Cosa c’è di peggio del conflitto? La sua negazione
2 Settembre 2020Un regime in agonia diventa sempre più repressivo
4 Settembre 2020Ancora sul conflitto. Nel precedente articolo ne abbiamo parlato in termini generali, limitandoci ad osservare che esso non solo è necessario, ma può sortire benefici effetti, ovviamente se vi corrisponde un adeguato livello di consapevolezza. Ora è tempo di vedere se e quando esso si presenta come una giusta necessità, che non può essere ulteriormente elusa, pena il determinarsi di un male più grande di quello che esisteva anteriormente ad esso. All’atto pratico, infatti, ma anche sul piano della consapevolezza, la cosa più importante è sapere quando il conflitto è necessario, e dunque a suo modo utile, e quando invece non lo è. Dal punto di vista delle sue manifestazioni e dei suoi scopi, il confitto può essere maligno o liberatorio. È maligno quando una delle due parti, o non di rado entrambe, hanno di mira essenzialmente il male della controparte: si pongono cioè quale obiettivo, magari in maniera subconscia, non tanto il raggiungimento di un obiettivo definito e utile per se stessi, quando quello di infliggere il maggior danno e il maggior dolore possibile all’altro. Questo è particolarmente evidente in certe cause di divorzio, nelle quali la divisione dei beni e l’affidamento dei figli diventano dei meri pretesti per menare sciabolate all’impazzata e infliggere ferite, sino a vederne sprizzare il sangue. Inutile dire che un confitto maligno è sempre e solo distruttivo e, anche se si conclude cin la netta vittoria di chi lo ha intrapreso, non solo non stabilisce le condizioni per una pace futura, ma non reca nemmeno la sperata soddisfazione al vincitore: perché una vittoria di quel tipo ha sempre e comunque un gusto amarissimo, che lascia l’anima più assetata e insoddisfatta di prima. Viceversa, un conflitto è liberatorio quando reca effettivamente sollievo e quando ristabilisce le condizioni per una vita più serena, se non ad entrambe le parti, almeno a una di esse. Notiamo, di passaggio, che non sempre chi scatena materialmente un conflitto è colui che realmente aggredisce; a volte il conflitto viene preparato lungamente e silenziosamente da un’aggressione muta, fatta di silenzi e di tacito disprezzo, per cui, alla fine, quello dei due che perde le staffe e va all’attacco potrebbe anche essere, a ben guardare, colui che ha sopportato di più e che ha subito il torto più grande e adesso, mediante l’attacco vorrebbe in realtà soltanto difendersi, ossia allontanare una minaccia costante e insopportabile gravante sul suo equilibrio esistenziale, sulla stima di se stesso, sulla speranza di un futuro ragionevolmente pacifico e sereno. In ogni caso, se un conflitto è stato utile e necessario, lo si può giudicare soprattutto in base ai risultati: perché se una persona (l’ideale sarebbe entrambi gli attori del conflitto: ma l’ideale non è quasi mai di questo mondo), pur non essendo risultata vincitrice sul piano materiale, ha conquistato però una maggiore consapevolezza di sé, un più elevato livello di autostima, e rimesso in circolazione le sue energie positive, che giacevano intorpidite e come anchilosate, allora si può dire che per lei quel conflitto è stato liberatorio, e quindi valutarlo in senso nettamente positivo. La libertà, la pace e la giusta coscienza di sé hanno un prezzo: nessuno ce le regala, dobbiamo conquistarle e talvolta, per farlo, è necessario combattere duramente.
