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Capire cosa ci manca, primo passo per la rinascita

Nel quieto tramonto di una sera d’estate, quando i rumori dell’uomo si smorzano e svaniscono e comincia a levarsi il frinire dei grilli e lo stormir delle fronde, si accendono le prime luci alle finestre, come lassù, in cielo, le luci senza tempo delle stelle lontane. Nel paesaggio raccolto come un presepe ai piedi delle montagne vicinissime, le cui cime si stagliano nette all’orizzonte là dove il sole s’è coricato, e coi campanili delle chiesette che svettano in cima alle colline, contemplando, come ogni sera, questo meraviglioso colpo d’occhio, che mai non cessa d’incantarci, abbiamo avuto la netta percezione di quale sia il nodo del problema che affligge questa nostra civiltà avviata anch’essa a tramontare, come già tante altre prima di lei. Da ogni casa, dietro ogni balcone promana e s’intuisce un alto livello di tecnologia posta al servizio del benessere materiale: le luci riflesse denotano la presenza della televisione e del computer, le unità esterne quelle dei condizionatori d’aria, le numerose antenne paraboliche sui tetti quella dei canali satellitari per avere il massimo della scelta nei programmi televisivi, dalle emittenti più lontane. Le luci che brillano a intermittenza sulle terrazze rivelano la presenza d’un sistema anti-zanzare, e quelle che si accendono per qualche secondo, lampeggiando, e poi si spengono presso l’uscita dei garage, quella del cancello automatico per il transito delle automobili. Macchine dappertutto: per vedere un film stando comodi sulla poltrona del salotto; per godere l’aria fresca anche nel calore torrido di agosto; per collegarsi in un istante con i social di tutto il mondo; per tener lontane zanzare e altri insetti molesti; per entrare o uscire dal garage senza bisogno di scendere e girare manualmente la chiave nella serratura. Quanta tecnologia, quanta comodità. In compenso queste case appaiono sempre più isolate, sempre più fredde, sempre più silenziose; sono abitate da sempre meno persone, da famiglie sempre meno numerose, anzi da persone che non formano una vera famiglia, se non sulle carte menzognere dei registri di stato civile, poiché equiparano le unioni provvisorie al vero matrimonio, che implica un autentico e irrevocabile progetto di vita.

Fino a qualche anno fa, la sera, i cortili erano pieni di bambini che giocavano, gridavano con le loro vocine squillanti, andavano su e già in bicicletta, correvano qua e là come capretti; adesso, niente, semmai bambini delle famiglie straniere, immigrati che non si danno più neanche il disturbo di vestire secondo l’uso italiano, ma indossano i loro abiti tradizionali islamici, come se fossero a casa loro. Ma nei cortili degli italiani, silenzio; tutt’al più, l’abbaiare insistente e noioso di qualche cane, come inutile sentinella di una fortezza ormai sguarnita e da tempo abbandonata. E se per caso nasce un bambino in una di quelle case, ecco che finestre e terrazzi sono pavesati da enormi nastri azzurri o rosa, lunghissimi, esagerati, come si fa per un evento — quale in effetti è — assolutamente eccezionale; e non solo nella casa dei genitori, ma anche in quelle dei nonni e degli zii. E proprio quella eccezionalità riempie il cuore di tristezza, perché tale non dovrebbe essere: quando i bambini nascevano in numero adeguato, secondo la legge naturale di una società sana e innamorata della vita, non c’erano tutti quei nastri e quei fiocchi, ma uno solo, piccolino, sul vetro d’una finestra. Non ci si vantava di una cosa tanto normale; è pur vero che non si praticava come normale la cosa più brutta che si possa immaginare, la soppressione volontaria dei nascituri: e ciò nelle strutture della sanità pubblica, a spese dell’intero corpo sociale, con tutte le garanzie stabilite per legge, rivendicando un diritto sacrosanto riconosciuto e non più messo in discussione. E tanto peggio per le garanzie dovute al soggetto più debole, il bambino non ancora nato, ma già in attesa di nascere nel ventre di sua madre. In compenso, diritto alla fecondazione artificiale per chi vuole avere figli contro ogni legge di natura, in particolare le coppie omosessuali; e massima tolleranza per chi si spinge anche più in là, aggira le leggi italiane e se ne va all’estero ad acquistare un bambino già prenotato prima della nascita, poi torna in Italia e si fa registrare come genitore: una scappatoia che ormai non si nega a nessuno, purché abbia i soldi per farlo.

