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Come e perché un territorio diviene un paesaggio?

Come e attraverso quali meccanismi un certo territorio, cioè un insieme di elementi naturali quali la terra, la pianura, le colline, i monti, il fiume, il mare, la laguna, i campi coltivati, i frutteti, i vigneti, i pascoli, il bosco, i fossi e le siepi, le case, il cielo, diventa un paesaggio? Il contadino che ara il suo campo di grano è immerso nella terra, respira gli odori della natura, non ha altro orizzonte che quello e tuttavia non vede il paesaggio: è troppo immerso nel suo lavoro e, inoltre, è troppo abituato a vedere, respirare, percepire quegli elementi, i quali formano, per lui, l’orizzonte della normalità, della quotidianità. Invece la caratteristica del paesaggio è in qualche modo quella di stagliarsi, di staccarsi dallo sfondo della quotidianità e acquistare un valore autonomo, divenendo una realtà a sé stante, pur nel variare degli anni e delle stagioni, perché evidentemente un paesaggio invernale non è la stessa cosa d’un paesaggio estivo, anche se si tratta dello stesso territorio. E come il contadino, così il boscaiolo, il pastore, il pescatore, il cavatore di marmo, per non parlare dell’agrimensore, dell’ingegnere, dell’urbanista, dell’imprenditore, dell’albergatore, del pubblico amministratore: tutti costoro sono costantemente a contatto con un certo territorio, con la sua realtà fisica, ma proprio per questo nessuno di essi coglie il paesaggio, che è una visione d’insieme degli elementi naturali, o artificiali, presenti in una determinata zona, più qualcos’altro. Questo qualcos’altro è di natura intima e affettiva: un paesaggio non è mai percepito da due persone allo stesso identico modo, perché il paesaggio appartiene sostanzialmente alla dimensione inafferrabile della geografia interiore. Si può studiare un territorio, ma non si può studiare un paesaggio: il paesaggio si può solo contemplare. Il territorio è contraddistinto da certe caratteristiche fisiche, chimiche, climatiche e pertanto può essere fedelmente descritto dal geologo, dal chimico, dal climatologo, mentre il paesaggio può essere colto e descritto adeguatamente solo dal pittore, dal poeta o dallo scrittore. Questo ci fa capire qual è la sua caratteristica fondamentale: quella di essere essenzialmente un prodotto della nostra mente, e più precisamente della nostra sensibilità (la sensibilità è una parte della mente, ossia dello strumento conoscitivo che chiamiamo genericamente "mente", e non qualcosa di diverso, tanto meno qualcosa di opposto ad essa). Nel bambino è più sviluppata la sensibilità, nell’adulto, di regola, è più sviluppata la facoltà strettamente razionale: ma sono entrambe espressioni della mente, ed entrambe lavorano a costruire l’immagine della realtà che si fa ogni singolo individuo, nel corso del tempo.

Giungiamo così a determinare alcuni punti fermi. Primo, il paesaggio non è nelle cose esterne, ma appartiene alla nostra percezione della realtà. Secondo, che per poter vedere il paesaggio è necessaria un’attitudine contemplativa, o bisogna che ci siano le condizioni per una contemplazione spassionata, come nel caso del contadino che, finita l’aratura, o la trebbiatura, sosta sul poggio e osserva il luogo ove ha faticato tutto il giorno, ma ora lo guarda con occhio diverso, perché non è più impegnato nel lavoro, con gli occhi bassi al suolo. Terzo, è necessario che quel territorio susciti delle risonanze affettive in colui che lo contempla, siano esse positive o anche negative; ma se quel cero territorio gli è del tutto indifferente, se non gli dice nulla, non lo vedrà come un paesaggio, ma solo prenderà atto dell’esistenza di quei tali elementi fisici, geografici, antropici. Un paesaggio può anche essere brutto, come certe periferie urbane degradate, o inquietante, come quello caratterizzato da una centrale idroelettrica abbandonata, o addirittura sinistro, come un vecchio cimitero in rovina, specie nell’ora solitaria del tramonto, o sotto le raffiche di pioggia portata dal vento autunnale, e tuttavia sarà per noi un vero paesaggio: qualcosa che ci ha colpito nel profondo e che continuerà a vivere nella nostra mente, sotto forma di ricordo, per molto tempo ancora. Più spesso, tuttavia, il paesaggio evoca in noi delle sensazioni piacevoli, o romantiche, o dolcemente malinconiche, massime se legato alla dimensione dell’infanzia, sia come esperienza viva, sia come ricordo filtrato dalla memoria. Un paesaggio è allora un luogo amato, un luogo vissuto, un luogo del cuore, specie se si tratta del paesaggio natio: ce lo porteremo nel cuore anche se le circostanze della vita ci condurranno lontano, e in tal modo esso continuerà a vivere dentro di noi, senza più conoscere i mutamenti del tempo, come invece accade al paesaggio reale che ha determinato la sua formazione nella nostra coscienza. Ecco perché è tanto difficile riconoscere i luoghi dell’infanzia, a distanza di tanti anni (ricordate le scene iniziali del film C’era una volta in America, quando Robert De Niro torna, dopo moltissimi anni, nei posti della sua fanciullezza?): perché i luoghi reali sono cambiati, come del resto accade alle persone che abbiamo conosciuto e amato quando eravamo piccoli, mentre nel nostro ricordo sono rimasti sempre uguali a se stessi, accrescendo anzi il proprio fascino, anno dopo anno, mano a mano che la forza della nostalgia li arricchiva di tutte le note gentili ed imprestava loro tutte le bellezze possibili.

