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Il richiamo dell’assoluto e la tentazione del relativo

L’uomo, diceva Nietzsche, è un ponte e non uno scopo: un ponte sospeso fra due abissi. Bellissima e felice intuizione, che qualsiasi cristiano non può che sottoscrivere interamente — a riprova del fatto che in Nietzsche c’è molto più cristianesimo di quanto i nietzschiani sospettino o di quanto sarebbero comunque disposti ad ammettere. L’uomo non è e non può essere uno scopo, perché non è causa di se stesso: egli pertanto può avere uno scopo, anzi deve averlo, ma non essere uno scopo, perché se fosse uno scopo avrebbe in sé il proprio principio motore, mentre egli è creatura, non si è creato da solo, non ha in se stesso la propria origine, ma in qualcosa o piuttosto in Qualcuno che è al di sopra di lui. Per realizzare il proprio scopo, dunque, l’uomo deve percorrere il ponte che è egli stesso, e giungere sulla sponda dell’assoluto, lasciandosi alle spalle quella del relativo. In passato, anche in un passato recente, era consapevole che questo è il suo destino, questa è la sua ragione d’essere al mondo: l’accettava e si sforzava di esserne all’altezza. Poi, una cinquantina d’anni fa, forse qualcosa di più, forse qualcosa di meno, ha incominciato a scordarsene, a ciò condotto da tutto il sistema della cultura, dell’informazione e dello spettacolo. Si è sentito dire e ripetere, infinite volte, che la vita deve essere vissuta hinc et nunc, qui e adesso; che bisogna immergersi nel flusso della vita, aderirvi pienamente, gustarla sino in fondo; che non si deve mai rinunciare a quello che è alla propria portata, perché ciò che viene lasciato è perso per sempre, e chi sacrifica il presente al futuro non vive per davvero, ma è simile a un fantasma allucinato, a un triste essere umbratile che poi si pentirà, ma ormai troppo tardi, di non aver vissuto così come doveva, calandosi nella propria parte sino in fondo. Lo hanno detto e lo dicono frotte di psicologi, di psicanalisti, di sociologi, di scrittori, di poeti, di registi, di tuttologi e pretesi intellettuali e giornalisti più o meno famosi e opinionisti e personaggi del mondo dell’arte, dello spettacolo, dello sport, i quali, chissà perché, messi davanti a un microfono, invece di parlare del loro mondo, delle loro competenze, di quello che conoscono e di quello che sanno fare, s’impancano a maestri di vita e sciorinano con la massima serietà e compunzione la loro sapienza dozzinale e la loro filosofia di riporto. E lo fanno quasi con lo stesso sussiego e la stessa aria oracolare che assumono allorché si mettono, non richiesti, a pontificare di politica, anche se dopo le prime tre parole che escono loro dalle labbra si è già capito perfettamente che non hanno capito nulla, che parlano per dare aria alla bocca, ripetendo la stessa filastrocca che i giornali e i telegiornali mainstream ci rifilano tutti i giorni con implacabile uniformità e monotonia, inginocchiamenti compresi in omaggio a un delinquente americano morto durante l’arresto e assurto nell’immaginario collettivo agli onori d’un santo martire del ventunesimo secolo, ucciso dalla nostra detestabile indifferenza, dal nostro egoismo e dal nostro incorreggibile razzismo di uomini bianchi prepotenti, eterosessuali, odiosamente sani, affetti dalla stessa malattia morale che portò i nostri nonni ad assistere con criminale indifferenza al dramma dei Sei Milioni: la presunzione di essere i rappresentati dell’umanità migliore. Invece è vero il contrario: che siamo i peggiori, i più vili, i più ipocriti, i più abietti, i più meritevoli di ricevere un castigo esemplare. E se gli altri tardano a infliggercelo, come sarebbe giusto, allora è doveroso che provvediamo a ciò noi stessi, mostrando così di avere almeno quel minimo grado di consapevolezza di quanto siamo moralmente spregevoli, di quanto il mondo intero, la storia, la civiltà abbiano orrore di noi e della nostra presenza sulla faccia della terra. Come spiegare, diversamente, il supremo disprezzo, l’odio implacabile che costantemente mostriamo verso noi stessi, verso la nostra società, verso i nostri valori — o meglio, i valori dei nostri nonni, perché noi di valori non ne abbiamo più neanche uno -, verso tutto ciò che richiama anche lontanamente la fierezza e l’orgoglio che animavano i nostri padri nei confronti di se stessi e della missione che ritenevano di dover svolgere, e che li rendeva tenaci e infaticabili, perché la consideravano lo scopo della loro vita e una sorta di debito d’onore nei confronti delle generazioni future, cioè le nostre?

