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L’arte di far adulare le proprie opere escrementizie

Esistono al mondo innumerevoli fatti. Il sapere umano si fonda su una selezione dei fatti: gli esperti scelgono i più significativi nel proprio campo, poi la scuola e l’università li mettono in fila, li studiano e li fanno imparare agli studenti. Ad esempio, esistono innumerevoli persone che si sono dedicate alla scrittura. Molti non hanno mai pubblicato le loro opere; molti le hanno pubblicate, ma sono scivolate via, del tutto inosservate; altri hanno raggiunto un certo grado di notorietà, ma sono stati presto dimenticati; altri, che erano stati dimenticati, vengono riscoperti, a un certo punto, non si sa bene per quale ragione; alcuni sconosciuti rimangono tali, altri assurgono improvvisamente alla notorietà. Qualche critico li ha "scoperti", li ha recensiti, li ha fatti conoscere; qualche editore ha "fiutato" l’occasione buona; qualche giornalista ha intervistato quell’autore e lo ha strappato al limbo dell’anonimato per dargli un volto, una voce, una personalità, che entrano a far parte dell’orizzonte intellettuale del pubblico. Mano a mano che quella celebrità si accresce, che quelle recensioni positive aumentano, il personaggio in questione si fa una reputazione della quale il pubblico dovrà tener conto, e che alla fine gli studenti, a scuola, saranno tenuti a imparare le sue opere, perché così hanno deciso i libri di testo, e i professori si prestano alla divulgazione, in genere senza farsi troppe domande circa l’effettivo valore intrinseco delle opere che illustrano. A loro volta, da studenti, le hanno conosciute e accettate come parte essenziale del panorama letterario, e ora si fanno docili trasmettitori di quel che hanno appreso in gioventù. Eppure, a ben riflettere, la letteratura che il pubblico conosce è solo una minima parte della letteratura totale, cioè dell’insieme delle opere, edite e inedite, che sono state partorite dall’ingegno umano. La persona comune ha pochissime probabilità di capire da sola se la selezione che le viene presentata dalla cultura dominante è onesta, attendibile, veritiera, oppure no. La prende per buona per abitudine, diciamo pure per pigrizia mentale. Ma se non lo fosse? Il dubbio, atroce, prende forma quando cade una dittatura, ed è quindi più evidente quando la materia in questione è la storia; ma lo stesso discorso vale per la letteratura, la filosofia, l’arte, la religione, perfino le scienze naturali e la stessa matematica (esistono svariate geometrie, ma a scuola s’impara quella di Euclide, e la maggioranza degli studenti non sa neppure che si tratta di una scelta, sia pure fondata su ragioni pratiche più che valide). Dunque, dopo la caduta del fascismo sono spariti dai libri di testo molti nomi e molti fatti che, prima, godevano della massima visibilità; altri nomi e altri fatti, che allora erano ignoti alla stragrande maggioranza del pubblico, diventano importantissimi, fondamentali. Eppure, se fossimo smaliziati e sospettosi quanto basta, potremmo chiederci: se noi attualmente vivessimo in una dittatura, sì, una dittatura mascherata chiamata democrazia, che opera anch’essa, per ragioni politiche e quindi arbitrarie, non scientifiche e comunque non oggettive, una sistematica selezione dei fatti, tale da fornire una visione parziale e incompleta, per non dire falsata e distorta, della realtà? Una volta che il sospetto è entrato nella mente, non c’è modo di liberarsene: è come una mosca fastidiosa, che torna continuamente a ronzare presso l’orecchio. E allora prendiamo il toro per le corna e affrontiamo dei casi pratici. Chi non consoce, dopo il 1945, la storia dei sette fratelli Cervi, fucilati dai fascisti durante la guerra civile (oggi finalmente la si può chiamare così, ma fino qualche anno fa bisognava chiamarla obbligatoriamente con il nome che le hanno dati gli apologeti dei vincitori: Resistenza, con la "r" maiuscola). Benissimo. Ma quanti, fra le persone comuni, conoscono la storia dei sette fratelli Govoni? Erano dei fascisti, o meglio, solo due di essi lo erano, fucilati dai partigiani a guerra ormai finita: e fra essi c’era anche una ragazza. Curioso, no? Sette fratelli di qua, sette fratelli di là: stessa identica situazione; ma questi sono conosciuti da tutti, quelli sono pressoché sconosciuti al pubblico. A cosa si deve ciò? Alla selezione dei fatti. E chi opera la selezione? Non solo gli "specialisti", in questo caso gli storici, e in ogni caso non sempre e non solo per delle ragioni obiettive, inerenti alla metodologia di quella disciplina; spesso, molto spesso, le ragioni sono di natura politica o ideologica. Ed ecco che tutto il nostro sapere si rivela, improvvisamente, una costruzione fragile, posticcia, tale da non fornirci una valida rappresentazione del mondo, ma solo una sua versione addomesticata.

