L’attacco alla famiglia è odio suicida contro la vita
15 Settembre 2020In quei giorni uscirono da Israele uomini scellerati
16 Settembre 2020Il cristiano — è quasi banale dirlo — ama e rispetta la vita in sommo grado, poiché la considera il dono più grande fatto da Dio alla sua creatura, un dono dal valore incommensurabile; ed è per questa ragione che egli considera l’aborto e l’eutanasia come dei peccati gravissimi, che non potranno mai e poi mai trovare comprensione, né essere accettati in vista, come dicono i loro fautori, di un bene ulteriore, o, se si preferisce, di un male minore rispetto a quello che si vorrebbe scongiurare. Il male maggiore sarebbe, nel primo caso, una vita che non si è disposti ad accogliere e nel secondo una morte presumibilmente dolorosa. A ben guardare, però, nel primo caso il problema non è la vita che sta arrivando, ma la disponibilità degli altri ad accoglierla, quindi è su questo alto che si dovrebbe operare e non, sbrigativamente, barbaricamente, sull’altro, eliminando il "problema" alla radice con l’eliminazione dell’incolpevole nascituro. Nel secondo caso, il male che si vorrebbe allontanare non è la morte in sé — a meno che gli uomini contemporanei, nel loro delirio di onnipotenza, aspirino realmente all’immortalità, magari senza avere il coraggio di esprimerlo a parole — ma la sofferenza che la precede, per lenire la quale, tuttavia, esistono dei farmaci e che quindi non richiederebbe, di per sé, neppure questa volta, il rimedio sbrigativo e barbarico di sopprimere la vita, o, il che è lo stesso, di negarle gli alimenti e i liquidi per mantenere in vita il paziente (questo fu precisamente il caso della povera Eluana Englaro, lasciata letteralmente morire di fame e di sete in nome di un malinteso concetto di "pietà").
Dunque, il cristiano ama e rispetta la vita, dal suo concepimento fino alla sua conclusione naturale: così è, e così non potrebbe non essere. Sono le parole stesse i Gesù a confermarlo, quando Egli dice: Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi; perché tutti vivono per lui (Lc. 27,38). E tuttavia: che cosa significa, veramente, amare e rispettare la vita? Significa, senza dubbio, averne compreso il profondo significato. Ma quanti si soffermano a riflettere su ciò? Quanti trovano il tempo, fra le mille cose nelle quali sono quotidianamente affaccendati, di chiarire a se stessi perché la vita è un dono così prezioso, affinché la loro convinzione non sia il frutto d’una formula imparata a memoria, ma di una lezione di vita realmente maturata e portata alla piena consapevolezza? Perché senza una tale profonda, personale convinzione, la vita continuerà ad essere vista come un bene fino a quando le cose andranno bene, ma come una disgrazia quando le cose prenderanno una brutta piega. Invece la convinzione cristiana del valore incommensurabile della vita non può essere soggetta a una simile altalena: deve prescindere dalle circostanze esterne, o anche interne, che rendono più o meno gratificante, più o meno deprimente, un determinato momento o una determinata fase della propria vita. «Ma io – obietterà qualcuno, impregnato di cultura esistenzialista – non ho che questa mia vita, non posso conoscere la vita in generale: dunque ho il diritto di giudicarla in base alla mia esperienza soggettiva, e di decidere da me stesso se è bella o brutta, se è degna di essere vissuta o meritevole di essere rifiutata, come un dono sgradito o giunto in un momento inopportuno, quando non esistono le condizioni affinché se ne possa godere». Gira e rigira, questo punto di vista è sempre e comunque figlio del materialismo edonista: dell’idea, cioè, che la cosa più importante che la vita possa offrire è il piacere; e che ove manchi il piacere, o sia troppo scarso rispetto al dolore, l’uomo abbia ogni diritto di decidere da sé, ed eventualmente rifiutare quel dono che si è rivelato per lui, piuttosto, un pesante fardello. Ma come uscire da questa visione esistenzialista, soggettivista, utilitarista del dono della vita? Come salire ad un punto di vista superiore, assoluto, non soggetto agli alti e i bassi della singola esistenza, senza tradire il fatto incontestabile che la vita che noi conosciamo è in effetti la nostra, e che sulla nostra pelle, per così dire, ne sperimentiamo costi e benefici? Come coniugare, cioè, l’esperienza soggettiva della vita con la coscienza del suo valore perenne, che travalica le contingenze e le determinazioni individuali e che può infondere speranza, essa sola, appunto nei momenti di maggior difficoltà e sofferenza?
