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L’attacco alla famiglia è odio suicida contro la vita

Da quando è stata approvata in Parlamento la legge n. 194 sull’aborto, confermata poi da un apposito referendum nel quale, senza dubbio, anche molti cattolici hanno votato per la sua conferma, a ciò spinti da "illustri" esponenti del clero, come il servita padre David Maria Turoldo, ci siamo talmente assuefatti alla mentalità abortista, che i milioni di aborti da allora praticati, e che tuttora proseguono nel silenzio generale, non ci turbano affatto. Ci turbano, quelle sì, le sorti dell’ennesimo barcone di falsi profughi e falsi naufraghi, partiti apposta dalle coste della Libia in condizioni tali da obbligare le navi di passaggio, o anche appositamente lì stazionanti, a correre in loro soccorso. Ci turba il fatto che vengano trattenuti, per ragioni di sicurezza, tre o quattro giorni, senza poter entrare in porto: e allora ecco che frotte di giornalisti e di parlamentari, armati di giubbotti salvagente e macchine fotografiche e telecamere, salgono a bordo per documentare la terribile odissea dei poverini. Ci turba anche che, ogni tanto, qualcuno di tali barconi faccia realmente naufragio, e allora il signor Bergoglio si mette a tuonare ancor più del solito, e blatera che Dio ci chiederà conto di quei poveretti. Dei nascituri raschiati via prima di venire al mondo, però, non parlano né i Turoldo, né i Bergoglio, né i "cappellani" a bordo delle navi delle O.N.G.: sono troppo occupati a diffondere il nuovo verbo migrazionista per badare a simili quisquilie. E se qualcuno, per caso, tenta di portare su quel dramma la loro attenzione, subito si adombrano, il loro sguardo si fa bieco, l’espressione torva. Hanno mangiato prontamente la foglia e intendono smascherare l’inganno: li si vuol distrarre con questioni moralistiche, mentre lì, sulle acque del Mediterraneo, c’è tanto da fare per tutta quella povera gente, vale a dire per quei muscolosi e sanissimi giovanotti, pieni di ormoni e impazienti d’invadere l’Italia, di sommergere i suoi vecchi ed imbelli abitanti con la potenza generatrice dei loro lombi. Stesso discorso per i divi dello spettacolo, come Richard Gere o Antonio Banderas, che vanno a farsi belli a bordo delle navi, distribuendo acqua e medicinali, o come Roger Waters dei Pink Floyd, che ha ammonito gli italiani dicendo loro: State tranquilli, che i migranti non vengono a rubarvi la pizza. Tutti d’accordo con Bergoglio, dunque; e tutti d’accordo, guarda che coincidenza, con George Soros e la sua Open Society Foundations; tutti d’accordo con la grande finanza globalista, con la grande stampa globalista, con le televisioni globaliste, con i governi globalisti; e tutti concordi nel parlare solo di migranti, oppure di Covid-19, però mai, assolutamente mai, di aborto: se non eventualmente per proporre, com’è accaduto in Francia, che lo si possa legalmente praticare fino al nono mese di gravidanza. Che anime belle, che cuori sensibili: parlare dei poveri migranti, sì; dei feti raschiati via e destinati alla produzione industriale di vaccini e creme di bellezza, no.

