Pio XII, si era fatta fortissima, tanto più che veniva a sommarsi alla pressione, altrettanto poderosa, esercitata all’interno della Chiesa dai vescovi e cardinali acquisiti segretamente alle logge massoniche, e che vedevano nei rabbini più influenti e negli ambienti sionisti internazionali, specie di natura finanziaria, i loro naturali alleati nella lotta per la conquista del vertice della Chiesa stessa, obiettivo cui aspiravano da secoli e per realizzare il quale avevano profuso tutta la loro astuzia, la loro abilità politica e la loro capacità di dissimulare e organizzarsi, restando tuttavia il più possibile nell’ombra. Tutte le discussioni interminabili, e ormai perfino stucchevoli, sull’ermeneutica della continuità fra prima e dopo il Concilio, trovano qui la loro ragion d’essere: nella necessità, per i rivoluzionari che si sono impadroniti della Chiesa, di dimostrare l’indimostrabile, ossia che nulla, sostanzialmente, era mutato nei contenuti della dottrina cattolica dopo il 1965, e ciò al principale scopo di coprire ciò che non poteva, a nessun costo, venir dichiarato apertamente: che la Chiesa si era sottomessa, aveva ceduto alle pressioni e ai ricatti, e aveva barattato la sola verità di Cristo con una "verità" addomesticata, fatta a uso del mondo e tale da soddisfare la volontà di rivalsa dei "fratelli maggiori", ben decisi a cogliere e sfruttare al massimo il momento a loro così favorevole, prima che le condizioni di vantaggio potessero, chi sa mai, attenuarsi o addirittura svanire.

Vale la pena di citare una pagina della monumentale opera del famoso biblista benedettino padre Marie-Joseph Lagrange (1855-1938), la cui causa di beatificazione è tuttora in corso, L’Evangelo di Gesù Cristo (titolo originale: L’Évangile de Jésus-Christ, Lecoffre-Gabalda, 1928; traduzione di mons. Luigi Gramatica, Brescia, Morcelliana, 1935, pp. 542-545):

Dopo alcune parole di convenienza il procuratore, entrato senz’altro in argomento, domandò: "Che accuse avete contro quest’uomo?". I personaggi del Sinedrio credettero opportuno di formulare la loro denuncia sensazionale e far capire che si trattava di affare assai grave! Pilato, non ripromettendosi gran che da quelle circonlocuzioni e informato senza dubbio aversi a fare di questioni religiose, mostrò di voler rimanersene estraneo: "Prendetevi voi questo uomo e giudicatelo secondo la vostra legge". Tale autorizzazione non equivaleva però al permesso formale di mettere a morte quell’uomo o per lo meno la parola non era stata pronunciata; d’altronde gli Ebrei si tradiscono col dire: "A noi non è permesso mettere a morte qualcuno". Poi, per dimostrare a Pilato che si trattava di affare veramente serio e di sua giurisdizione, aggiungono: "Abbiamo trovato quest’uomo eccitare al disordine i nostri connazionali, impedire loro di pagare il tributo a Cesare e farsi passare per Messia, vale a dire per re". Non senza abilità seppero dare all’affare un carattere politico e rivestirlo di circostanze atte a suscitare l’irascibile procuratore.

Rientrato allora nel pretorio, Pilato fece chiamare Gesù e si rassegnò a interrogarlo: "Sei tu il re degli Ebrei?". In bocca di un romano quella domanda era una formale accusa di ribellione. Gesù pertanto non poté rispondere affermativamente a una domanda che avesse quel senso. Un proverbio arabo dice che l’interrogazione è madre della risposta, e per rispondere a ciò che gli si rimproverava, Gesù chiese a Pilato se parlasse in suo proprio nome o se ripetesse una accusa degli Ebrei; né con ciò egli usciva dai limiti di una legittima difesa. Tuttavia si capisce come una simile domanda spiacesse a Pilato, obbligato così a confessare di essersi addossato di farsi eco di un’accusa che non aveva neppure compreso. Egli se ne tirò con disdegno: "Son io un Ebreo? I tuoi connazionali, i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?" Tale è il procedere di un giudice che istruisce una causa, dove e accuse sono gravissime. Per ottenere una confessione precisa suppone come indubbia l’esistenza di una qualsiasi colpevolezza.