Scriveva a questo proposito Léon Bloy nella sua Esegesi dei luoghi comuni (titolo originale: Exségèse des lieux communs. Première série et seconde série, 1902-1912, Parigi, Mercure de France, 1953; traduzione dal francese di Gennaro Auletta, Milano, Edizioni Paoline, 1962, n. XLIII, Leggere tra le righe, pp. 293-294):

È un cosa facilissima. Basta avere due soldi di chiaroveggenza, avere un po’ di esperienza e trovarsi nella volontà abituale di non presumere troppo di sé. Un esempio tra centinaia di migliaia:

«Caro maestro, ho letto con una sconfinata ammirazione la vostra incomparabile opera sulla "Divisione del lavoro sessuale considerata come la sorgente della solidarietà coniugale", e non so come esprimervi il mio entusiasmo, ecc.».

L’autore, per fortuna circonciso, Emilio Durkheim, papa della sociologia ella Sorbona, abituato indubbiamente alla lettura tra le righe, decifrerà certamente così:

«Triplice idiota, con indicibile disgusto ho dovuto inghiottire quel capolavoro di cretinismo che tu hai, con inqualificabile sfrontatezza, pubblicato, e non voglio perdere un minuto per rivomitartelo in faccia, ecc.».

Notate bene che attenuo sensibilmente le espressioni supposte di una semplice lettera diretta a un venerato professore.

Che dire di un intero libro, letto allo stesso modo? È vero che in questo caso sarebbe l’autore a parlare al suo lettore, ma lo stile non sarebbe meno generoso, ed ecco press’a poco l’avvertenza sincerissima che si troverebbe tra tutte le righe d’un romanzo di quattrocento pagine scritto da Paolo Bourguet, oppure da Maurizio Barrès o più semplicemente da Bottom:

«Snob imbecilli e deliziose baldracche, ecco la mia porcheria; assaporatela. È tutta degna di voi, e il vostro infallibile gusto per le immondizie non mancherà di apprezzarla, ecc.»

Bisognerebbe fondare una cattedra per l’insegnamento della lettura tra le righe.

Léon Bloy prende quale tipico esempio del suo discorso La divisione del lavoro sociale di Émile Durkheim, e indirettamente tutta l’opera del preteso padre nobile della sociologia francese (anche se Durkheim era figlio di un rabbino alsaziano che dopo la guerra franco-tedesca del 1870 era emigrato a Parigi per non diventare suddito tedesco). Con impagabile ironia, il grande scrittore cattolico mette in evidenza il lato ridicolo, grottesco, escrementizio del poderoso sforzo speculativo di costui, che già allora passava per uno dei luminari di Francia, nonché uno degli astri nel firmamento della Sorbona, e più ancora quanto di assurdamente, penosamente masochistico vi è nell’atteggiamento adulatorio di quanti pendono dalle labbra di cosiffatti sapienti e non sanno più quali espressioni inventare per manifestare la propria canina riconoscenza e devozione nei loro confronti. Che poi si tratti, non di rado, di autori circoncisi, per usare l’espressione Léon Bloy, evidentemente è solo una mera coincidenza, come lo sarebbe, senza dubbio, far notare che ai nostri giorni, all’alba del terzo millennio, le cose son cambiate poco o nulla, tanto nell’ambito del grande potere finanziario (Rotschild, Goldman-Sachs, Lehman Brothers, Soros) quanto in quello del giornalismo e dell’informazione, dove gli esempi, anche di casa nostra, letteralmente si sprecherebbero. Però, senza dubbio, aver fatto notare la circostanza è stata una grave caduta di stile, da parte del nostro: non si deve mai parlare di corda in casa dell’impiccato; mai evidenziare ciò che è di per sé evidente, allorché si tratta di cosa che, pur essendo vera, verissima, potrebbe nondimeno offrire il fianco, se la si chiamasse per nome, all’accusa di prestar troppa attenzione alla frequenza di certi cognomi, nelle sfere ove si puote ciò che si vuole. E ciò è tanto più vero nel campo della cultura, ove la frequenza di quei cognomi è tale da far sorgere il dubbio che tutta la modernità altro non sia che un epifenomeno di quei tali signori e di quella tale cultura (cfr. il nostro articolo: Fino a che punto la nostra visione del mondo è una visione ebraica?, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 03/03/09, e ripubblicato su quello dell’Accademia Nuova Italia il 30/11/17). Ma questi sono cattivi pensieri, e dunque è meglio non averli.