Nel suo interessante volume Geopsiche. L’uomo, il tempo e il clima, il suolo e il paesaggio, Willy Hellpach (1877-1955), che fu, oltre che esponente del Partito Popolare tedesco e presidente del Land del Baden, anche preside dell’Istituto di Psicologia dell’Università di Heidelberg, delinea la seguente genesi del sentimento del paesaggio (in: W. Hellpach, Geopsiche; titolo originale: Geopsyche, Stuttgart, Ferdinand Enke Verlag, 1935; traduzione integrale dal tedesco di Mario Verdesca, Biblioteca di Psicologia e Pedagogia, Roma, Edizioni Paoline/SAIE, 1960, 1973, pp. 209-210):

Quando chiamiamo una porzione di territorio "paesaggio"? Certo, quando la "vediamo"; il cieco non ha paesaggio, esso manca nella sua vita. Ma nemmeno sempre quando la vediamo: il contadino non vede il suo campo, che ara, come paesaggio, e tanto meno l’ingegnere considera come paesaggio l’acqua impetuosa, che deve regolare. La natura diviene per noi paesaggio solamente quando l’accettiamo la cerchiamo senza uno scopo puramente utilitario, come esperienza sensibile concretamente vissuta, quando la lasciamo agire su di noi come IMPRESSIONE. La vista gioca un ruolo di primo piano in questa impressione sensibile, tuttavia non l’esaurisce affatto. Anche le esperienze degli altri sensi concorrono alla formazione dell’impressione paesistica della natura. Suoni e rumori (il canto degli uccelli, lo sciabordio del mare), odori, specialmente quelli piacevoli come il profumo dei prati, l’odore di foglie nell’autunno, l’"odore dell’acqua"; perfino i sensi tattili possono avervi una parte importante: le forme del vento (arietta di maggio, la tempesta sul mare), poi il tepore dell’aria (all’inizio della primavera o nel tardo autunno), la "mollezza" o la sua "rigidezza e in genere tutto ciò che ci è noto come "tono atmosferico", infine la sensazione tratta dal suolo, dalla durezza del terremo roccioso, da un sentimento soffice del bosco, dalla sabbia del deserto, dai ciottoli pietrosi: tutto entra talvolta nella caratteristica esperienza del paesaggio, anche se solo in modo marginale, come elemento concomitante e integrante della CONTEMPLAZIONE della natura. Solamente il senso del gusto non vi partecipa quasi mai o solo di sfuggita e sporadicamente nell’assaggio dell’acqua salsa in mezzo ai marosi. Noi comprendiamo dunque sotto il termine di paesaggio L’IMPRESSIONE SENSIBILE GENERALE, che viene destata nell’uomo da una parte della SUPERFICIE TERRESTRE insieme alla porzione di CIELO che la sovrasta. Che questo tratto di cielo sia un elemento integrante del paesaggio, è fuori discussione; l’azzurro cupo è tanto caratteristico per il paesaggio mediterraneo e spesso per quello di alta montagna, come il cielo azzurro-pallido lo è per il paesaggio nordico, il cielo grigio per il paesaggio olandese e determinati raggruppamento di nuvole per il paesaggio estivo. Ma quanto al cielo vale quanto dicemmo per l’udito e il tatto: esso sta ai margini, ne è un elemento e da solo non forma mai per noi un "paesaggio", così come soltanto una natura guardata può essere un vero paesaggio, ma non una esperienza della natura soltanto uditiva, olfattiva e tattile. Difatti abbiamo una piena esperienza del paesaggio anche con uno stato indifferente del cielo, ad esempio di sera con cielo coperto, esclusivamente dalla vista dalla parte del suolo che abbracciamo con lo sguardo.