Gesù si fermò all’accusa formulata e dichiarò di non essersi mai fatto passare come re politico. Se avesse fatto ciò avrebbe dovuto contare sopra partigiani i quali avrebbero dato mano alle spade per difenderlo. Pilato comprende allora la inanità dell’accusa e si rende conto che il regno di lui non è di questo mondo. Meravigliato quindi e imbarazzato di fronte a tale distinzione e poco famigliare colle nozioni spirituali, Pilato insiste sul suo punto di vista e soggiunge: "ma ciò nonostante tu sei un re". Gesù l’accorda, ma nel senso indicato: "Tu l’hai detto, io sono re" e per precisare il proprio pensiero aggiunge di essere venuto nel mondo affine di rendere testimonianza alla verità, intendendo quindi di regnare sopra le anime perché quelli che cercano la verità lo ascoltino. Pilato, mente poco accorta, non credendosi obbligato di appartenere come tanti personaggi più grandi di lui, ad una setta filosofica, e professando per le alte speculazioni il disprezzo di molti uomini ingolfati nei problemi della vita pratica, pur mostrandosi ottimi funzionari, soggiunge: "Che cosa è poi la verità?". Senza dubbio è cosa che non lo riguarda; comunque, da uomo di buon senso, si persuade che i fatti di Gesù nulla hanno da poter mettere in pericolo gli interessi di Roma. Se egli ha turbato l’ordine pubblico, tutt’al più lo fece prendendo parte ad alcuna di quelle contese religiose che eccitavano così fortemente le passioni degli Ebrei. Frattanto dal di fuori i clamori si facevano più forti e penetravano perfino nel palazzo. E poiché Gesù dopo la sua confessione taceva, Pilato avrebbe voluto sapere, non foss’altro per curiosità, che cosa rispondere. Egli odorava un intrigo di Ebrei bramosi di trascinarlo in qualche tranello, salvo poi ad accusarlo dopo a Roma.

Il padre Lagrange, da serio biblista e da serissimo sacerdote cattolico, non si è permesso d’inventare nulla, di aggiungere nulla, di modificare nulla: si è basato sul racconto dei Vangeli, che tutti i credenti conoscono bene, se non altro dalla lettura della Passione nella liturgia del Venerdì Santo. Questo dicono i Vangeli, questo dicono i fatti: che a volere la morte di nostro Signore, e a volerla fortissimamente, furono i capi del Sinedrio e gli anziani del popolo; che essi lo fecero arrestare nell’orto degli ulivi, essi lo processarono e lo condannarono; poi, esclusivamente perché le loro sentenze non potevano essere eseguite, se capitali, senza l’autorizzazione del procuratore romano, lo condussero da lui, ma a giochi ormai fatti. E in realtà, quando Pilato chiese loro di cosa accusavano quell’uomo, essi risposero solo: Se non fosse colpevole, non te lo avremmo portato. Pilato, durante tutto lo svolgimento del processo civile (chiamiamolo così per distinguerlo da quello religioso, che si era svolto, fra l’altro illegalmente e senza possibilità di difesa per l’imputato, durante la notte), mostra di non conoscere neppure chi sia Gesù, tanto meno comprende le ragioni per le quali il Sinedrio ne vuole la morte. E ciò basti per replicare ai tanti, troppi "studiosi" e sacerdoti contemporanei, ossia seguaci della religione del Vaticano II, i quali insistono a dire che la condanna di Gesù fu fatta dai romani e non dai giudei: mentono sapendo di mentire. La condanna di Gesù fu pronunciata formalmente da Pilato, ma dopo che questi vi era stato tirato letteralmente per i capelli, cioè dopo che le aveva provate tutte per sottrarre alla morte quell’uomo, del quale aveva detto a voce alta: Prendetelo e condannatelo voi, perché io non trovo in lui alcuna colpa. E infatti Pilato, alla fine, non senza aver tentato, ma invano, di scaricare la patata bollente nelle mani di Erode Antipa, lo consegna loro affinché sia crocifisso (Gv 19,16), ma dopo aver compiuto il gesto enfatico di lavarsi le mani, per evidenziare che si ritiene innocente di quella condanna, a suo parere immotivata. Ci dicono e ci ripetono, ovviamente dopo il Concilio, che Gesù fu condannato a morte dai romani per motivi politici: ma la verità è che non s’erano neppure accorti della sua esistenza. Essi, buoni conoscitori di queste cose, dato che governavano il più grande impero della storia, non avevano fiutato nella sua predicazione alcun elemento sospetto; nelle folle che si recavano ad ascoltarlo o per essere guarite, come del resto fece perfino un centurione per implorare la guarigione del suo servo, non videro nulla che fosse potenzialmente pericoloso per il loro dominio. E tanto dovrebbe bastare a chiudere il discorso. Da secoli e secoli, del resto, pronunciando la formula del Credo, i cattolici ripetono le parole: patì sotto Ponzio Pilato; e non: patì ad opera di Ponzio Pilato, oppure: patì per volere di Ponzio Pilato. Si giri e rigiri il racconto evangelico, non vi si troverà nulla che indichi una volontà da parte romana di mettere a morte Gesù Cristo; al contrario, si troveranno numerosi indizi che Pilato cercò in ogni modo di evitare una sentenza capitale. Certo, si può sempre dire, come pure è stato fatto dai biblisti del posto concilio, che gli evangelisti scrissero il racconto della Passione in maniera tale da alleggerire la responsabilità dei romani, perché non avevano interesse a mettersi in conflitto con loro, dato che dalla loro benevolenza dipendeva la possibilità di predicare il Vangelo; e ciò varrebbe specialmente per il Vangelo di Luca, che si rivolge apertamente ai pagani di Roma. Ma è una duplice sciocchezza. Prima di tutto, gli apostoli non cercavano la benevolenza di alcuno: basta leggere gli Atti per convincersi che i primi cristiani predicano il Vangelo senza preoccuparsi d’ingraziarsi le autorità, anche se, nei limiti del possibile, si astenevano da inutili provocazioni verso i gentili. In secondo luogo, e ciò che più conta, ragionare a quel modo significa accusare gli evangelisti di aver narrato la vita di Gesù, che è la Verità, non secondo verità, ma secondo un calcolo di natura politica; il che equivale a dire che i Vangeli non sono libri divinamente ispirati, ma testi di propaganda religiosa, frutto di una volontà puramente umana, calcolatrice e irrispettosa del vero. Il che è assurdo e, per un credente, blasfemo.

