Questo è il tempo dei briganti
1 Agosto 2020
Così è iniziato il declino del cristianesimo
3 Agosto 2020
Questo è il tempo dei briganti
1 Agosto 2020
Così è iniziato il declino del cristianesimo
3 Agosto 2020
Mostra tutto

Ecco dove ci ha portati la cultura del relativismo

Il relativismo è una tendenza filosofica che nega l’esistenza, o la conoscibilità, di una verità assoluta e oggettiva, e ritiene che la conoscenza umana si debba accontentare di verità parziali, o provvisorie, di carattere solamente probabile. Detta così, potrebbe sembrare una posizione tutto sommato ragionevole, ma solo perché vi siamo talmente immersi da non cogliere ciò che vi è in essa di aberrante e, addirittura, di pericoloso. Infatti, la ragione ci è stata data per cogliere il vero e non per fermarci al probabile; e la filosofia, in particolare, se nega la propria vocazione alla verità, nega automaticamente se stessa e si auto-relega fra le cose di modesta importanza, delle quali si può anche fare a meno, perché non hanno attinenza con ciò che è essenziale. Viceversa, i grandi filosofi hanno sempre pensato che la filosofia è uno strumento essenziale per giungere alla verità: non ad una verità qualsiasi, ma alla verità certa, o quantomeno per procedere con fiducia in direzione di essa, anziché in una direzione completamente sbagliata. Quanto al cristianesimo, non dovrebbe esserci neanche bisogno di dire che si basa su una radicale certezza, anche se all’uomo ciò che viene chiesto è un atto di fede in una realtà che, nella condizione terrena di esistenza, è invisibile; ma la fede cristiana è fede nella certezza della verità e non una vaga speranza che le cose siano come insegna la Rivelazione. Gesù Cristo ha detto di Sé: Io sono la via, la verità e la vita; e ancora: Chi ha visto me, ha visto il Padre: e tanto dovrebbe bastare e avanzare per fare piazza pulita di qualsiasi lettura del Vangelo che sostituisca alla certezza e alla verità assoluta data da Cristo una mezza verità, una verità debole, ritagliata su misura per coesistere pacificamente, e molto laicamente, con altre "verità" religiose, filosofiche, scientifiche, anche se queste si pongono in conflitto frontale con l’affermazione di verità assoluta rappresentata, o meglio incarnata, da Cristo. Ed è da questo che si riconoscono la vera natura e le vere intenzioni di teologi come Hans Küng, o di personaggi come Bergoglio e Vincenzo Paglia: relativizzando la verità del cristianesimo, dicendo, ad esempio, che la morte di Cristo è un fatto certo perché storico, mentre la sua Resurrezione è solo probabile, perché è un atto d fede, essi capovolgono la giusta prospettiva cristiana e mettono la verità storica, che è sempre una verità di fatto e quindi limitata e provvisoria, al posto della Verità assoluta, che è Dio, immutabile, perfetto ed eterno.

La cultura del relativismo si diffonde gradualmente in Occidente a partire al tramonto del Medioevo, ossia dal tramonto della civiltà cristiana, e dopo aver aperto delle brecce e rimosso i capisaldi della filosofia perenne e del cristianesimo integrale, che avevano trovato la loro sintesi armoniosa e perfetta nel pensiero di san Tommaso d’Aquino, un po’ alla volta ha finito per dilagare ovunque e per conquistare tutte le posizioni, relegando nella soffitta delle vecchie cose inutili sia la metafisica, sia il vero cristianesimo, e ha sostituito alla prima tutta una varietà di piccole filosofie, dal criticismo allo storicismo all’esistenzialismo allo strutturalismo, e al secondo una versione riveduta, aggiornata e soprattutto mitigata, con abbondanti quantità di dolcificante, trasformandolo in una religione pronto uso, di quelle che si possono trovare in offerta speciale sugli scaffali dei supermercati, come merce in liquidazione perché ormai prossima ad avariarsi. Il primo filosofo moderno a imprimere la svolta in senso relativista è stato Guglielmo di Occam, il quale ha affermato che le verità di fede non sono per nulla evidenti e che la ragione naturale non è in grado d’indagarle, ponendo, con ciò stesso, un dualismo inconciliabile tra fede e ragione. Un altro dualismo lo ha posto, tre secoli dopo, Cartesio: quello fra res cogitans e res extensa, cioè fra spirito e materia, dualismo foriero di conseguenze particolarmente disastrose nel campo della scienza medica. Esso infatti ha creato l’idea, tuttora prevalente, che si possano curare i mali del corpo in maniera del tutto indipendente dalle condizioni spirituali dell’individuo, come se la salute del corpo e quella dello spirito non avessero alcuna relazione reciproca, quasi appartenessero a due soggetti separati e distinti. Poi è venuto Kant, altro campione del relativismo, il quale ha messo fra parentesi tutta la tradizione metafisica, ridicolizzandola e dichiarandola sostanzialmente inutile, e ha detto che oggetto di ricerca della filosofia è il fenomeno, ossia la cosa come appare, e non già il noumeno, la cosa come è nella sua essenza. Ciò significa limitare il campo della filosofia a un teatrino delle apparenze, a uno spettacolo delle ombre cinesi, togliendole il suo scopo fondamentale: indagare il vero, andando alla radice dei fenomeni e all’essenza delle cose. È strano che Kant, tutt’oggi venerato come un grande maestro del pensiero occidentale, non sia presentato agli studenti come il massimo campione del relativismo: è la prova del fatto che il relativismo è penetrato talmente in profondità nel nostro orizzonte intellettuale, che non riusciamo nemmeno a vederne la reale natura e l’effettiva portata, avendo completamente smarrito le ragioni originarie del pensare filosofico. Ma a che scopo dilungarci in questa panoramica? Quasi tutti i pensatori moderni, dopo Cartesio e soprattutto dopo Kant, sono dei relativisti, magari sotto mentite spoglie, come Hegel, che in effetti è il padre di tutti gli storicisti e quindi è un relativista all’ennesima potenza, non essendovi nulla di più lontano dalla metafisica (regno dell’essere) della storia (regno del divenire). Non c’è nulla di più assurdo, dal punto di vista della filosofia classica, nonché del cristianesimo, che identificare lo Spirito Assoluto con la storia, in quanto Idea che prende coscienza della propria infinità: insomma, un Dio che non è, ma che diviene tale nel corso di un’evoluzione dialettica e rigorosamente triadica (perché a Hegel piace moltissimo il numero tre, forse una reminiscenza laica e freudiana della Santissima Trinità).