L’aborto, peraltro, è solo la forma più clamorosa che ha assunto, a partire dagli anni ’70, l’attacco concentrico contro la famiglia, che si è sviluppato su diversi piani: giuridico, medico, psicologico, culturale. Introdotto il divorzio; cancellata la patria potestà; stabilito il femminismo per decreto (un esempio: l’obbligo di votare un candidato maschio e una femmina alle prossime elezioni regionali; ma i transessuali non protesteranno per la discriminazione?); equiparate, in pratica, le convivenze al matrimonio, sotto la denominazione di unioni civili; infine portata l’ideologia gender negli asili e nelle scuole e varate la legge anti-omofobia, che in pratica imbavagliano chiunque osi definire la famiglia naturale una famiglia naturale, che altro manca per dare scacco matto alla famiglia formata da un uomo e donna, come lo erano quelle dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nostri bisnonni, e insomma come tutte quelle che ci hanno preceduto, generazione dopo generazione, e che hanno costruito, attraverso l’amore reciproco e la nascita e la cura della prole, col loro spirito di sacrificio, la nostra civiltà, e quel poco o tanto benessere del quale oggi disponiamo? I nostri genitori e i nostri nonni non reclamavano diritti; affrontavano sacrifici, a volte durissimi, per amore dei figli e dei nipoti, quindi per le generazioni a venire. Lavoravano duramente per lasciare qualcosa a dei bambini che forse non avrebbero fatto neanche in tempo a vedere. Tutto il contrario della cultura edonista dei nostri giorni, basata su una serie interminabile di diritti, riassumibili nel diritto supremo, che li comprende tutti: il diritto alla ricerca individuale e insindacabile del proprio piacere. Oggi si vuol fare legge del diritto di ciascuno a godere il massimo del piacere possibile, quello sessuale in primo luogo: indipendentemente da ogni idea di famiglia, di discendenza, di lavoro, di sacrificio, di responsabilità. Oggi si considera un reazionario e un represso chiunque osi parlare di doveri e responsabilità; chiunque faccia presente che non esiste, né mai è esistita in tutta la storia mondiale, una società basata principalmente sulla ricerca del piacere individuale; che tutte le società e tutte le civiltà che si sono succedute hanno posto in primo piano la responsabilità e lo spirito di sacrificio, compresa la disponibilità a dare la vita per la difesa dei propri cari, della propria fede e della propria patria. Che nessuno s’illuda: se una società non sa allevare i suoi membri nell’idea del sacrificio, compreso il sacrificio supremo, il suo tempo è contato. I greci sono stati grandi perché non hanno avuto paura di morire, e lo hanno dimostrato alle Termopili. E noi, di quali sacrifici saremmo oggi capaci, noi che siamo sprofondati sino ai gomiti nella ricerca esasperata del nostro piacere, nel disprezzo più totale delle leggi di natura e della stessa morale naturale? Oppure c’è qualcosa di etico, ad esempio, nel prenotare un bambino su catalogo e portarlo via alla sua madre, pagandolo in contanti, per poter soddisfare il bisogno di paternità di una copia omosessuale? Sacrifici, no di certo; noi siamo attanagliati da una paura folle di morire. Lo dimostrano tutte queste persone, tutti questi zombie che se ne vanno in giro con la mascherina, che guidano l’automobile, da soli, con la mascherina; che passeggiano per la strada o pedalano in bicicletta o fanno una corsa per tenersi in forma, sempre indossando scrupolosamente la mascherina. E lo attestano questi vecchi ottantenni, novantenni, che passano per la strada, aiutandosi col bastone, che si appoggiano al braccio di una badante, e intanto indossano la mascherina, e rifiutano di ricevere le visite dei nipotini: tale è la loro paura di morire. Sono giunti all’età in cui morire si deve, ed è solo questione di giorni: ma non vogliono adattarsi all’idea, e preferiscono sopravvivere in condizioni igieniche e psicologiche impossibili, soli, sospettosi, allucinati, piuttosto che correre il rischio, così loro credono, di rimanere contagiati dal virus e di potersi ammalare mortalmente. Che strano, vero, prendersi un’influenza a ottanta, a novant’anni? Certo, è un’eventualità remotissima: perché dunque affrettare un evento così lontano e improbabile? Evidentemente essi ritengono di avere acquisito, per statuto, il diritto all’immortalità. Ecco a cosa conduce la politica dei diritti illimitati: a rifiutare l’idea della morte; a protestare contro di essa; a voler vivere a ogni costo, anche solo un giorno in più, un’ora in più, indossando la mascherina che fa malissimo, negandosi l’ossigeno e respirando la propria anidride carbonica, e affidandosi ai sedicenti comitati tecnico-scientifici, pronti a sottomettersi a tutte le loro assurde e criminali disposizioni sanitarie. È triste, molto triste, vedere fino a che punto il rifiuto della morte priva le persone del buon senso, della retta ragione, della stessa dignità personale; specialmente quando si tratta di persone anziane, dalle quali ci si aspetterebbe un esempio di saggezza, di docilità ai ritmi della natura, di sacrosanta rassegnazione cristiana, sorretta dalle fede nella vita vera, secondo la Promessa divina. E tutta questa inarrestabile deriva morale e psicologica, lo ripetiamo, ha avuto inizio con l’introduzione della legislazione abortista, che finalmente ha reso l’Italia simile agli altri Paesi civili e progrediti, laici ed emancipati.

Ci piace riportare qui alcune semplici ma eloquenti osservazioni a proposito della famiglia rurale, oggi scomparsa nei suoi caratteri tradizionali, ma che si possono estendere alla famiglia in generale, svolte da un prete della "vecchia scuola", la cui figura è stata già da noi altrove ricordata (cfr. l’articolo: Il lavoro è fonte di valori morali e spirituali, ma solo se a misura d’uomo, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 15/07/13, e poi su quello dell’Accademia Nuova Italia il 01/04/18): don Giovanni Brotto (1923-2010), che fu arciprete di Paese, nella bassa Trevigiana, per ben 33 anni, dal 1967 al 2001, e che quindi ebbe modo di vedere, da un punto d’osservazione privilegiato, come la parrocchia d’un grosso centro rurale, la graduale ma inarrestabile trasformazione sociale e culturale che sarebbe poi sfociata nelle forme attuali della modernizzazione selvaggia e della globalizzazione, con tutto ciò che ne consegue sul piano morale (da: G. Brotto, Terra del mio paese, a cura della Fed. Prov. Coldiretti di Treviso, 1986, p. 145):

Chi non ama, chi non apprezza e rispetta la vita, non la merita. La vita una realtà immensa, impagabile. Ci fa usare, godere, gustare le cose belle e buone dell’universo. Il paesaggio del mondo appartiene alla prima persona che ha due occhi per guardarlo. Tutto il creato è per la festa e la gioia dell’uomo. Fa di ogni uomo un maestro di canto in mezzo ad un coro sterminato: alberi, fiori, acque, terra, luci, colori, voli, canti, animali, cielo, stelle, uomini. Tra tutti questi esseri il primo posto è dei bambini. Essi sono innocenti come gli angeli. Ci sono dati come segno di speranza e di gioia. Riempiono il cuore di tenerezza. Ricordano l’universale chiamata alla bontà. Sono qualcosa di veramente unico; che mai era esistito prima; che ha cominciato ad esistere, che mai finirà. Sono un oceano sconfinato di dolcezza, fiducia, amore. Sono i messaggeri e i vicari della bellezza di Dio. Siamo nati senza chiederlo. Viviamo senza capire che cosa significhi essere usciti dal nulla. Per questo ci sono persone che osano sopprimere la vita. Ma la vita rimane un dono misterioso e smisurato. Noi non siamo in grado di capire se valga o no la pena di averla ricevuta o di trasmetterla. Un solo essere ne è capace: Colui che ne fu l’artefice, Dio. Egli ha giudicato che essa è un bene. Per questo ce l’ha donata. All’uomo resta solo di accoglierla ed accettarla, qualunque peso, dolore, dramma, essa comporti. I figli non nati sono il rimpianto di tutte le esistenze deserte, di tutti gli amori sbagliati, di tutti gli egoismi disumani, di tutte le speranze soffocate, di tutte le ancore spezzate. I figli innocenti, eliminati prima di vedere la luce, sono il secondo nome della morte. Sopprimer ei bambini non voluti significa porre le condizioni di una società di morte, senz’anima e senza speranza. È già uomo colui che lo sarà, ed è già figlio di Dio. Guai a chi lo tocca. Con gli occhi dei bambini possiamo ancora vedere il mondo con freschezza. Il cuore del mondo è la famiglia. Sotto il cuore della mamma nasce la vita. L’amore e il rispetto della vita debbono cominciare dalla famiglia. Le famiglie rurali hanno una costante: l’amore alla vita, il rispetto della vita. I cristiani sono il popolo della vita e per la vita. È necessario fermare la mano di chi vuole soffocare il vagito di una creatura indifesa, rifiutare il calcolo e il comodo, ed accettare i valori: primo fra tutti il valore della vita.

Ma la vita, per la cultura progressista oggi imperante, possiede dei diritti solo quando si tratta di soddisfarne tutti i capricci, le brame e anche i vizi; non quando essa, inerme e silenziosa, sta per arrivare ma non è ancora visibile, e non trova alcuno che voglia difendere il suo diritto alla nascita. Ed ecco allora la signora Emma Bonino, già paladina della legge sull’aborto, e che si vantò, a suo tempo, di aver praticato lei stessa qualcosa come diecimila aborti rudimentali, servendosi di una pompa di bicicletta; ecco il sedicente papa Bergoglio che la elogia e la definisce "una grande italiana". Ma di che stupirsi? Se il principio del piacere diviene la legge suprema e il fine stesso della società, bisogna aspettarsi che esso assuma le forme più sfrontate, disgustose e perfino criminali. La prossima frontiera sarà il riconoscimento legale della pedofilia: se quel che conta è il piacere, che cosa volete che sia stabilire un’età minima per autorizzarlo, sotto qualsiasi forma? Una pura formalità; peggio: una tendenza repressiva, che va eliminata. Ed ecco che il cinema e la tv si fanno avanti, come al solito, per preparare il terreno; ecco il film di Netflix Cuties (titolo originale francese: Mignonnes) dedicato alle undicenni pruriginose, che sculettano e si agitano seminude, senza pudore, per la gioia di un pubblico di voyeurs potenzialmente pedofili: l’ennesimo stratagemma per sessualizzare i bambini e i pre-adolescenti, e per solleticare i più bassi istinti del pubblico. Perché di un pubblico si tratta: pertanto di una questione di soldi, di profitto. E parallelamente, ecco venire avanti l’eutanasia: se la vita è fondamentalmente diritto al piacere, deve pur esistere il diritto a rifiutarla, quando essa non produce piacere, ma dolore; e quando la paura della malattia e della morte diviene insopportabile. Così, piano, piano (ma neanche tanto), secondo l’ormai ben collaudato schema della Finestra di Overton, ci stiamo avvicinando al limite estremo: il limite oltre il quale ci sono solamente la pazzia e l’auto-distruzione. Già ci siamo arrivati vicinissimi: non manca ormai che un passo.

Signore, abbi pietà di noi. Non siamo più degni d’essere chiamati tuoi figli; trattaci come gli ultimi dei tuoi servi. E tuttavia ascoltaci: porgi orecchio al nostro grido d’aiuto. Da soli, siamo già perduti..

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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