
Ciò che stiamo vivendo è un colpo di stato globale?
19 Luglio 2020
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21 Luglio 2020Kierkegaard lo aveva capito, anzi, lo aveva visto. Incredibile, poiché stiamo parlando di un pensatore vissuto intorno alla metà del XIX secolo: quasi due secoli fa. Ma al suo occhio vigile non era sfuggita la grande mutazione antropologica avviata dai processi della modernizzazione: il passaggio da uomini, e naturalmente da cristiani a semplice pubblico; la dissoluzione dell’individuo nella massa, e la configurazione finale della massa in pubblico. Incredibile, perché allora c’erano solo i giornali, le gazzette, come le chiamava lui con disprezzo, mentre oggi ci sono la radio, la televisione, la rete informatica, i telefonini cellulari, le automobili e i treni ad alta velocità, gli aerei a reazione che portano la gente agli antipodi nel volgere di poche ore. Allora c’erano ancora le epidemie ricorrenti, di tifo, di colera, che al massimo il potere cercava di dissimulare, come ancora un secolo dopo, nella Morte a Venezia di Thomas Mann: oggi c’è un potere occulto che mette in circolazione dei virus fabbricati appositamente, e che annuncia o che nega le epidemie, a seconda delle sue convenienze, creando il massimo spavento possibile e il maggior numero di morti, esattamente il contrario di quel che il potere cercava di fare allora: nascondere e limitare i danni. Ai suoi tempi non c’erano il tifo sportivo organizzato, la partita di calcio settimanale, i campionati e le olimpiadi; non c’erano i divi dello spettacolo conosciuti da milioni di persone, i dischi venduti a decine di milioni, i megaconcerti rock, dove le folle vanno in deliquio. Non c’era la scuola obbligatoria di massa, né la cultura dei diritti, né il femminismo, né l’omosessualismo, né il transessualismo, né l’aborto legalizzato, né l’eutanasia più o meno mascherata, né la fecondazione eterologa, né la pratica dell’utero in affitto. Il protestantesimo, come lui denunciava con forza, si era già mondanizzato; però la Chiesa cattolica pareva ancor salda sulle proprie basi e si accingeva a condannare nella maniera più esplicita, col Sillabo di Pio IX, gli errori della modernità. Certo allora Kierkegaard — il quale, luterano sui generis, provava una segreta simpatia per il cattolicesimo – non poteva immaginare cosa sarebbe diventata la Chiesa di Roma: una caricatura di chiesa cattolica che strizza l’occhio a tutti i vizi e a tutti i peccati del mondo, totalmente infeudata alla massoneria, atea nella sostanza e cinica nella forma, tutta presa dalle chiacchiere sulle cose di quaggiù. Ma soprattutto appare sconcertante come egli abbia intravisto una cosa che allora doveva essere semplicemente inconcepibile: che sarebbe arrivato il tempo in cui, grazie alle "gazzette", la gente non avrebbe più creduto come vero quel che è vero, quel che appare in tutta l’evidenza della verità, ma quel che da ogni lato si ripete esser vero, anche nel più stridente contrasto con la realtà. Che gli uomini cioè, sarebbero arrivati al punto di non credere più a se stessi, ma alle "gazzette", e di angosciarsi, rallegrarsi o temere non per delle cose reali, ma per cose immaginarie, create a bella posta per esercitare un controllo su di loro.
Ecco cosa scriveva Kierkegaard sul numero 6 del 23 agosto 1855 (dunque pochi mesi prima della morte) della rivista da lui fondata, finanziata e diretta, per condurre la sua battaglia contro il luteranesimo ufficiale, L’Ora (titolo originale: Öieblikket, traduzione di Antonio Banfi, Roma, Newton & Compton, 1977, pp. 103-104):
La difficoltà sta in ciò che tutta la nostra età è caduta nel più profondo INDIFFERENTISMO, è affatto sena religione e senza la possibilità di avere una religione.
Ciò che trascina in errore è l’uso del nome di cristiano e il fatto che non si fa abbastanza attenzione a ciò che sia propriamente l’indifferentismo e in che cosa consista la forma peggiore dell’indifferentismo.
Con indifferentismo si intende di solito solo il fatto di non avere alcuna religione. Ma nel non aver decisamente, assolutamente alcuna religione c’è già una certa passionalità e questa forma di indifferentismo non è la più pericolosa: si torva del resto anche più raramente.
No, la forma più pericolosa di indifferentismo e anche la più generale è quella di avere una religione determinata, ma di ridurla a vana chiacchiera, in modo che sia possibile aver questa religione senza passione alcuna Questa è la forma più pericolosa di indifferentismo, giacché con tale ombra di religione ci si illude di ripararsi dall’accusa di non aver religione.
La passione, la passionalità è caratteristica di ogni religione. Ogni religione, quindi, particolarmente in tempi di intellettualismo dominante, ha assai pochi seguaci. Invece vi sono mille e mille che prendono un po’ di religione, l’annacquano, lo diluiscono, ed hanno così una religione senza passione (cioè irreligiosa, ossia indifferente), Ciò significa che, con tal sorta di religione, essi sono perfettamente indifferenti e garantiti contro l’accusa di non aver religione.
Questa è la difficoltà contro cui io debbo lottare. Essa è simile alla difficoltà di liberare una barca arenata quando il terreno attorno è così molle che cede ad ogni pressione.
Ciò ch’io ho intorno a me è indifferentismo, indifferentismo del genere più radicale , più estremo, più pericoloso. È questa una società in cui un Apostolo potrebbe dire: «questo è essere cristiani? Questi sono i cristiani? Gente che non solo non ha religione alcuna, ma non si trova neppure nella disposizione di poterla avere!». Una società di cui Socrate potrebbe dire: «essi non sono uomini, hanno perduto la loro umanità nell’esser solo pubblico; non sono più uomini perché sono solo un pubblico».
Essi son tutti un pubblico. Se un’opinione è in sé e per sé vera, essa per la sua umanità non interessa alcuno; ci si interessa solo di quanti partecipano a quell’opinione. Oh, ciò che decide è il numero, è la potenza materiale di un’opinione; i singoli, nel popolo non esistono più: giacché ciascuno non è che pubblico.
Così diventa una specie di voluttà — come la voluttà che ebbero un tempo gli spettatori delle lotte con gli animali — quella di assistere come pubblico a questa lotta: che un solo uomo che ha solamente forza spirituale e nessun’altra, intraprende la lotta per la religione del sacrificio contro la forza gigantesca di questi mille parroci mestieranti che rendono grazie allo Spirito, ma sono piuttosto grati al governo per lo stipendio, per la croce di cavaliere e alla comunità per l’offerta.
E poiché la condizione è questa, in generale, cioè il più radicale indifferentismo, a ciascuno che si sollevi un poco sugli altri, divien facile darsi dell’importanza come se egli avesse della serietà e del carattere.
Questa riflessione di Kierkegaard ci fornisce una preziosa chiave di lettura per comprendere la nostra situazione attuale e soprattutto per rispondere alla domanda su come sia stato possibile che la nostra religione ci si sbriciolasse fra le dita, giorno per giorno, senza che noi ce ne rendessimo conto, se non all’ultimo momento, quando forse è troppo tardi per reagire e per fare qualsiasi cosa che possa riportarla in vita. Molti se la prendono con il compagno Bergoglio, come se il male fosse iniziato con lui; altri se la prendono con tutta la prassi postconciliare, in particolare il falso ecumenismo, le preghiere collettive di Assisi, idoli e stregoni che si producono nei loro numeri all’interno delle chiese; altri ancora risalgono fino al Concilio stesso, e vedono in esso, come recentemente ha fatto monsignor Viganò, l’inizio di una grave rottura con la vera dottrina, e la nascita di una sorta di nuova religione, solo formalmente cattolica, ma in realtà disancorata dal Magistero perenne e tutta protesa a conquistarsi un posto di rispetto nel mondo, particolarmente presso gli ambienti progressisti, marxisti in una prima fase, poi mondialisti e perciò supercapitalisti, ma con le bandierine del migrazionismo e del transessualismo da sventolare come supremo attestato del suo voler stare sempre al passo coi tempi. Se tuttavia si spinge lo sguardo ancora più indietro, si trovano i primi segnali di cedimento della chiesa alle seduzioni del mondo in epoca ben anteriore al Concilio; cedimento senza dubbio agevolato dalla silenziosa e perfida penetrazione di elementi anticattolici nelle file del clero e della stessa gerarchia. Non vi è dubbio che la prima scomunica della massoneria, quella del 1738 di Clemente XII, con la bolla In eminenti apostolatus specula, è stata originata anche dalla necessità di contrastare tale diabolica infiltrazione: ma in questa lotta sotterranea la Chiesa cattolica, poco alla volta, ha avuto la peggio e ha finito per soccombere. Nei posti-chiave del Vaticano II si trovano fior di cardinali e vescovi massoni, come massoni erano gli stessi due papi del Concilio, Giovanni XXIII e Paolo VI. Basti ricordare che la cosiddetta riforma liturgica conciliare, che ha letteralmente stravolto secoli di Tradizione e ha sovvertito il giusto rapporto dell’assemblea con il divino, ponendo