L’uomo moderno, dunque, e specialmente l’uomo contemporaneo, si è scordato di essere un ponte, di avere un compito da svolgere, un lavoro impegnativo da assolvere nei confronti di se stesso, di Dio e degli altri esseri umani; si è totalmente immerso nell’orizzonte dell’immanenza, che è anche l’orizzonte del relativo, e ha perso del tutto di vista l’assoluto e l’eterno, sua vera meta e sua destinazione finale. Vive nel presente come se esistesse solo quello: il che, umanamente parlando, è esatto; ma scoprire che lo è equivale ad avere intrapreso quel cammino di consapevolezza che egli ignora completamente: e non è la stessa cosa aver compreso una verità profonda dopo averla cercata con impegno e sacrificio personale, o averla data per scontata per il solo fatto di aver udito da tutti i pulpiti che la verità è quella. Il percorso di consapevolezza è indispensabile e insostituibile; in questo campo, non esiste una sapienza teorica che sia valida, o meglio, non esiste una sapienza teorica che sia valida di per se stessa: come nel caso del medico o del chirurgo, nulla può sostituire la pratica e l’esperienza che si acquisiscono lavorando sul campo, per quanto buone possano essere le conoscenze imparate dai libri. L’uomo oggi, dunque, vive la sua vita aderendo alla dimensione terrena come se fosse tutto, come se non vi fosse altro; la stessa parola "anima" è scivolata, da gran tempo, fuori dal suo vocabolario, e ne ignora perfino il valore, appunto perché vive interamente proiettato nella dimensione del presente: ricorda poco del passato e dimentica in fretta, e quanto al futuro non se ne dà pensiero, fedele alla filosofia del è meglio un uovo oggi che una gallina domani, come tutti gli ripetono senza tregua. Naturalmente non è felice, per usare un eufemismo: è anzi cronicamente, inguaribilmente ammalato di tristezza, di angoscia, di oscuri sensi di colpa, ai quali reagisce con un sovrappiù di superficialità e faciloneria, di spensieratezza spinta fino all’incoscienza; ma a nulla gli giovano tali strategie, perché la malattia è nel profondo, e il fatto che egli non sappia guardarla in faccia non significa che essa non operi in lui. Il filosofo Émil Cioran parlava della tentazione di esistere: ebbene, la tentazione dell’uomo moderno è appunto quella di esistere soltanto e non di vivere, cioè di esistere unicamente sul piano del relativo, ignorando e mortificando la sua parte essenziale, che è destinata all’eternità perché viene dall’Eterno. Tra vivere ed esistere, l’uomo moderno ha scelto l’esistere, cioè di proiettarsi unicamente nella dimensione del tempo e quindi della durata; nel mondo della quantità, direbbe Guénon. Così facendo egli tradisce se stesso, la sua natura, la sua verità essenziale, e ciò sta alla base dei sensi di colpa che lo tormentano a livello subconscio, e che lo spingono a reagire raddoppiando la frenesia del presente, la febbre di consumare esperienze ed emozioni così come il consumista cronico è posseduta dalla smania compulsiva dello shopping. E come il drogato deve aumentare sempre di più la quantità delle dosi di sostanze stupefacenti, perché l’abuso di esse lo porta fatalmente all’assuefazione, così l’uomo moderno immerso nel presente ha bisogno di un numero e di una varietà sempre maggiore di emozioni: emozioni di qualsiasi tipo, anche e soprattutto banali, superficiali, esteriori, che non lo toccano nel profondo e perciò lo rafforzano nel suo stile esistenziale disordinato ed egoico, proprio come l’alcolista incallito ha bisogno di bere continuamente, anche del vino di pessima qualità, perché tanto non coglie più alcuna differenza fra un vino di qualità e un prodotto enologico scadentissimo, pieno di sostanze additive.

Dal punto di vista religioso, e il cristiano lo sa benissimo, quella d’immergersi nella dimensione dell’immediato è una tentazione antica e pericolosa, anzi, a ben guardare è la tentazione per eccellenza, in quanto accondiscendere ad essa equivale a eliminare la distanza fra il Vangelo e il mondo, abolendo, di fatto, il Vangelo stesso. Ed è proprio qui che si vede quanto di sottilmente e perfidamente diabolico vi è nello spirito nuovo che circola entro la Chiesa specialmente a partire dal disastroso Concilio Vaticano II: con la scusa di annunciare il Vangelo al mondo in maniera sempre più efficace; con la scusa di volersi "sporcare le mani" calandosi nelle situazioni concrete della vita (la famigerata chiesa in uscita dei nostri giorni!), il cristiano moderno, e lo stesso clero cattolico, di fatto hanno abolito la differenza fra la sfera del sacro e quella profana, riducendo tutto il Vangelo a qualcosa di profano, qualcosa che piace al mondo, e comunque non reca disturbo al mondo, perché non ammonisce, non richiama, non rimprovera, anzi s’inchina davanti a tutto ciò che vi è nel mondo, anche davanti al vizio più turpe, e vi si adatta, e lo elogia, e lo blandisce, e lo vezzeggia. E allora ecco i corsi di affettività gay organizzati a cura delle diocesi progressiste (Torino, arcivescovo Nosiglia); ecco le lodi sperticate di Pannella, della Bonino e l’amicizia ostenta per Eugenio