Ora si tratta di vedere e riconoscere la relazione che esiste fra la cultura del relativismo e l’estrema precarietà della nostra condizione presente, non solo sotto il profilo strettamente filosofico, o religioso, ma in senso complessivo, sociale, politico, economico, sanitario e giuridico. Abbiamo creduto, per almeno tre o quattro secoli, che si potesse archiviare la philosophia perennis, e più recentemente, mezzo secolo fa, col Concilio Vaticano II, che si potesse storicizzare il cristianesimo, svuotandolo progressivamente della trascendenza e quindi riducendolo a ciò che esso è divenuto al presente, una grossa O.N.G. di tipo massonico, senza dover pagare uno scotto nell’ambio della nostra vita e del funzionamento ordinato e soddisfacente della società in cui viviamo, ma ci siamo clamorosamente sbagliati. Una volta che si è messo fra parentesi il concetto della verità e si è aperta così la strada a ogni sorta di verità relativa, non abbiamo considerato che ciò avrebbe eroso tutti i fondamenti del nostro vivere e ci avrebbe spinti, un poco alla volta, nel regno del caos, della paura e dell’incertezza strutturale e permanente. Il prezzo che si paga all’oblio della verità è sprofondare nel regno della confusione, dell’angoscia e del timore. In questo preciso momento, il timore prevalente, e quasi ossessionante, è quello di morire: è stato indotto in noi da una campagna di terrorismo mediatico senza precedenti, che non ha esitato di fronte ad alcuna falsificazione, perfino a mostrarci dei filmati di camion militari carichi di bare, vecchi di sette anni e che si riferivano a una tragedia del mare, spacciandoli per filmati di questi giorni, girati all’esterno di un ospedale del Nord Italia. I maggiori giornali italiani, Repubblica e Corriere della Sera in testa, dedicano nove articoli su dieci delle prime pagine a parlare sempre e solo del Covid-19; masticano e rimasticano cifre di contagiati, di deceduti, di tamponi effettuati, anche se la verità è che non c’è più nessuno in terapia intensiva e che il virus è scomparso. A questo ci ha portati il disinteresse per il concetto del vero: a credere a qualsiasi verità taroccata, a qualsiasi notizia data dalla televisione, senza fare un minimo di discernimento, un minimo di critica delle fonti. E a temere per una vita che non è più vita, ma solo un sopravvivere in condizioni disumane: perché una vita ridotta alla sopravvivenza fra le quattro pareti di casa, per settimane e mesi; e poi ridotta a brevi e guardinghe sortite per effettuare le spese indispensabili, sempre indossando la mascherina, evitando gli amici e i parenti più cari come se fossero la peste, non è più una vita degna di essere vissuta, ma una cosa triste, avvilente, che ci fa regredire al di sotto del livello delle bestie. Perfino le bestie, infatti, per soddisfare le necessità indispensabili, osano avventurarsi là dove sanno che potrebbero trovare in agguato i predatori, per esempio all’abbeverata; eppure non smettono di vivere, non smettono di procreare e di accudire i piccoli, non smettono di cibarsi, non rinunciano a vivere come sempre hanno vissuto, coscienti che vivere è anche accettare dei rischi.