Tecnologia; benessere (a dir la verità sempre più rara, in questi ultimi anni) o quantomeno ricerca del benessere; solitudine; una popolazione sempre più vecchia e sempre più concentrata su cose effimere, secondarie; nessuna spiritualità, nessun senso religioso della vita, nessuna preghiera o ringraziamento a Dio. Da quanti anni queste case non ricevono più una cristiana benedizione? È facile dirlo: da otto anni. Otto anni fa è morto il vecchio parroco, che passava per le case dei suoi parrocchiani, una per una, e le benediceva. Ora non c’è più la parrocchia, la canonica è rimasta vuota: ora c’è la cosiddetta unità pastorale, viene un prete da fuori a dir Messa la domenica, poi se ne va, e nessuno pensa più alla benedizione. C’è la benedizione di quartiere, presso l’oratorio di Sant’Anna: una benedizione collettiva, alle persone e non più alle case.; i si fa riguardo a chiedere a un sacerdote che venga a benedire la propria casa: non si sa mai che possa assumere un’aria infastidita, non abbiamo tempo, o ironica, o canzonatoria: ma come, credete ancora a queste cose? Vanno sparendo le benedizioni domestiche come vanno sparendo i sacerdoti esorcisti: del resto, che ci stanno a fare questi ultimi, da quando importanti prelati hanno dichiarato a chiare note che il Diavolo non esiste? Vorrà dire che Gesù Cristo, san Pietro, san Paolo, e poi migliaia di santi uomini di Chiesa, fino a san Giovanni Maria Vianney, san Giovanni Bosco, san Pio da Pietrelcina, hanno preso lucciole per lanterne, si son lasciati suggestionare. Niente esorcismi, niente benedizioni: via la preghiera a san Michele Arcangelo, voluta da papa Leone XIII; in compenso, pellegrinaggi a luoghi più che dubbi, come Medjugorje, dove i veggenti, che continuano a dirsi tali a distanza di trent’anni e più, si costruiscono le ville, celebrano sfarzosi matrimoni per i loro figli, pagando pop star blasfeme, e dove, tra fiumane di pellegrini, aumenta il numero delle persone scomparse, compresi dei sacerdoti, ufficialmente date per disperse e di una sola delle quali è stato ritrovato il cadavere. Non risulta che la gente scompaia andando a Lourdes, o a Fatima; né che suor Bernadette o suor Lucia si siano comprate case e alberghi o abbiano ingaggiato sfrontati artisti trasgressivi per allietare le nozze delle loro nipotine. Quindi, ricapitolando: niente esorcismi perché non c’è il diavolo; niente benedizione alle case, o perché non c’è tempo, o perché non ne vale la pena; niente religiosità sana, e al suo posto devozione imprudente e malriposta verso mistici di dubbia credibilità e luoghi di supposte apparizioni mariane, trasformati in centri di speculazione mistico/turistica. Parrocchie chiuse, chiese in vendita, dottrina in liquidazione, piazza San Pietro ormai desolatamente vuota anche la domenica per l’Angelus; ma guai se il condizionatore d’aria si guasta, o se l’antenna televisiva funziona male, o se il dispositivo antizanzare fa cilecca. Allora sì che bisogna intervenire, bisogna chiamare il tecnico senza perdere nemmeno un minuto: non sia mai che stasera non si possa vedere la millesima puntata dello serial tv preferito, o che si debbano affrontare le terribili zanzare dentro casa. E il clero, muto su tutte queste cose; in compenso, sempre più loquace nei sermoni sui migranti, sul dovere di accoglierli e su quello di preservare la nostra Madre Terra, come dice anche il santo padre Francesco.

Si vanno perendo, e da tempo, anche le tradizioni cattoliche più antiche e radicate. Quella della sepoltura dei morti, per esempio. Molte famiglie scelgono di saltare il rito religioso; ma il buon prete, sempre misericordioso verso tutti (tranne che con gli orribili cattolici "tradizionalisti") non esita a prestar la chiesa perché vi si tenga un rito laico, con le canzoni di De André al posto di quelle della sacra liturgia, e le chiacchiere insulse degli amici dell’esito, tutte giocate sull’emozionalità e sui luoghi comuni più banali, al posto della sana, retta, illuminante omelia ad illustrare la parola di Dio. E sempre meno inumazioni e sempre più cremazioni, così poi i parenti si portano a casa le ceneri del caro estinto, come ai tempi della Grecia e di Roma. Far gettare il corpo d’un defunto nelle fiamme di un forno crematorio è un atto cristiano? È in accordo con la tradizione cattolica, con la dottrina cattolica? È in accordo con la fede nella resurrezione dei morti, che presuppone l’esistenza di un corpo, e sia pure ridotto a poche cellule per effetto del tempo? Un corpo bruciato, senza una croce, senza una Messa, senza una benedizione: è questo la morte, oggi, per i cattolici? E i preti non hanno niente da dire? In compenso, massima prudenza verso pericoli inesistenti, per tutelare la propria vita: mascherina sul viso anche in automobile, anche in bicicletta, anche da soli, all’aria aperta; e gli anziani sono i primi a dare il (cattivo) esempio. Come mai? Se ci tengono tanto a non morire, è perché stimano così poco la vita dopo la morte?