Anche noi, a suo tempo, abbiamo detto qualcosa a proposito di questo preteso fenomeno della sociologia positivista (cfr. l’articolo La nozione del mistero è originaria o frutto di una evoluzione storica?, pubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 05/02/18; cfr. anche La "svolta antropologica" in teologia non è altro che l’abbandono della metafisica, il 02/02/18); ma qui ci basta ciò che dice Bloy, del resto a titolo d’esempio: fino a che punto certi palloni artificialmente gonfiati della sedicente cultura moderna vengano fatti risuonare come cembali e timpani di una orchestra ideale, dinanzi alla quale è già stabilito in partenza che il pubblico può solamente applaudite e cadere in deliquio davanti a cotanta scienza e un tale sfolgorio di suprema intelligenza. Ma chi lo ha stabilito? I critici, naturalmente: quelli della grande stampa, i quali, ieri come oggi (e giocoforza torniamo, quand’anche non lo volessimo, a un discorso di scabrosa e scottante attualità), fanno sempre rima con il grande poter finanziario e quindi con quei tali cognomi di cui sopra. Ce cosa vogliamo dire, con ciò? Semplicemente questo: che noi tutti siamo stati addestrati a spellarci le mani ad applaudire e cadere in deliquio davanti a portenti della cultura la cui eccellenza ci è sempre stata presentata come un dato di fatto, come qualcosa che si illustra da sé, senza bisogno di teorie o spiegazioni, per la semplicissima ragione che, se un cane viene addestrato ad abbaiare o a scodinzolare dinnanzi al suo padrone, magari con la prospettiva di ricevere poi in premio una carezza o un buon boccone, in brevissimo tempo imparerà ad abbaiare e a scodinzolare, non perché ciò sia il fritto di un suo spontaneo atteggiamento, ma perché tale è stato il risultato del suo addestramento: e così noi. Il più grande genio della psicologia di tutti i tempi? Ma Sigmund Freud, naturalmente. Il più grande scienziato di tutti i tempi? Albert Einstein. Il più grande teorico dell’economia? Karl Marx, si sa bene. La più grande figura della rivoluzione permanente? Lev Davidovic Bronstein, detto Trotskij. E della rivoluzione sessantottina? Daniel Cohn-Bendit. I più grandi pittori? Amedeo Modigliani e Marc Chagall. Il massimo filosofo? Qui, a dire il vero, le opzioni sono parecchie: si va da Max Horkheimer a Theodor W. Adorno, da Walter Benjamin e Gunther Anders e da Emmanuel Levinass a Herbert Marcuse (come dite? che c’è molta aria di famiglia? via, sono solo combinazioni). Il prete più in gamba, l’amico del popolo e il precursore del rinnovamento conciliare? Don Lorenzo Milani, mitico priore di Barbiana. E venendo ai più grandi scrittori di casa nostra del Novecento? Aron Hector Schmitz, alias Italo Svevo; Giorgio Bassani, Primo Levi, Carlo Levi, Umberto Saba, Sergio Moravia: parenti spirituali di quei Proust, Kafka, Roth, ecc. con quei tali cognomi. E vogliamo anche metterci, sì o no, l’eclettico e infaticabile Alain Elkann, figlio d’un autorevolissimo e ricchissimo rabbino, presidente del Concistoro ebraico di Parigi, nonché, per pura coincidenza, autore (il figlio, non il padre) di una quarantina di volumi, fra i quali si annovera il memorabile, imprescindibile Essere ebreo, del 1994, scritto a quattro mani con Elio Toaff: vera pietra miliare nella storia dell’umano pensiero? In altre parole: è come quando, in un computer, si inseriscono certi dati, e certi altri no: come stupirsi se, poi, da quel computer escono solo e unicamente risultati conformi a quei dati? Succederà come a quel fedelissimo lettore di un certo quotidiano, il quale, dopo una quarantina d’anni di lettura giornaliera del medesimo, un giorno se ne esce con questa frase, rivolta alla moglie: Sai, cara, è strano, ma constato ogni giorno di più che il mio giornale la pensa proprio come la penso io! Ma quando, domanderete, siamo stati addestrati come il cane di Pavlov? Come, e da chi? Prima di tutto, dai giornali e dalla televisione, i cui direttori vengono scelti da quei tali proprietari che fanno capo a quei tali banchieri con quei tali cognomi, di cui sopra. In secondo luogo, dai libri di testo e dagli insegnanti: i quali, mediamente, non vanno tanto per il sottile nella ricerca delle fonti, si accontentano di ruminare quel che trovano già bell’e pronto fin da quando a loro volta erano studenti, e poi, per tutta la vita seguitano a ripetere quelle stesse cose ai loro studenti, un anno dopo l’altro, fino al momento di andare in pensione. La carezza e lo zuccherino coi quali il padrone premia il cane ben addestrato si traducono, nell’ambito della scuola e dell’università, nelle parole di lode, nei bei voti e nelle tesi di laurea premiate con il massimo punteggio, se lo studente si è attenuto alle istruzioni e ha servito bene la tesi precostituita; se no, voti striminziti, occhiate sospettose e battute malevole da parte dei professori…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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