Primo: rivolgere la rabbia nella giusta direzione
22 Agosto 2020L’illusione della conoscenza per esperienza diretta
22 Agosto 2020I giovani forse li hanno appena sentiti nominare, ma negli anni ’70 scalarono la vetta delle classifiche, con oltre 400 milioni di dischi venduti in tutto il mondo: stiamo parlando degli Abba, il più popolare gruppo pop scandinavo e senza dubbio il più famoso al mondo, formato da due uomini e due donne. Ebbene una di queste ultime, Anni-Frid Lyngstad, messa forse un po’ in ombra dalla più estroversa e biondissima collega, ma bella e brava senza dubbio pure lei, aveva un tragico passato alle spalle: era figlia di una "puttana tedesca", il nome che in Norvegia si dava alle ragazze le quali, durante la Seconda guerra mondiale, avevano avuto dei figli dai soldati della Wehrmacht, l’esercito di occupazione del Terzo Reich. Mentre gli altri tre componenti del gruppo erano svedesi, lei era nata in Svezia ma da una madre norvegese single, come oggi si direbbe, rifugiatasi in Svezia proprio per sfuggire alle rappresaglie, essendo stata partecipe del programma eugenetico nazista denominato Lebensborn, che prevedeva una selezione razziale col concorso delle donne norvegesi e dei soldati tedeschi, al fine di sviluppare e migliorare i caratteri dell’individuo nordico. Suo padre era un giovane ufficiale che lei credeva perito in guerra e che solo più di vent’anni dopo, nel 1977, apprese che non era morto.
La Lyngstad può comunque considerarsi fortunata, perché, nata in Svezia e accudita dalla madre e soprattutto dalla nonna, poté vivere un’infanzia normale, a parte l’assenza della figura paterna; ma un destino ben più duro ebbero gli altri bambini nati in Norvegia nel quadro del progetto Lebensborn. Quest’ultimo era in sostanza un parto di Himmler, il capo delle SS, ed era nato fin dal 1935, con l’ambizioso obiettivo di portare la popolazione tedesca a 120 milioni di persone, cioè quasi al raddoppio (evidentemente, non solo Mussolini era convinto che il numero è potenza, idea forse non così peregrina come oggi la si racconta) entro il 1980, cioè nell’arco di quarantacinque anni. Dopo la scoppio della guerra, il progetto ebbe attuazione pratica in molti dei Paesi occupati: Norvegia, Danimarca, Paesi Bassi, Francia, Polonia, Boemia e Moravia, Unione Sovietica, laddove esistevano minoranze tedesche o popolazioni assimilabili al ceppo tedesco. In Norvegia, il Paese ove il progetto ebbe più vasta applicazione, entro il 1945 erano 9.000 i bambini nati al suo interno, e la loro posizione e quella delle loro madri apparve difficilissima dopo la sconfitta dell’Asse e la ridefinizione dei rapporti internazionali, anche sul terreno culturale, psicologico e morale. La Norvegia non voleva saperne di questi suoi figli "illegittimi", e neppure delle donne che li avevano partoriti. Solo una parte di essi risultavano figli di coppie sposate, e nel 1945 la possibilità di un ricongiungimento dei loro genitori risultava alquanto difficile, anche perché molti padri erano in realtà già sposati nel loro Paese d’origine. Ad ogni modo, il governo norvegese varò nel 1945 una legge provvisoria che privava della cittadinanza le donne che durante la guerra o alla fine di essa si erano sposate con un tedesco, e perciò prevedeva che dovessero venir mandate in Germania. Questo odioso provvedimento si comprende meglio inquadrandolo nel clima che si era creato attorno a quei bambini e alle loro mamme: la popolazione li detestava di tutto cuore e avrebbe voluto vederli sparire. Così quei piccoli, che, se la guerra fosse finita con la vittoria della Germania, si sarebbero trovati automaticamente, per diritto di nascita, a far parte di una élite di superuomini ariani, ora invece si trovavano ad essere i paria della nazione, i più disprezzati in assoluto, e l’intera società norvegese si mostrò molto crudele nei loro confronti. Alcuni, i più fortunati, scapparono, come appunto accadde alla piccola Lyngstad; la maggior parte però rimase e non fu possibile trasferirli in Germania, sicché crebbero in istituti sper orfani o per disabili, ove subirono una discriminazione più o meno esplicita, in ogni caso implacabile e costante, e molti di essi svilupparono delle sindromi psichiatriche che produssero in loro dei danni permanenti, condannandoli a una vita estremamente misera e infelice, da disadattati affetti da disturbi di varia gravità, e questo nell’indifferenza o nel compiacimento generale.