Ricordiamo com’erano i nostri nonni: hanno vissuto cristianamente; mai abbiamo percepito in loro un’esagerata paura di morire; badavano all’essenziale e non alle cose effimere. Sopportavano caldo e freddo, mosche e zanzare; non erano affatto schiavi della televisione, e le sirene del consumismo non facevano alcuna presa su di loro. Non perdevano una Messa, recitavano volentieri il Rosario, onoravano i defunti così come il popolo cristiano ha sempre fatto. Questi discorsi sulla Pachamama che è stanca dell’inquinamento causato dagli uomini, sulla cremazione che è un modo di alleggerire la pressione sulla Madre Terra, semplicemente non li avrebbero capiti e, se fossero usciti dalle labbra di un sacerdote, non diciamo di un vescovo e tanto meno del papa, avrebbero provocato la loro indignazione: perché i nonni erano figli obbedienti Chiesa, ma non sciocchi che mandano giù qualsiasi cosa e ignorano la differenza fra la moneta buona e quella falsa. E i nonni di oggi? Quelli che per tre mesi e più si sono barricati in casa e non hanno voluto vedere i figli, né gli adorati nipotini, né gli amici e le amiche più cari? Quelli che, però, se vien loro il ghiribizzo, decidono di sposarsi a ottant’anni, dopo trenta di convivenza, lei in completo bianco, giacca e pantaloni, com’è accaduto l’altro giorno dalle nostre parti, e ormai sono storie di ordinaria follia. E che, sempre in base allo stesso principio, quello dell’assoluta auto-determinazione di se stessi, se sono stanchi della vita se la tolgono gettandosi dalle scale, sempre a ottant’anni di età e lasciando nella costernazione marito, figli e nipoti? Sono dunque diventati così fragili, così narcisisti, così spaventati, i vecchi dei nostri giorni? La vita non ha insegnato loro nemmeno quel minimo di saggezza che una volta s’imparava sui trent’anni, a cominciare dalla regola numero uno: che c’è un tempo per ogni cosa? Che quel che è comprensibile in un adolescente, in un giovane, non si addice a un settantenne, a un ottantenne? Che forse non è una buona idea, a quell’età, voler gareggiare coi giovani sul terreno della moda, dello sport, del pericolo e buttarsi dall’aereo col paracadute, o arrampicarsi in montagna su una parete di terzo, quarto grado? E che nemmeno è il caso di passare da un amore all’altro, da un letto all’altro, quando sarebbe preferibile pensare ai nipotini e fare testamento? Eppure ne conosciamo, di vecchi e di vecchie di questo tipo: hanno passato gli ottanta, ma ancora vogliono sedurre, coltivano sogni lubrichi, fanno avances sfacciate a persone assai più giovani di loro. Non conoscono la vergogna, non sanno cos’è il pudore; non si arrendono neppure di fronte al buon gusto. Appena rimasti vedovi o vedove cambiano look, si mettono a viaggiare, intraprendono complicati e costosissimi lavori di ristrutturazione della casa, come se dovessero campare almeno altri cent’anni. Hanno scordato anche che c’è un tempo per vivere e un tempo per pensare a morire. Sono gli stessi che, terrorizzato dal Covid, si barricano in casa, respingono le visite, telefonano ai carabinieri per denunciare il vicino che esce senza indossare la mascherina. Ma la vecchiaia non dovrebbe essere il tempo della saggezza e dei buoni esempi, il tempo in cui ci si lascia alle spalle l’effimero e ci s’incammina con dignità verso l’eterno?

Dunque, facciamo due conti. Chi oggi ha compiuto ottant’anni è nato nel 1940 o giù di lì. Quando sono arrivate le tre rivoluzioni, il Concilio, il ’68 e il femminismo, era sui venticinque o poco più. Ha assorbito il peggio delle due peggiori culture: quella marxista e quella consumista. Ha imparato a criticare senza far nulla, a sbeffeggiare senza correre rischi, a denigrare senza esporsi; ad aspettare la pappa pronta da parte del "nemico": i genitori, la scuola, la società borghese. Non che tutti siano diventati così; però ci son passati tutti. I migliori hanno sviluppato gli anticorpi, hanno imparato a pensare e a stare in pochi a difesa del vero, a lottare senza enfasi e a sacrificarsi senza sentirsi eroi. Gli altri, la massa, ha sviluppato sempre più una falsa coscienza che l’ha portata a un vero sdoppiamento del giudizio: una misura per sé, per giustificare tutte le proprie colpe e i propri errori, e una per gli altri, da mettere eternamente sul banco degli accusati. Nessun ripensamento, nessuna autocritica; mai. Contrordine, compagni: e ora marciano dietro le bandiere di Soros e di Bill Gates, di Lagarde e von der Leyen, come allora marciavano dietro quelle di Sartre e di Marcuse, del "Che" Guevara e Ho Chi Minh. Ieri predicavano che la bellezza è nella strada (sulle barricate del Quartiere Latino) e volevano la fantasia al potere, oggi vedono la bellezza nella ‘porta del diavolo’ e vogliono il potere arcobaleno. E si richiudono, la sera, in quelle tristi case, con la tv e il condizionatore, in attesa della morte: senza una preghiera, né una benedizione. Come il terribile Fouché, vorrebbero scrivere sulle porte dei cimiteri: la morte è un sonno eterno. Triste: come triste è stata la loro vita…

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Mike Chai from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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