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Elogio della raccomandazione

Sì, avete letto bene; e no, non siamo impazziti, o almeno crediamo di no: eppure intendiamo proprio fare qui, adesso, e del tutto seriamente, l’elogio della raccomandazione. Ma questo, obietterà qualcuno, non solo è di per sé immorale, ma è anche in contrasto con tutto quello che andiamo dicendo e scrivendo da anni, da decenni, in tutte le salse e in tutte le lingue possibili, a proposito del degrado del tessuto sociale, sui nefasti effetti della scomparsa del merito e della selezione all’incontrario, che fa passare i peggiori davanti ai migliori, in ogni ambito della vita associata. Calma: se resisterete all’impulso di passare oltre con una sdegnosa scrollata di spalle, accusandoci d’incoerenza e di sfrontatezza senza neanche averci ascoltati, proveremo a spiegarvi perché ci è saltato il ghiribizzo di fare proprio il più impopolare degli elogi, in questa società dove tantissimi razzolano male ma tutti, chi sa come, predicano bene, anzi amano alzare il ditino accusatore con saccenteria, e indossare i panni dei moralisti senza macchia e senza paura, come se fossero i detentori e i giudici supremi di quello che si può considerare un comportamento etico e di quello che invece si deve bollare come inaccettabile e immorale. In effetti, è impossibile negarlo: la raccomandazione gode oggi di una pessima fama. Dire che qualcuno è stato raccomandato è quasi come dire che ha rubato il posto che occupa, sottraendolo a qualcun altro più meritevole di lui; che è arrivato dove è arrivato grazie agli intrallazzi, una volta si diceva ai buoni uffici, di qualcuno che ha il potere di candidare chi vuole ad occupare i posti che vuole, in barba al merito, ai concorsi, all’anzianità di servizio, e scavalcando chi ne avrebbe legittimamente diritto. Questo, però, è il significato che la attualmente ha assunto la parola, nel linguaggio comune: bisogna tuttavia osservare che è il contesto culturale a determinare la percezione positiva o negativa di una certa espressione, più che un fattore oggettivo ed ad essa intrinseco. Ciò si vede benissimo nel caso delle ideologie: essere un fascista fiero e tutto d’un pezzo era certo un fattore di merito, nell’Italia degli anni ’30 del secolo scorso; così come essere un intellettuale comunista era motivo di vanto negli anni ’60 e ’70, e chi non lo era, doveva in qualche modo giustificarsi, oppure rassegnarsi a restare in un angolo, a stento tollerato, come si addice a chi non ha capito nulla delle magnifiche sorti e progressive. Oppure, uscendo dall’ambito dell’ideologia, essere dei cittadini acquista un significato generalmente riduttivo, se non vagamente derisorio, se ci si trova in un contesto fortemente rurale, in un piccolo paese dove tutti si conoscono, o in una comunità montana un po’ isolata; mentre è indubbiamente un elemento di vantaggio per chi, in città appunto, cerca un impiego e desidera farsi una posizione. In tal caso, infatti, se nel corso del suo colloquio di lavoro dovesse ammettere di non aver fatto mai altro che l’agricoltore, difficilmente potrebbe aspirare a un incarico, anche modesto, che richieda un minimo di conoscenza e di esperienza della complessa e sofisticata realtà metropolitana. Ora, la parola raccomandazione ha subito anch’essa, a nostro avviso, uno slittamento semantico che l’ha portata a designare qualcosa di negativo, di brutto, di sconveniente; ma non è detto che sia sempre stato così. Anzi, siamo certi che in un tempo non lontano essa indicava qualcosa di socialmente e moralmente più che accettabile, addirittura di utile, non solo per il singolo individuo che eventualmente ne beneficiava, ma anche per la comunità nel suo insieme.

Ma facciamo un passo alla volta. Per prima cosa, andiamo a consultare un buon vocabolario ella lingua italiana, ad esempio quello della Treccani, e vediamo quale definizione dà del sostantivo raccomandazione, derivato del verbo raccomandare. Ciò che balza subito all’occhio, e genera una certa sorpresa, è che i significati, nel linguaggio comune, sono ben tre, e solo il secondo corrisponde a quel che ci aspettavamo; più un quarto che attiene al linguaggio specialistico della giurisprudenza, a sua volta suddiviso in due ambiti: diritto marittimo e diritto internazionale. Limitiamoci dunque a riportare il secondo significato: Intercessione in favore di una persona, soprattutto al fine di ottenerle ciò che le sarebbe difficile conseguire con i mezzi e i meriti propri o per le vie ordinarie. Ebbene, vorremmo far notare che, sino a qualche decennio fa, in moltissimi casi la raccomandazione era uno strumento sociale non solo diffuso, ma utile e benevolo: non serviva a scavalcare qualcun altro, né a creare o inasprire le ingiustizie sociali, ma, al contrario, a contenerle e ad attenuarle. Un bravo ragazzo, figlio di contadini, il quale sapeva accudire benissimo le mucche ma non aveva alcuna esperienza del mondo, e tuttavia possedeva una bella intelligenza, grazie alla parola buona del parroco aveva delle possibilità di avanzamento sociale: poteva venire assunto in qualità di contabile, o amministratore, o sovrintendente presso qualche azienda agricola, e fare il suo tirocinio partendo da un gradino sociale superiore a quello di provenienza: poi, se effettivamente aveva capacità e voglia di lavorare, il resto veniva da sé, per merito suo. Ma se si dimostrava un pigro, un lavativo, così come gli era stata fatta un’apertura di credito, quella fiducia poteva essergli tolta, anche bruscamente: e lo sciocco veniva rispedito da dove era arrivato, senza tanti complimenti, dopo essersi bruciato con le sue stesse mani. In altre parole, la raccomandazione serviva a fargli superare le barriere di classe e i pregiudizio sociali, e a introdurlo, partendo dal livello più modesto, in un ambiente nel quale non avrebbe avuto speranze di farsi strada, se nessuno avesse garantito per lui. Anche nel rapporto fra le vecchie banche, che erano in sostanza delle casse di risparmio, e i loro clienti, le cose andavano a quel modo: vi era una conoscenza diretta fra il direttore e i clienti, e se una persona che aveva fama di onestà aveva bisogno di un prestito, l’impiegato metteva una parola buona presso il direttore, e il prestito veniva accordato con più facilità che ad un perfetto sconosciuto. Stessa cosa per l’accesso agli studi liceali e a quelli universitari: se un giovane si faceva notare per la sua serietà e diligenza, forse il suo datore di lavoro gli avrebbe pagato gli studi, in attesa che il ragazzo, diplomato o laureato, potesse poi sdebitarsi, mettendo su un’attività in proprio con la quale ripagare quanto gi era stato anticipato. E una cosa simile, in un certo senso, accadeva quando le mamme mettevano una parola buona per un certo giovanotto, quale possibile fidanzato, allorché le loro figlie raggiungevano l’età da prendere marito. Allora dicevano loro press’a poco così: «Ti ricordi la mia vecchia amica Rosa, quella che abita in borgo XXX? Ha un figlio, un ragazzo di ventisei anni, molto serio e gran lavoratore, che vorrebbe metter su famiglia e cerca una ragazza, ma non una qualsiasi, bensì una che abbia la sua stessa concezione di vita, che sia seria e senza grilli per la testa. Non lo si vede mai all’osteria, a perder tempo con le carte o davanti alla bottiglia; tutti lo stimano e gli vogliono bene; è anche un bel ragazzo: aspetta, ti faccio vedere la sua foto. Che ne pensi?».

Poi tutto è cambiato: sull’onda del cinema e dello stile di vita americano – anche questi sono effetti della sconfitta del 1945, come i balli sculettanti e la febbre del sabato sera — i ragazzi hanno preteso di cercare da sé il grande amore, non hanno più tollerato intromissioni da parte dei genitori o di nessun altro, e hanno scelto di sposarsi senza tener conto del parere del padre e della madre. La cultura progressista, naturalmente, ha lodato questo nuovo orientamento e si è chiesta come sia stato possibile tollerare tanto a lungo che le cose fossero andate altrimenti. Strano a dirsi, però, è un fatto che le famiglie di prima restavano unite per tutta la vita, mentre poi, e specialmente negli ultimi anni, hanno cominciato a disgregarsi sempre più spesso, e separazioni e divorzi sono diventati quasi la regola, con i figli sballottati di qua e di à a colpi di sentenza del tribunale. Si dirà che l’amore, l’amore passionale, la libertà di scegliersi la persona con cui sposarsi, sono conquiste che valevano quel prezzo. È questione di opinioni. Noi siamo alquanto scettici a proposito dell’amore romantico: sospettiamo che sia un’invenzione degli scrittori e dei poeti e che, in ogni caso, abbia poco a che fare con il matrimonio. Il fatto è che tutte le società tradizionali, caratterizzate da stabilità e coesione, e quasi sempre da una lunga durata, vedevano il matrimonio come un onesto contratto per unire il destino dell’uomo e della donna, per generare dei figli e tenere in piedi l’ossatura fondamentale della società, sulla quale ogni alta istituzione si regge. Solo la società moderna ha privilegiato il fattore emozionale e passionale dell’amore e ha preteso di declinarlo nel matrimonio; alla fine, davanti all’evidenza del suo fallimento, ha rinunciato al matrimonio stesso. Oggi le coppie che si sposano sono una minoranza, e anche fra queste sono poche quelle che riescono a rimanere unite, resistendo vittoriosamente ai molti fattori che le vorrebbero dividere. Si direbbe che la società moderna sia fatta perché tutto duri poco, dai libri agli elettrodomestici, e dalle amicizie ai matrimoni: è la società del consumo, dell’usa e getta, per cui ciò che ha una lunga durata non è visto di buon occhio. Le vecchie case sono un ostacolo da abbattere per edificare nuovi palazzi dai quali si potrà ricavare un maggior profitto, vendendoli o mettendoli in affitto; le vecchie chiese devono essere abbattute o trasformate affinché i nuovi "credenti" si sentano più a loro agio in un edificio che di sacro non ha più nulla e dove tutto parla un linguaggio meramente umano. Lo stesso principio utilitaristico vale per il matrimonio: è meglio che non duri troppo. Come un frigorifero che dura a lungo fa diminuire le vendite degli industriali, così un matrimonio che si ostina a durare, fa diminuire i guadagni degli avvocati divorzisti e tutto il sistema del consumo, che trova maggiori profitti nel vendere le sue merci e i suoi servizi a delle persone singole che non a delle famiglie. Una famiglia di quattro, cinque o sei persone consuma di meno, in proporzione, di un nucleo familiare di due o una sola persona: dall’affitto al vestiario, dal riscaldamento all’automobile, e dalle vacanze alla benzina, meno si è, più ci sono margini di guadagno per i fornitori di beni e di servizi.

Ma ora torniamo alla raccomandazione. Quando il parroco raccomandava un bravo giovane a un datore di lavoro, non violava alcuna norma sociale, anzi offriva una possibilità a chi, senza di essa, sarebbe rimasto confinato nell’ambito del mestiere paterno: il figlio dei contadini sarebbe rimasto per sempre un contadino, un figlio di operai o minatori sarebbe rimasto un operaio o un minatore per tutta la vita, o forse avrebbe dovuto emigrare lontano; anche se intelligente, non avrebbe avuto accesso agli studi superiori e tanto meno all’università, e così sarebbe rimasto confinato all’ambito della sua classe di appartenenza. E questa era la vera ingiustizia, che frustrava la legittima ambizione individuale e condannava la società all’immobilismo e a un conformismo ottuso. Ma se quel ragazzo non frequentava la parrocchia, obietterà qualcuno, il parroco certo non avrebbe speso una buona parola nei suoi confronti: il che è un’ingiustizia. Rispondiamo che si tratta di un’ingiustizia, se giudicata dal punto di vista odierno; ma cinquant’anni fa le cose stavano altrimenti. Prima di tutto perché la stabilità sociale era un valore generalmente condiviso, e il suo presupposto era la conoscenza personale, diretta dei membri del gruppo, di contro alla società liquida e anonima di oggi, dove le persone non si conoscono affatto e forse non si salutano, pur abitando nello stesso condominio e allo stesso pianerottolo; in secondo luogo perché la condivisione dei valori e della concezione generale della vita era essa stessa un valore inestimabile, e se per rafforzarla era necessario tagliare fuori qualche ribelle, qualche sradicato, qualche contestatore, ebbene la società nel suo insieme non solo non ne soffriva, ma indubbiamente se ne avvantaggiava. Come nel caso del matrimonio, prima veniva la considerazione per ciò che torna di beneficio al singolo, ma anche alla comunità; poi, e solamente a certe condizioni, era approvato ciò che risulta vantaggioso per il singolo, ma non per il gruppo al quale egli appartiene, nel quale si muove e grazie al quale può vivere, lavorare e progredire. E come si pensava che fosse immorale che un ragazzo, dopo aver ricevuto tutto dalla sua famiglia, una volta divenuto capace di lavorare e guadagnare, pensasse solo a se steso, e non rivolgesse più alcuna attenzione, né fornisse alcun contributo ai suoi genitori, altrettanto si pensava circa il rapporto fra il singolo individuo e la società nel suo insieme. Esisteva un patto di reciprocità: l’individuo riceveva il necessario finché non diventava autonomo; poi, era giusto che restituisse, almeno in parte, materialmente e moralmente, il beneficio ricevuto, contribuendo alle spese e occupandosi dei genitori anziani o malati. Non che le cose andassero sempre in questo modo, però questa era la regola, e chi non vi si atteneva, incorreva nella disapprovazione sociale. Solo nel corso degli ultimi anni è divenuto normale vivere e pensare in termini esasperatamente individualistici, cioè come se la società fosse composta di monadi isolate, ciascuna delle quali non deve nulla ad alcuno, ma è giusto che pensi unicamente a soddisfare le proprie ambizioni e i propri desideri.

Oggi la società è cambiata, e la raccomandazione è diventata, quasi sempre, un’illecita facilitazione che danneggia, inevitabilmente, qualcun altro, e che contribuisce a collocare nei posti migliori delle persone mediocri. Non si deve però scordare il suo significato originario: mettere una parola buona per qualcuno meritevole, ma sprovvisto di mezzi, non è una cosa riprovevole, semmai il contrario. È un atto di verità e di giustizia, perché consiste nell’aiutare qualcuno che merita di essere aiutato…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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