Il SUOLO nel paesaggio è l’elemento principale, ma come tale agisce su di noi in un senso completamente diverso da quello che abbiamo considerato prima. È l’IMMAGINE del suolo l’elemento principale del paesaggio, che forma l’oggetto della nostra contemplazione, non la sua NATURA fisica o chimica. L’IMPRESSIONE che la forma del suolo e il suo rivestimento (vegetazione) esercita su di noi, è "paesistica" o per lo meno può essere o divenire paesistica, cioè determinarsi nella forma di una pura esperienza sensibile (la stessa impressione può anche restare o divenire non paesistica, per esempio in considerazioni scientifiche, agricole, idrauliche); potremmo dire: ogni impressione suscitata dalla forma e dal rivestimento del suolo PUÒ ASSUMERE VALORE DI PAESAGGIO…

Con il paesaggio, insomma, noi facciamo qualcosa di simile allo scrittore nell’atto di creare un personaggio: creiamo qualcosa che solo noi vediamo, partendo da elementi reali che esistono fuori di noi, ma rielaborandoli in maniera tale che acquistano un profilo e un significato solamente per noi — almeno in quella data maniera. Perfino due intimi amici o una coppia di sposi, egualmente innamorati del luogo in cui vivono, non colgono in realtà lo stesso paesaggio, anche se lo credono: di fatto, ciascuno dei due coglie un qualcosa che esiste solo per lui, e che in lui soltanto suscita quei precisi ricordi o evoca quelle particolari sensazioni. Questo ci porta alle soglie di una imbarazzante domanda: il paesaggio è accessibile a tutti? Se esso nasce sostanzialmente da un atto della sensibilità, è possibile che delle persone dalla scarsa sensibilità, delle persone superficiali, o perennemente affaccendate nella dimensione materiale dell’esistenza, non lo percepiscono affatto, ma passino tutta la vita in mezzo a dei semplici territori, che non giungono mai a divenire, per loro, dei paesaggi? La risposta è sicuramente affermativa. Il paesaggio non è un dato oggettivo, quindi non esiste per tutti; ci sono persone che non fanno alcuna esperienza del paesaggio, e ciò anche se si trovano a viver nei luoghi più caratteristici o più suggestivi che vi siano al mondo, celebrati dai poeti e vistati da grandi quantità di turisti. Oggi andiamo verso un tipo di società globalizzata nella quale il legame fra le persone e il territorio è sempre più superficiale ed utilitario, sempre più frettoloso e distratto; e, inoltre, nella quale la contemplazione è un lusso che solo pochi riescono a concedersi, strappandolo ai mille impegni della vita quotidiana e liberandosi dalla suggestione delle cose materiali. Chi è abituato a passare le giornate davanti alla televisione o a computer, è predisposto a non vedere più il paesaggio. Esistono corriere gran turismo che portano le comitive da un capo all’altro del continente in cui vivono, attrezzate con la televisione per distrarre i viaggiatori: il fatto che molti di loro preferiscano guardare tre o quattro stupidissimi film di Hollywood invece di guardare fuori dal finestrino e cercar di capire il paesaggio che stanno attraversando, è la prova che nella società contemporanea il paesaggio si accinge a scomparire. M ecco un’altra domanda: il paesaggio scompare solo per noi, che stiamo perdendo la capacità di vederlo, o scompare anche in se stesso, a causa di un utilizzo sempre più efficientistico, pratico e razionale del territorio, che spazza via tutto ciò che non è suscettibile di procurare un guadagno, o di agevolare una linea di trasporti? Il paesaggio può scomparire da sé, nell’era dei non luoghi, come aeroporti internazionali, autostrade che tagliano a campagna in rettilineo, ponti giganteschi, trafori ferroviari e ipermercato estesi come delle piccole città? A nostro giudizio, no. Abbiamo detto che il paesaggio è una creazione interiore: perciò la sua esistenza non dipende dalle circostanze esteriori, ma solo e unicamente dalla presenza di un occhio capace di coglierlo. Se vi è anche un solo individuo dotato di sensibilità ed empatia, anche il territorio più anonimo, o più imbruttito dall’azione umana, diverrò per lui un paesaggio, e vivrà di una vita sottratta alla dimensione del tempo. Il problema è che gli individui cosiffatto stanno sparendo. La globalizzazione non pianifica solo i territori, ma anche le menti delle persone: in un certo senso, stabilisce cosa deve esserci, o non esserci, servendosi di un martellamento incessante da parte dei mass-media, che tendono a sostituirsi ai sensi quali fonti primarie del conoscere. In altre parole, oggi per molte perone la realtà non è quella che indicano la vista, l’udito, l’olfatto, ecc., ma quella che viene mostrata o che viene proclamata dalla televisione. In simili condizioni, può ancora esistere il paesaggio, o esso è destinato a sparire, come sono sparite già tante altre cose, distrutte dal rullo compressore della modernizzazione? Prima di rispondere, teniamo presente che il paesaggio è uno dei fattori che definiscono la nostra identità: è il segno del legame esistente fra noi e il mondo esterno. Se ci trasformeremo in atomi perennemente viaggianti, sradicati, estranei al territorio ove ci troveremo a vivere solo per brevi periodi, perderemo una parte della nostra identità e della nostra stessa umanità. È questo che vogliamo?

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Wallace Chuck from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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