Ma perché dunque era così importante scaricare sui romani tutta la responsabilità della condanna a morte di Gesù, e assolverne gli ebrei? Semplicissimo: per compiacere i rabbini e instaurare il tanto decantato dialogo con l’ebraismo, pilastro del Concilio e anzi, a nostro giudizio, la sua causa prima. Solo nella prospettiva del dialogo coi fratelli maggiori si capisce la Nostra aetate che contraddice duemila anni di magistero (altro che continuità!), e solo alla luce di essa si capisce la Dignitatis humanae. In altre parole, una volta rivalutato il giudaismo, bisognava per forza colpire al cuore il cuore della dottrina cattolica: che la fede non è questione di libertà d’opinioni, ma il frutto di una doverosa adesione alla Verità, una volta conosciutala. E come rivalutare il giudaismo, finché restava fra esso e i cristiani il piccolo dettaglio della condanna a morte del nostro Signore, voluta dal Sinedrio e pretesa a gran voce dalla folla di Gerusalemme, quando Pilato cercava di ottenerne la liberazione perfino facendo scegliere fra lui e Barabba, un noto assassino? Bisognava, è ovvio, rimuovere quel sassolino, quella pietra d’inciampo; e come, se non scaricando ogni responsabilità sui romani? Oltretutto i romani erano quelli che più tardi avrebbero riconosciuto Cristo: quattro secoli dopo, nel 480, l’imperatore Teodosio avrebbe proclamato il cristianesimo religione di Stato. Così, attribuendo ai romani la colpa d’aver voluto la morte di Cristo, in qualche modo si riportava in casa dei cristiani la tremenda responsabilità di quella condanna. Gli ebrei, che avevano subito l’Olocausto, e che così lo vollero chiamare per contrapporlo al vero Olocausto (parola che sottintende un sacrificio volontario di tipo religioso), quello di Cristo, ottenevano pure lo scopo di far sì che i cristiani, a loro giudizio corresponsabili delle persecuzioni hitleriane, si prendessero la colpa della condanna di Cristo che, ad ogni modo, era uno solo, mentre essi potevano vantare il sacrificio di Sei Milioni. E tutto ciò fu fatto, al Concilio, per poter "dialogare". Ma in che cosa i rabbini hanno dialogato, visto che mai hanno espresso rammarico per aver voluto la morte di Gesù?

Fonte dell'immagine in evidenza: RAI

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.