Prima di formulare una risposta diretta questo interrogativo, ci sia concesso fare una riflessione preliminare, sotto forma di un’ulteriore domanda, tanto personale quanto lo è il punto di vista esistenzialista: avete mai visto il volto della persona a voi cara, subito dopo che la vita ha lasciato quel corpo? Avete mai visto la pace meravigliosa che si diffonde su quel volto da voi tanto amato, il volto di un’anima che finalmente ha trovato la pace? Avete notato il vaghissimo accenno di sorriso su quelle labbra, come se stesse sorridendo a qualcosa d’ineffabile, di splendente, di meraviglioso, che lei sta già contemplando, mentre a voi rimane invisibile? Se sì, possiamo andare avanti con il nostro ragionamento; se no, crediamo che ciò non sia possibile, perché siete ancora dei bambini. È ancora e solo un bambino, magari di quaranta o cinquant’anni di età, colui che non ha mai contemplato coi propri occhi il volto delle persone care, subito dopo che la morte ha posto fine al viaggio della loro esistenza terrena. È un’esperienza che non si può esprimere a parole, ma che solo chi l’ha fatta può comprendere e valutare in tutta la sua portata. È, a ben guardare, l’esperienza decisiva nella vita di un essere umano, quella da cui dipende ogni altra esperienza, ogni altro giudizio, ogni altro pensiero. Chi non l’ha mai fatta è ancora bambino, perché, per quanto possa aver letto molti libri e fatto molte altre cose, gli manca l’esperienza più importante, la più formativa, la più densa di significato. La società moderna tende ad espropriarcene, e si capisce il perché: per essere dei "bravi" cittadini-consumatori, che obbediscono a Sistema e non fanno mai domande scomode, bisogna restare ignari di ciò che potrebbe innescare un processo di consapevolezza. Ecco perché qualcun altro, al posto nostro, si prende cura della salma del defunto, la lava, la veste, la prepara per le esequie; e prima ancora, ecco perché, all’avvicinarsi dell’ora fatale, il malato viene portato in ospedale, in modo che la sua agonia si svolga lontano dagli sguardi dei familiari, e specialmente dei bambini. Eppure, fino a meno di due generazioni fa, si moriva in casa propria, così come in casa propria si nasceva: l’ospedalizzazione della nascita e della morte sono due aspetti centrali della strategia del Sistema consumista volta ad addomesticare l’essere umano e farne un docile strumento del potere finanziario. Solo mantenendo gli uomini e le donne in uno stato di perenne minorità artificiale li si può asservire completamente; solo presentando loro la vita come un continuo diritto al piacere, il che è possibile solo a patto di nascondere le spine che indubbiamente in essa si trovano, e delle quali, anzi, sovente è disseminata.
C’è una pagina di un importante scrittore romeno, Mihail Sadoveanu (1880-1961), da molti considerato il massimo esponente di quella letteratura, che si presta magnificamente a illustrare il concetto che stiamo tentando di esprimere: la solenne, silenziosa maestà della morte. Si trova nel racconto Il cavaliere, ispirato a un episodio della guerra d’indipendenza del popolo romeno dall’Impero Ottomano, nel 1877-78. Si noti con quanta finezza, con quanta maestria e, al tempo stesso, con quanta semplicità (l’apparente semplicità dei grandi!) lo scrittore ci mostra il senso di pace e di serenità che è sceso sul volto degli eroi caduti in battaglia. Ecco la pagina in questione (da: M. Sadoveanu, Racconti di guerra; titolo originale: Povestiri de razboi; traduzione di Laura Rocca, Vicenza, Edizioni Paoline, 1963, pp. 78-79):
Il nemico, dopo aver fatto in fretta dietro-front, fuggì in direzione del ponte, bersagliato dai nostri cavalieri che, col corpo teso in avanti, caricavano a fondo come tanti falchi. Incalzati da vicino, gli ultimi squadroni che non avevamo avuto il tempo di raggiungere il corso d’acqua furono decimati sul posto. Quelli che erano riusciti a passare sull’altra rimasti disseminarono per cespugli e fossi, mente dalla nostra parte si continuava a sparare.
Poco alla volta i colpi di fuoco diminuirono; l’ultimo fece, per così dire, il punto. E il silenzio riprese i suoi diritti.
Quel giorno non si sotterrarono i morti; e quando il tramonto ebbe cosparse le rive del fiume con la sua impalpabile polvere dorata, sulle sponde solitarie regnò di nuovo sovrana la pace. Il nemico lasciava numerosi morti sul campo di battaglia, che erano precipitati da ogni lato come l’effetto di un tornado, tra gli spezzoni di armi e i cadaveri dei cavalli. Sulla sponda stavano tre dei nostri cavalieri — due lancieri e un ussaro — che, fra tanti altri, erano periti in battaglia.
Nel saliceto nemmeno un brusio. Il gabbiano, col suo grido acuto, aveva ripreso a planare sulla tovaglia d’acqua. Un volo di vannelli [pavoncelli] errava da uno stagno all’altro e lanciava timidi appelli. Ad oriente, il cannone tuonava sordo mentre parabole incandescenti illuminavano l’orizzonte a intermittenze.