È una pagina vergognosa della storia norvegese, della quale non si parla mai e che gran parte dell’opinione pubblica internazionale ignora del tutto, anche perché farla conoscere andrebbe a cozzare frontalmente contro due ormai radicati luoghi comuni: primo, che tutti i Paesi che subirono l’occupazione nazista e che svilupparono una resistenza patriottica contro di essa, incarnano le forze del Bene contro quelle del Male, senza eccezioni né sfumature; secondo, che le società scandinave, compresa quella norvegese, sono il non plus ultra della civiltà e del progresso, un laboratorio riuscitissimo della modernità e un invidiabile modello di sviluppo democratico, nelle quali si è sviluppato l’Uomo Nuovo vagheggiato dagli illuministi (e dagl’illuminati), libero da pregiudizi e condizionamenti irrazionali e tutto proteso verso le magnifiche sorti e progressive, a cominciare dalla realizzata utopia femminista. Come ammettere che novemila donne norvegesi venero trattare come appestate dai loro connazionali e private della più elementare forma di carità cristiana e di umana comprensione? E, peggio ancora, come riconoscere che i loro bambini sono stati vittime di una feroce, implacabile discriminazione, che ha condotto molti di essi alla depressione cronica, al ritardo mentale o alla pazzia e che, di fatto, sono stati implicitamente invitati al suicidio, onde lavare la macchia che la loro stessa esistenza rappresentava per la società? E così, una nuova violenza è stata esercitata su di loro: quella del silenzio ipocrita, che ha fatto sparire il loro dramma e ha lavato la coscienza collettiva da ogni eventuale rimorso per il trattamento che quei bimbi incolpevoli hanno ricevuto.
Abbiamo voluto rievocare questo dramma dimenticato non solo perché le cose deliberatamente nascoste finiscono per imputridire, generando una cattiva coscienza che, a sua volta, è una pessima consigliera nelle scelte di vita, ma anche e soprattutto perché la situazione che si sta delineando in questi ultimi anni richiama, a nostro avviso, ma in termini rovesciati, il triste destino subito, nel complice silenzio dei mass-media, dalle mamme e dai bambini norvegesi, esposti alle conseguenza della sconfitta tedesca nella Seconda guerra mondiale e alla vedetta degli sconfitti divenuti vincitori. Nel caso qualcuno non se ne fosse accorto, anche noi abbiamo vissuto e stiamo vivendo una guerra: la Terza guerra mondiale, combattuta perlopiù a livello economico e finanziario e quindi non percepita come "guerra" dalla maggioranza della popolazione, sebbene una guerra sia. Le aziende fallite, i negozi chiusi, le case da affittare, le serrande abbassate, le fabbriche delocalizzate, le città spopolate, i capitali trasferiti all’estero, i laureati in fuga dal loro Paese, le culle vuote, l’irruzione di milioni di stranieri inassimilabili: tutto questo ci parla non solo di una guerra, ma di una bruciante sconfitta, dell’Italia in primo luogo, ma un po’ di tutta Europa, i cui effetti diverranno sempre più evidenti e più drammatici sul lungo periodo. E mentre la vincitrice provvisoria di questa guerra è proprio la Germania, che ha perso le prime due sul piano militare (e le ha perse per l’incontinenza e il criminale dilettantismo dei suoi politici, mentre avrebbe meritato ampiamente di vincerle sul piano militare, per l’eccellenza dei suoi tecnici e il valore dei suoi soldati), si profila già la sconfitta, anzi la disfatta totale, sul piano morale e culturale, dell’intera Europa, o per dir meglio dell’intero Occidente e della sua civiltà: quella che, ancora cinquant’anni fa, dominava il mondo e si poneva come modello unico e insuperabile a tutti gli altri popoli e alle altre culture. Si tratta anche di un fatto numerico — cos’è mai l’Europa di fronte all’India, alla Cina, che superano entrambe il miliardo d’abitanti, e che continua a veder diminuire la sua popolazione? — ma soprattutto di un fenomeno psicologico e morale. L’Occidente ha introiettato un vero e proprio complesso di colpa, che lo rende inerme di fronte alle pretese, sempre più arroganti, di quei popoli che, prima, dominava, direttamente o indirettamente, mediante il colonialismo, e che in una certa misura domina ancora attraverso il neocolonialismo economico (si veda, in particolare, il caso dei Paesi africani inseriti nel sistema del franco francese; situazione assurda, trattandosi d’una moneta che in Europa ha cessato di esistere con la nascita dell’euro, ma che si spiega col fatto che i francesi, a differenza di noi, hanno capito subito che l’euro è in realtà un marco svalutato, e perciò particolarmente conveniente per i tedeschi). E tuttavia non si tratta solo di questo; non si tratta solo di un senso di colpa che, ad esempio, fa sì che quasi tutti gli europei vedano come "normale", ossia come tacita riparazione per le colpe del colonialismo, il fatto di essere invasi e gradualmente sostituiti in casa propria da milioni d’immigrati africani e asiatici, per la maggior parte di religione islamica e dunque estranei alla loro civiltà e tradizione. Si tratta d’un