Scalfari (Bergoglio) e la celebrazione sfrontata del peccato contro natura in un grande affresco dipinto appositamente nel duomo cittadino (Terni, allora vescovo Paglia) o la negazione che Dio abbia distrutto Sodoma e Gomorra (Galantino, parlando a dei giovani); ecco lo schierarsi in politica al fianco del Partito Democratico (Bassetti a nome della C.E.I., specie per le elezioni regionali in Emilia-Romagna); ecco l’attivismo sfrenato, incontenibile, a favore della tratta di esseri umani dall’Africa in Italia e la campagna di denigrazione sistematica di quanti vi si oppongono, guarda caso in perfetta sintonia di vedute e di strategie con soggetti del tipo di George Soros e Bill Gates, i quali, se non andiamo errati, rappresentano la negazione vivente e arrogante di tutto ciò che Gesù ha insegnato e di tutto ciò che ha fatto nella Sua vita terrena. Ecco la distribuzione del pranzo e della pizza dentro le chiese e le basiliche; ecco la retorica insulsa dei muri da abbattere e dei ponti da gettare; ecco l’ambientalismo d’accatto e gli sproloqui sul clima e perfino sul Sole che minaccia di spegnersi; ecco l’idolatria aperta, sfrontata, con l’introduzione degli idoli diabolici in Vaticano; ecco i vescovi che portano a spalla le statue della Pachamama dentro la Basilica di San Pietro; ecco le danze etniche nel duomo di Napoli, il giorno dell’Assunzione in Cielo di Maria; ecco il prete che fa cantare Bella ciao in chiesa, a conclusione della santa Messa; ecco quell’altro prete che spara sul neonato l’acqua santa del Battesimo, con una pistola ad acqua, con la scusa del distanziamento in tempi di emergenza sanitaria; e i frati e le suore che ballano; e il papa che ride e racconta barzellette nei monasteri di clausura, e fa sganasciare le monache dalle risate; e il papa che non s’inginocchia davanti al Santissimo, che non invita alla penitenza e alla preghiera, ma gioca e scherza con la coroncina del Rosario, se l’appende al lobo dell’orecchio,la lancia in aria e l’afferra al volo. Certo, è un progresso rispetto a padre Turoldo che la gettava in terra, dopo averla spezzata: dalla tragedia siamo passati alla farsa. Tutto questo accade quando l’uomo si scorda di essere un pellegrino destinato all’assoluto. Anche sul fatto del pellegrinaggio terreno, la contro-chiesa conciliare ha fatto, a suo modo, un lavoro egregio, introducendo nell’immaginario dei fedeli l’idea di un perenne peregrinare, in linea col migrazionismo e gli sproloqui su Gesù migrante e Maria meticcia; ha dato a credere che essere chiesa è un camminare insieme, non si sa verso dove, non certo verso Gesù Cristo, dal momento che Dio non è cattolico; e poi, insieme a chi? Agli eretici, agli ebrei, ai pagani, ai peccatori impenitenti? No, la chiesa non è questo: è l’unione dei credenti in Gesù Cristo. E anche la tanto decantata (da Bergoglio) fratellanza umana, non ha nulla a che vedere con la fratellanza cristiana: questa è la fratellanza dei figli di Dio, che si riconoscono fratelli perché si riconoscono figli, mentre l’altra è l’unione massonica degli uomini che vogliono bastare a se stessi e fare a meno di Dio. No: l’uomo è pellegrino, ma non un eterno pellegrino: altrimenti il suo camminare sarebbe un girare in tondo, come gli ubriachi o come una nave cui s’è rotto il timone. È un pellegrino nel senso che cerca, ma alla fine trova: cercate e troverete. È Parola di Dio. Se alla fine non trovasse, tutta la sua ricerca non sarebbe che una beffa, e la sua sete d’infinito resterebbe inappagata. La patria dell’uomo è l’eterno: per questo è venuto al mondo e per questo deve vivere a poi passare per la porta stretta della sofferenza, della vecchiaia, della malattia e della morte.

Ci sono delle sere d’estate, al termine d’una giornata tempestosa, in cui fitte schiere di nuvole si addensano in cielo, mentre un’aria di pensosa, malinconica solennità si sprigiona dalla natura che pare trattenga il fiato, in silenzio. Non si ode un rumore, né il frinire di un grillo, né lo stridio d’una rondine, né uno stormire di fronda; tutto tace, e sulle pendici dei monti scendono lentamente le ombre, mentre una debolissimo chiarore si attarda dietro le cime, formando come un mistico alone sospeso magicamente fra la terra e il cielo. Guardando in alto verso quelle nuvole, si perde il senso della profondità, ci si scorda dello spazio e del tempo neri quali è immersa la vita d’ogni giorno, ci si sente afferrati dal respiro dell’eterno, dove tutto ciò che è secondario ammutolisce e tutto ciò che è superfluo scompare. Resta solamente il cielo, nella sua immensità smisurata, senza confini, sino al lontano cerchio dell’orizzonte. L’anima si sente trasportata in una dimensione diversa da quella di sempre, ove conta solamente l’essenziale. In quei momenti ci si rende conto di quanto l’uomo è piccolo, di quanto è fragile, di quanto è debole la sua capacitò di comprendere, e di quanto è breve la sua vita terrena. È come un salutare richiamo alla sua vera natura e alla sua destinazione finale…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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