al centro non più Cristo, ma l’uomo (tanto vero che alcune chiese costruite allora giunsero al punto di abolire il simbolo della Croce dalle pareti esterne) è stata attuata, con perfida malizia, dal massone Annibale Bugnini, il cui preciso obiettivo era proprio quello di portare i fedeli fuori dal cattolicesimo, però senza che se ne rendessero conto. E così è stato. La scomunica di Clemente XII, comunque, era stata rinnovata dai papi successivi e riaffermata in un documento ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede il 26 novembre 1983, documento ripreso e ribadito, a un anno di distanza, con una dichiarazione di Inconciliabilità tra fede cristiana e massoneria. Allora prefetto della Congregazione era un certo Josef Ratzinger. Ciò non ha tuttavia evitato che la massoneria ecclesiastica si impossessasse del collegio cardinalizio tramite la mafia di San Gallo e ponesse un suo uomo di fiducia, Bergoglio, al posto del dimissionario Benedetto XVI; tanto che essa ha potuto quasi mettere, trionfante, la propria firma in calce all’articolo col quale il cardinale Gianfranco Ravasi, ignorando le scomuniche e tutti gli altri atti ufficiali, si è rivolto mellifluo ai Cari fratelli massoni, sul massonico Sole 24 ore, il 24 febbraio 2016, in piena era bergogliana.
Dunque, Kierkegaard qui ci ricorda una cosa in fondo molto semplice, ma, se ben vi si riflette, sconvolgente: in ogni religione, anche quando essa è al culmine della sua parabola, solo una piccola minoranza dei fedeli accetta interamente, e cerca di calare nella propria vita, ciò che essa chiede. La maggioranza prende da essa quel che le può bastare per non esser del tutto senza Dio, o almeno così pensa; non la prende veramente sul serio, perché prendere sul serio la religione significa accettarla tutta, tutta, senza riserve mentali, senza furberie o stratagemmi, anche quando ciò risulta pesante. Nel caso del cristianesimo, sappiamo bene in cosa consiste il peso maggiore: nello scandalo della Croce, che non solo Cristo ha preso su di sé, ma che chiede a tutti quelli che lo vogliono seguire, di prendere a loro volta. Chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me, dice Gesù, senza mezze misure. Sì, senza mezze misure: perché la dottrina è un fatto di ragione, ma la fede è un fatto di sentimento, di passione, e senza passione non c’è fede, dunque non c’è neppure religione, ma solo vuoto formalismo, il guscio senza la sostanza. Ora, al cristianesimo è accaduta esattamente la stessa cosa. La maggior parte dei cristiani, pur dicendosi tali, ha accettato, del cristianesimo, solo quel tanto che poteva servire loro, o almeno che non li avrebbe ostacolati troppo, il minimo sindacale per non restare soli, al buio. Pertanto, la maggioranza dei cristiani è sempre stata priva di fede: non c’è fede senza passione, né passione senza la Croce. La Croce è scandalo perché contraddice tutto ciò che, umanamente parlando, si può desiderare dalla vita, e ricorda a chi la contempla che stretta è la via, e aspra, per quelli che vogliono seguire Gesù Cristo: anche se il premio finale è grande, incommensurabile. In questa vita, però, il cristiano non avrà che spine: sarà già tanto se verrà tollerato, se verrà sopportato, anche dai congiunti e dagli amici più cari; ma più facilmente verrà respinto anche da essi. Ora, questo era un segreto che rimaneva tale, fino a un certo punto, finché il cristianesimo è stato nella sua fase ascendente. Quando poi, per una serie di circostanze storiche, la cultura dei popoli occidentali è radicalmente mutata, e all’ideale della Croce essi hanno sostituito il vagheggiamento della propria realizzazione, del successo, del piacere, e naturalmente della ricchezza, la sgradevole verità è emersa: che quasi nessuno dei sedicenti cristiani era cristiano davvero — e ciò valeva anche per il clero. Alla fine, credendo di coprire la propria vergogna, ma col pretesto di andare incontro alle pecorelle smarrite, il clero ha deciso di gettare quel poco di pudore che aveva conservato, e di proclamare apertamente che avrebbe smesso di annunciare tutto ciò che, nel Vangelo, può dar luogo a divisioni: un modo ipocrita per dire che non voleva fastidi dal mondo, semmai voleva trovare un modus vivendi con esso, e magari farsi accettare per conservare uno spazio nella società radicalmente atea e materialista. Un clero svuotato di passione, che non annuncia più ciò che nel cristianesimo scalda il cuore: la Croce di Gesù Cristo…
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