Ogni anno muoiono in Italia 50.000 persone a causa d’infezioni contratte in ospedale, ma di queste nessuno parla; ogni giorno muoiono persone di cancro, perché fumavano troppo, o di cirrosi epatica, perché bevevano, o d’infarto, perché mangiavano cibi fritti nell’olio, e conducevano una vita totalmente sedentaria. Nessuno giornale, però, e nessuna televisione, parlano di queste morti, che sono fisiologiche, come pure di quelle dovute alle normali influenze stagionali, che sommano i loro effetti ad altre patologie preesistenti, specie in soggetti molto anziani: morti che sempre ci sono state e sempre ci saranno, anche se, almeno in teoria, sarebbero evitabili. Se tutte le persone obese si mettessero rigorosamente a dieta; se tutti i fumatori smettessero di fumare, dall’oggi al domani; se tutti gli amanti della bottiglia smettessero di bere e si disintossicassero dall’alcool che hanno assunto nel loro organismo, tre quarti di quelle morti si potrebbero evitare. E tuttavia nessuno si sogna di imporre tali limitazioni per legge, nessuno si sogna di mobilitare le forze dell’ordine per sorvegliare il fumatore, l’etilista o il mangione, affinché impedisca loro di assumere sostanze dannose: ciascuno infatti ha il diritto di gestire la propria vita come ritiene giusto, e anche di andare incontro a gravi malattie, se non è disposto a rinunciare ai suoi vizi riguardo al fumo, alla bottiglia e alla tavola ricca di grassi. È normale: lo Stato non deve intervenire in simili cose. Per la stessa ragione, lo Stato non dovrebbe imporre vaccinazioni massicce alla popolazione, con la motivazione di voler tutelare la salute pubblica; non dovrebbe stabilire che, se un bambino non si sottopone a una decina di vaccinazioni, non ha il diritto a frequentare l’asilo o la scuola. Si sa che ogni vaccinazione comporta una certa dose di rischio, tanto è vero che chi la effettua pretende dai genitori del bambino che firmino una dichiarazione, in cui sollevano anticipatamente i sanitari da qualsiasi responsabilità legale per quanto potrebbe accadere al piccolo. Troppo comodo: la vaccinazione è obbligatoria, però le famiglie devono assumersene la responsabilità come se fossero il frutto di una libera scelta. Del resto, eventuali azioni legali possono essere intraprese solo nei confronti delle autorità sanitarie: le multinazionali farmaceutiche non possono essere chiamate in tribunale per gli effetti disastrosi che possono avere i vaccini da esse prodotti. Già da questo si capisce chi comanda, oggi, nel mondo: perché il potere, disse un filosofo, si riconosce in chi non può essere criticato. Oggi, nel mondo, due sole persone potrebbero decidere che la pandemia è finita: Anthony Fauci e Bill Gates. Il primo è però solo un funzionario, e sia pure di lusso, al servizio di Big Pharma; il secondo rappresenta il potere vero, il potere allo stato puro. Due sole persone, oltretutto due soggetti privati, hanno l’autorità per decidere se il mondo può o non può ritornare a condurre una vita normale: non c’è qualcosa di profondamente sbagliato, in questo? Senza contare che ogni vaccinazione indebolisce il sistema immunitario e quindi, soprattutto negli anziani, diviene essa stessa un fattore di grave rischio per la salute. Le famiglie e le persone, pertanto, non dovrebbero essere sottoposte ad un ricatto di quel genere. Invece accade, e una simile invadenza dello Stato, che poi non agisce per conto proprio ma per conto degli interessi delle multinazionali farmaceutiche, è resa possibile dal virus della paura, che è stato inoculato in dosi massicce nella mente della popolazione, grazie ad un esercito di giornalisti asserviti ai poteri forti, che non svolgono onestamente il loro mestiere, ma puntano esclusivamente a diffondere nel pubblico insicurezza e paura.

Concludendo. Se vogliamo invertire la tendenza in atto, che ci vede sempre più relegati in una condizione di semivita e semimorte, sempre più mortificati nel nostro sano slancio esistenziale, sempre più scoraggiati, avviliti e impauriti da un potere che, con la scusa di proteggere la nostra salute, di fatto di riduce allo stato di larve, senza speranze e senza motivazioni per affrontare i ragionevoli e naturali rischi che comporta qualsiasi esistenza per il fatto stesso di esserci, dobbiamo spezzare il muro del relativismo e far entrare il vento fresco della verità nell’atmosfera chiusa e stantia della nostra rassegnazione e della nostra stanchezza. Quando ci si rassegna a vivere senza la verità, prima o poi si perde anche la voglia di vivere: ed è quello che ci sta accadendo ora, e non per effetto di dinamiche spontanee, ma quale risultato di una vastissima e capillare congiura orchestrata a nostro danno, sia come singoli individui, sia come società e civiltà. C’è chi vuole ridurci in schiavitù, costringerci a lavorare per quattro euro l’ora, senza previdenza, né pensione, senza nessuna tutela, e per questo ha scoperto l’arma più efficace: la paura. Non dobbiamo lasciarci spaventare. La morte fa parte della vita e si muore una volta sola. Vivere nella paura è come morire ogni giorno, ogni minuto, infinite volte. E voi cristiani, dov’è la vostra fede nella vita dopo la morte?

Fonte dell'immagine in evidenza: Francescoch - iStock

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.