I tre eroi dormivano il sonno eterno sotto le ultime luci del tramonto.
Il primo lanciere giaceva sul dorso, tutto rannicchiato, schiacciato sul terreno, con la mano destra irrigidita sulla lancia e la sinistra raggrinzita sul petto come a voler strappare qualcosa. Il secondo lanciere, con gli occhi vetrosi spalancati, era coricato sul fianco; aveva la lancia spezzata, i pugni chiusi e le braccia abbandonate lungo il corpo. Pareva che scrutasse ancora l’orizzonte in direzione del levante. Il terzo cavaliere era un ussaro. Con le palpebre chiuse, il viso voltato verso il cielo e le braccia in croce, sembrava che dormisse. Sul suo viso, dall’espressione calma, i baffi scuri e le sopracciglia marcate, il vento della sera passava come una carezza di sogno..
Riposavano tutti e tre in quella solitudine e le foglie tremanti dei salici mormoravamo un canto misterioso sull’ala vaporosa della brezza.
Tale è la maestà della morte: l’abbandono della vita terrena dopo la battaglia che è la vita stessa, e il senso di pace suprema, indescrivibile, che succede al tumulto delle passioni. Mai su quei volti abbiamo visto un abbandono così pacifico, una bellezza così intangibile, quand’essi erano vivi. Ecco un’espressione che certamente suonerà scioccante per qualcuno: la bellezza della morte! Come si può dire una cosa simile? Appunto perché si tratta di un’esperienza inesprimibile, abbiamo premesso che solo chi l’ha fatta la può comprendere; lui solo sa di che cosa stiamo parlando. I medici e gli infermieri, forse, sono fin troppo abituati ad un tale spettacolo, senza contare che, per loro, si tratta pur sempre di volti estranei; molte persone, viceversa, per le ragioni che abbiamo detto, non l’hanno mai visto, e forse mai lo vedranno. Peccato. Da parte nostra, proveremo ora a esprimere in concetti e parole, balbettando, quell’esperienza, che di per sé, ossia in quanto esperienza personale e non ragionamento astratto, è inesprimibile.
Qual è il volto più caro fra tutti? Senza dubbio, il primo volto che abbiamo visto subito dopo essere venuti al mondo: il volto di nostra madre. Il volto che abbiamo tanto amato fin da quando ci dava il latte e ci teneva in braccio, cullandoci dolcemente per farci riposare sul suo seno. Ebbene: se avete fatto l’esperienza di vedere il volto di vostra madre morta, avete fatto l’esperienza più importante della vostra vita. Lei, finché c’era, era la garanzia che nulla di male ci sarebbe accaduto; che il male più grande, la fine della vita, non ci avrebbe mai raggiunto. Ma ora la morte ha raggiunto lei, e sul suo volto amato non ci sono più i segni della vita: c’è solo un grande silenzio, una grande pace, quasi un ineffabile sorriso. Dunque, la morte esiste. Per questo dicevamo che chi non ha fatto una simile esperienza è rimasto come un bambino: perché è proprio dei bambini non credere alla morte, vale a dire non credere alla sua irrevocabilità. Per i bambini, come accade nelle fiabe, dalla morte qualche volta si può anche ritornare; ma da adulti si sa che questo non è possibile. Dunque, il volto di nostra madre morta ci dice che anche noi moriremo: lo vediamo adesso con estrema chiarezza, in una maniera che è al di là di qualsiasi dubbio, di qualsiasi speranza o timore. E poiché noi l’amavamo, avremmo voluto proteggerla da ogni male, ma non abbiamo potuto fare nulla contro la morte: essa è venuta e se l’è portata via, in un regno dal quale, per adesso, noi siamo esclusi. Eppure, guardando quel caro volto, possiamo scorgervi anche qualcos’altro. È come se nostra madre continuasse a parlarci, e ci dicesse, con la sua voce dolce: «Non temere: vedi? La morte è la pace. Non è la fine, ma l’inizio di qualcos’altro: della vita vera. Non rattristarti per me; io ora sono presso Dio. Impara ad apprezzare la vita, perché solo sapendo che morirai, puoi apprezzarne tutta la bellezza».
Ecco perché il cristiano sa che la morte è un dono prezioso, incommensurabile. Lo sa, non l’ha letto sui libri. Lo vede nel volto di Cristo morto sulla croce, meglio ancora sul volto di Cristo deposto ai piedi di essa, e accolto fra le braccia di sua Madre. Guarda quel volto, il volto di sua e nostra Madre, e vi scorge un immenso dolore, ma non la disperazione. La morte è la liberazione dai ceppi della vita terrena, è la libertà della vita vera. Certo, a una condizione: che si sia vissuti nella grazia di Dio.
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