È chiaro, d’altra parte, che non è cosa utile, né saggia, scatenare un conflitto ad ogni minima occasione, sfruttando anche il più piccolo pretesto per affermare il proprio buon diritto; nella maggior parte dei casi in cui vi è un confitto potenziale, al contrario, è cosa saggia e utile lasciar correre, andare per le perse e accontentarsi di una qualche forma accettabile di compromesso. Esiste ad ogni modo un criterio pressoché infallibile per capire se e quando vi sono valide ragioni per trasformare un conflitto potenziale on uno esplicito, ossia se e quando le tensioni latente richiedono un chiarimento risolutivo — perché questo e non altro è il conflitto: un chiarimento onesto e definitivo di una situazione ambigua, compromissoria e non più tollerabile. Il criterio è questo: valutare se il conflitto che sta per manifestarsi è originato dall’ego, oppure da ragioni etiche. Se è originato dall’ego, sarà certamente un confitto inutile, e molto probabilmente anche distruttivo: perché l’ego brama insaziabilmente qualcosa, a ragione o a torto, e dopo il pasto ha più fame che pria, cioè non giunge mai alla soddisfazione e alla gratificazione, in quanto la persona che ne è dominata crede di risolvere i suoi problemi attraverso lo scontro con gli altri, mentre il disagio giace nelle sue pieghe più profonde, ed è proprio lì che essa non ha i il coraggio di guardare, e dunque per quanto faccia, e contenda, magari con il mondo intero, non riuscirà mai a trovare un reale sollievo all’inquietudine e alla frustrazione che la divorano. Ora, un conflitto innescato dall’ego non ha mai delle motivazione etiche: perciò, se lo abbiamo riconosciuto per quel che realmente è, possiamo trattenerci dall’innescarlo, nella misura in cui ciò dipende da noi, perché qualunque sia la posta in gioco, difficilmente ne sarà valsa la pena, mettendo sulla bilancia il pro e il contro, il guadagno e le perdite. Attenzione: non stiamo dicendo che un confitto generato dall’ego sia sempre e comunque un conflitto sbagliato e moralmente illecito; al contrario, è probabile che in molti casi esso sia perfettamente legittimo, e che come tale verrebbe riconosciuto anche in sede giudiziaria. Eppure, l’ego è sempre un pessimo consigliere. Anche quando ammanta le sue ragioni con la bandiera di qualche nobile causa, a cominciare dalla giustizia, in realtà esso punta alla gratificazione di se stesso: il che è inutile e distruttivo, per le ragioni che abbiamo esposto prima. Poniamo, ad esempio, che io voglia entrare in conflitto con mio padre, per la ragione che ha regalato un’automobile nuova a mio fratello, o perché gli ha regalato la casa dei nonni, senza dare a me niente di niente. Certo, la sua è stata una decisione discutibile, e probabilmente ingiusta: ma quel che mi brucia, anche se mi piace parlare di senso della giustizia offeso, è lo smacco subito dal mio ego. Dunque mio fratello si meritava quel dono più di me? Dunque nostro padre ama lui più di me, e in ogni caso lo ritiene più meritevole d’un riconoscimento? Devo perciò concludere che mio fratello è più amabile e meritevole di me, e che il giudice più naturale in un simile confronto, nostro padre, ha riconosciuto che lui è migliore di me? Ecco l’ego che parte all’attacco: non è disposto a perdonare una simile offesa, non riesce a perdonarla. Come sempre avviene, non sa isolare l’episodio e circoscriverlo nei suoi termini effettivi: non riflette che quel gesto è forse in relazione con una circostanza precisa, ad esempio che mio fratello, durante l’ultima malattia del papà, è stato effettivamente più presente di me, più disponibile, più premuroso. No: l’ego ferito reclama vendetta e si sente svalutato in toto, pensa che il gesto del papà abbia un significato complessivo, totalizzante, e che equivalga a un giudizio di valore su tutta la mia persona e su tutta la mia vita. Il che potrebbe anche non essere vero; ma che importa, all’ego? Lui non vuole ragionare, non vuole riportare un singolo episodio alle sue reali proporzioni: al contrario, lui vuole ingigantire il fatto per poter lamentare un’offesa bruciante, imperdonabile. In effetti, quel che vuole è un pretesto per rompere i ponti con mio padre, e un pretesto che abbia le apparenze di una buona causa, tale che anche gli altri la riconoscerebbero come legittima. Non stiamo dicendo neppure che perdonare il gesto di mio papà sia cosa di per sé facile e naturale, e che una certa sofferenza, una certa amarezza, una certa delusione, non siano sentimenti comprensibili. Stiamo dicendo che una persona matura dovrebbe saper mettere sul piatto della bilancia tutti gli elementi in gioco, a partire dal sentimento che io ho sempre provato per mio padre, ovviamente giudicandolo con onestà e con sincerità, così come quello che lui, fino a quello spiacevole episodio, ha manifestato nei miei confronti. Se si tratta, da ambo le parti, di sentimenti buoni e amorevoli, vale davvero la pena di cancellarli con un tratto di spugna, rompendo i rapporti con mio padre e, magari, rovesciandogli addosso amare parole di rimostranza, che forse mi pentirò di avergli detto quando non ci sarà più, e rifiutare ogni ulteriore contatto, e vivere come se lo avessi ripudiato? Che io sia rimasto male, che sia rimasto contrariato, che mi sia sentito offeso per la decisione del papà, è comprensibile; ma lo è anche il fatto di trasformare questo spiacevole episodio, forse dovuto a una diminuita lucidità intellettuale, forse ai cattivi consigli di una terza persona, in un vero e proprio casus belli? E più in generale: è per questo che si viene al modo? Per litigare, per contendere, per calpestare il quarto Comandamento, alla prima occasione o al primo pretesto? Vale la pena di fari queste domande, ogni tanto; specialmente allorché siamo alle prese con il dubbio se scatenare un conflitto oppure no. Soprattutto quando esso riguarda delle persone a noi care.