fenomeno ancor più profondo, più radicale e più difficile da spiegare razionalmente: una sorta di odio di sé, di auto-disprezzo, di auto-denigrazione sistematica, che non riguarda solo la propria società, ma addirittura la propria razza, anche se la stessa parola razza" è stata censurata da decenni, appunto nel timore che potesse venire utilizzata da noi per denigrare o disprezzare gli altri. Nessuno, però, cinquant’anni fa, si sarebbe sognato che potesse andar bene per denigrare e disprezzare noi stessi: e invece è proprio quello che sta accadendo ai nostri dì. Pertanto, se in qualche luogo del mondo accade una strage di occidentali, di bianchi, di cristiani, assolutamente innocenti ed inermi, la cosa viene registrata dai mass-media e, di conseguenza, accolta dall’opinione pubblica, come un evento negativo sì, ma tutto sommato naturale e in fondo inevitabile, come la grandine o i terremoti. Viceversa, se una sola persona di colore, magari un criminale incallito, un assassino della peggiore specie, perde la vita durante l’arresto, ad opera della polizia di un Paese occidentale (e anche se in quella polizia vi sono moltissimi agenti di colore), ecco che tutti i mass media e tutta l’opinione pubblica si scandalizzano, s’indignano, insorgono e reclamano giustizia; ecco che uomini politici nei rispettivi parlamenti, squadre sportive negli stadi e sui campi da calcio, cantanti e personaggi dello spettacolo s’inginocchiano, pretendono un minuto di silenzio, imprecano contro il razzismo dei bianchi e si schierano incondizionatamente a sostegno delle giuste lotte dei popoli di colore contro la prepotenza e la discriminazione operate dai rappresentanti della propria razza, la razza bianca, rotta a ogni nefandezza, perennemente incline alla malvagità.
Chi ha occhi per vedere e una testa per pensare; chi, in particolare, lavora nel mondo della scuola, o della pubblica amministrazione, o delle forze dell’ordine, si sarà certamente accorto del diffondersi d’uno strano, caratteristico fenomeno: lo sfruttamento vittimistico dello status di straniero, o di appartenente a una minoranza protetta, da parte di quanti ne fanno parte, e il suo uso improprio, a mo’ di clava, per intimidire, zittire e opprimere quelli che non vi appartengono, e dunque in primo luogo i cittadini italiani di origine italiana, con entrambi i genitori italiani, colpevoli, evidentemente, della loro pelle bianca, della loro tradizione cristiana, del loro passato coloniale, e mettiamoci dentro pure la colpa di aver sostenuto, se non loro, i loro nonni o bisnonni, Mussolini e di essere stati alleati di Hitler, nonché quella, ancor più esecrabile, di non aver impedito né le leggi razziali del 1938, né le deportazioni del 1943-44, sebbene queste ultime vennero fatte dalla Gestapo e dalle SS, cioè da una forza di occupazione e non dallo Stato italiano. Oggi, se sorge una lite in una pizzeria, o si verifica un conflitto in un’aula scolastica, o scoppia un alterco di strada, a causa d’un banale parcheggio, chi appartiene alle razze un tempo considerate "inferiori" può star certo di avere il sostegno dei giornali, del magistrato e dell’opinione pubblica per il solo fatto di dire che è stato oggetto di insulti razzisti, che ciò sia vero o che non lo sia, e che abbia ragione nel caso specifico di quella lite, oppure abbia torto marcio. Oggi gli arbitri possono decidere d’interrompere una partita di calcio perché quattro sfigati, dalla curva dello stadio, hanno fatto partire un coro razzista; un giudice può condannare un cameriere, o il gestore di un albergo o di un ristorante, sulla base della generica accusa di aver discriminato dei clienti di colore; mentre un delinquente nigeriano o uno spacciatore maghrebino, che oltretutto, al momento dell’arresto, si scaglia contro i poliziotti o i carabinieri, e cerca di ferirli a morte col coltello, può sempre contare sulla massima comprensione del magistrato, il quale terrà nel debito conto il suo "disagio ambientale" e userà con lui il guanto di velluto, mentre per il medesimo reato, o anche per un reato assai grave, un cittadini italiano può star certo che per lui non esistono attenuanti di sorta e che verrà anzi trattato con il pugno di ferro. E se un bambino di colore si rivolge alla maestra, al termine di un normalissimo bisticcio fra compagni di classe, affermando che l’altro lo ha insultato con un termine razzista, può star quasi certo che la maestra provvederà a sgridare il colpevole, prima ancora d’essersi infornata come siamo andate realmente le cose. Lo stesso accade se a un dirigente scolastico si rivolgono i genitori d’un ragazzo islamico, sostenendo che il tal professore ha mostrato disprezzo per le sue usanze religiose: costui subirà probabilmente un provvedimento censorio senza nemmeno essere ascoltato. Tutto questo ci dice una cosa che tende a passare inosservata, anche perché i mass-media sono troppo impegnati a maledire il fascismo di cent’anni fa e l’Olocausto di settanta anni fa: che gli ebrei, oggi, siamo noi…
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