Uno scrittore che non pretendeva di certo d’essere anche un filosofo, Robert Michael Ballantyne (Edimburgo, 24 aprile 1825-Roma, 8 febbraio 1894), anzi divenuto famoso, ai suoi tempi, per i suoi romanzi d’avventura rivolti alla gioventù, ha saputo cogliere l’essenza del viaggio della vita e riassumerlo in queste brevi riflessioni, poste a conclusione del suo romanzo più famoso, L’isola di corallo. Avventura nell’Oceano Pacifico, del 1857 (titolo originale: Coral Island. A Tale of the Pacific Ocean; traduzione dall’inglese di Luigina Campione, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1966, p. 316):
Partire è il destino di tutta l’umanità. Il mondo è una scena di continui commiati, e le mani che si stringono oggi nel cordiale saluto, sono destinate fra breve ad unirsi, per l’ultima volta, quando le labbra tremanti pronunciano la parola "Addio". È un pensiero triste; ma dovremmo per questo bandirlo dalla nostra mente? Riflettendo su di esso, non possiamo trarne una lezione degna di essere imparata? Non può, forse, insegnarci a dedicare più frequentemente e attentamente i nostri pensieri a quel luogo, dove ci incontreremo per non lasciarci mai più?
Quante volte in questo mondo partiamo con un semplice "Arrivederci" da persone che non rivedremo mai! Spesso davvero penso, nelle riflessioni sui questo argomento, che se ci rendessimo più pienamente conto della brevità del fugace incontro che abbiamo in questo mondo con molti nostri simili, tenteremmo più seriamente di far loro del bene, di rivolger loro almeno un sorriso amichevole, sia pure di sfuggita (perché il più lungo incontro sulla terra è poco più di una parola o di un’occhiata fuggente), e mostrare che proviamo simpatia per loro nella breve, rapida battaglia della vita, con parole e sguardi e azioni.
È probabile che se riflettessimo che la persona con la quale siamo entrati in conflitto, magari per futili ragioni, per ragioni dettate unicamente dal nostro ego, forse non la rivedremo mai più, perché nessuno è padrone dei suoi giorni e nessuno può sapere cosa la vita riserva a noi e agli altri, saremmo più prudenti nel prende certe decisioni e nell’assumere certi atteggiamenti. Se poi si tratta di nostro padre e nostra madre, questa semplice verità acquista uno spessore ulteriore e una risonanza più profonda: come è possibile romper ei ponti con colui e colei che ci hanno generato, e sia pure per dei motivi che, esaminati alla luce della fredda ragione, potrebbero anche darci un’apparenza di ragione? Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce: questa grande massima di Blaise Pascal dovrebbe sempre essere presenti alla nostra anima, quando stiamo per prendere decisioni irreparabili nella sfera delle nostre relazioni personali.
Diverso è il caso dei conflitti che nascono da uno scontro diretto, esplicito e non mediabile, fra il male e il bene, e nei quali l’ego non ha alcuna parte da svolgere, né alcun ruolo da reclamare; anzi nei quali l’ego, di solito, vorrebbe solo restarsene quieto e in pace, senza assumersi fastidi non necessari e sacrifici o sofferenze che potrebbero risparmiarsi. In tali casi, il nostro parere è che lo scontro diviene non solo utile e necessario, ma assolutamente ineludibile: con quale coscienza potremmo assistere inerti allo spettacolo del male che si scaglia contro l’innocenza, della perfidia che calunnia la virtù, della cupidigia che vuole spogliare il prossimo non solo del superfluo, ma anche del necessario? E perché lo scontro, in tali casi, si debba ritenere del tutto ineludibile, non staremo neppure a spiegarlo: se qualcuno non ha mai provato un salutare sdegno trovandosi davanti a situazioni di quel genere, o almeno un cocente rimorso per non essere intervenuto quando avrebbe potuto e dovuto farlo, non lo potrà mai capire, anche se glie lo spiegassimo in greco o in latino. Attenzione: ciò vale anche nei confronti di noi stessi. L’innocenza aggredita dalla cattiveria, la virtù calunniata dalla perfidia, il necessario sottratto, o minacciato, dall’avidità di qualche prepotente, potrebbero essere anche i nostri: e noi abbiamo il diritto e il dovere di prendere le difese di noi stessi, almeno quanto lo abbiamo di prendere le difese di qualcun un altro. Ama il prossimo tuo come te stesso, dice Gesù; e non dice: più di te stesso, ma: come te stesso. Dunque abbiamo dei doveri anche verso noi stessi, quando si tratta di difendere il bene contro il male. In questo caso, l’ego non c’entra per nulla: la somiglianza fra le due situazioni – un conflitto originato dall’ego e un altro causato dal nostro senso etico – se pure, per caso, vi fosse, sarebbe del tutto esteriore e superficiale. Ma noi, nel silenzio della coscienza, sappiamo bene quale delle due poste è in gioco e anche quale delle due merita di essere difesa a spada tratta. Anche Dio lo sa: e assai meglio di noi…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio