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Non si può vivere senza qualcosa che scaldi il cuore

Il recente suicidio di un giovane di ventitré anni che conoscevamo, a conclusione di un breve vita intessuta di angoscia e di rabbia, ci induce a svolgere una riflessione sul profondo malessere che attanaglia gli uomini d’oggi e che ne paralizza le forze naturali, l’amore stesso per la vita, la propria e l’altrui: perché siamo convinti che qui si trova il nodo della crisi complessiva che la nostra civiltà sta attraversando, e che se non riusciremo a sciogliere quel nodo, qualsiasi rimedio che noi o chiunque altro possa immaginare, per quanto giusto in teoria, in pratica non gioverà a nulla e non ci aiuterà a risollevarci d’un solo centimetro dalla prostrazione nella quale siamo caduti. Chiunque abbia a che fare con i giovani, come educatore o come genitore, e chiunque sia dotato d’un sia pur minimo spirito d’osservazione, si sarà accorto che negli ultimi anni, con un ritmo sempre più veloce, qualcosa si è rotto nell’equilibrio interiore delle persone; qualcosa che, bene o male, prima c’era, e consentiva loro di mantenere la giusta rotta nella perigliosa navigazione della vita, sia pure con la nebbia o con le tenebre, o almeno di non scostarsene troppo. Ed è chiaro che questo qualcosa ha a che fare con l’istinto stesso della sopravvivenza, come una bussola magnetica che in qualsiasi circostanza, anche la più avversa, non cessa tuttavia d’indicare il Polo Nord, e il cui ago, anche se viene capovolto e sballottato in cento direzioni, torna poi sempre ad assestarsi nel suo naturale orientamento. Ma la domanda è proprio questa: qual è il naturale orientamento dell’uomo nel mondo? Oggi un grandissimo numero di persone non lo sa più; lo ha scordato o non lo ha mai saputo, specie i più giovani, nati e cresciuti nel pieno del disorientamento morale della nostra società: avanza una generazione d’individui straniti, allucinati, privati perfino del più essenziale istinto di sopravvivenza. Attenzione: non perdiamoci nei meandri della psicologia individuale; sforziamoci di mantenere un profilo ampio nel nostro ragionamento, andando dritti alle cause generali: cioè un profilo filosofico. Nel caso del giovane che si è suicidato, le cause particolari risalgono alla sua infanzia solitaria e infelice, alla mancanza della figura paterna e alla conflittualità esasperata con quella materna, al punto che, togliendosi la vita, forse egli ha voluto punirla, gettandole addosso inestinguibili rimorsi e sensi di colpa: e tuttavia anche in questo caso, come in ogni altro, siamo profondamente convinti che esiste una ragione di gravissimo malessere esistenziale assai più profonda, alla quale le cause particolari forniscono tutt’al più l’occasione per manifestarsi, ma che non va confusa con esse, perché, se per ipotesi meramente fantastica, le si potesse far scomparire con la bacchetta magica, il malessere tuttavia resterebbe, o tornerebbe, non essendo stata affronta la radice delle sue cause ultime. È facile, infatti, scambiare gli effetti per la causa. Per esempio si dice, di una certa persona, che è inquieta, imprevedibile, eternamente insoddisfatta: e si è portati a pensare che l’irrequietezza, l’imprevedibilità, l’eterna insoddisfazione siano le cause del suo malessere. Bisogna invece domandarsi perché quella persona sia irrequieta, imprevedibile e perennemente insoddisfatta: perché ciascuna di queste disposizioni, se sono tratti permanenti del carattere e non elementi temporanei, o intermittenti, si configurano come delle vere e proprie patologie.

Ricordiamo che l’organismo umano tende all’equilibrio, cioè a conservarsi in buona salute: e ciò vale tanto per la sua componente fisica che per quella di natura mentale e spirituale. A meno che subisca traumi o deviazioni, o che sia sottoposto a un regime di vita innaturale, l’organismo è naturalmente sano, o comunque dispone di risorse tali da poter ristabilire la propria salute, se cause accidentali sopraggiungono a comprometterla. In un certo senso, anche se questo pensiero è insolito per la nostra cultura, ad essere anomala è la malattia, non la salute: basti penare a quante decine di organi funzionano perfettamente nel nostro corpo, assicurando il buon funzionamento di tutte le sue complesse funzioni; oppure quanti milioni e miliardi di virus e batteri convivono felicemente con esso, svolgendo anzi una funzione utile, prima che uno solo di questi, per ragioni specifiche, possa diventare un fattore di disturbo e dar luogo ad una patologia. Ne consegue che la salute si preserva adottando un regime di vita che sia il più possibile vicino alla natura: il segreto è quello di non ammalarsi, perché quando si deve combattere per ristabilire la salute, cioè l’equilibrio, si gioca in una posizione sfavorevole e si rischia di non vincere mai.

Ora, tralasciando in questa sede la dimensione fisica e concentrandoci su quella più importante, che è la dimensione mentale e spirituale — perché la mente e lo spirito sono fatti per comandare il corpo, non viceversa — la tipica malattia della modernità è la perdita dell’equilibrio interiore, che può essere determinata da una quantità di fattori e di abitudini sbagliate, tutte però riassumibili in una semplice formula: il prodursi di un vuoto esistenziale. La vita di ciascun essere umano ha bisogno di qualcosa che la riempia e che scaldi il suo cuore; non di qualsiasi cosa, ma di ciò che risponde al suo fine generale e particolare. Il fine generale dell’uomo è realizzare pienamente la propria natura di creatura razionale, morale e sociale, il che vuol dire diventare cosciente, nel senso più alto della parola, della propria realtà. In termini cristiani, la suprema consapevolezza consiste nel riconoscere Dio quale causa prima e fine ultimo di tutte le cose, e dunque nel capire e nel sentire che si vive per cercare Dio, per amarlo, adorarlo, servirlo, e per desiderare di essere eternamente con Lui. Il fine particolare di ciascuna esistenza consiste nel giungere alla medesima consapevolezza, ma seguendo ciascuna la propria strada, realizzando le proprie doti particolari e lasciandosi guidare dalla propria specifica vocazione. Il dramma degli uomini e delle donne moderni è essenzialmente l’oblio del proprio fine, che si manifesta in una serie di comportamenti e stili di vita disordinati, dispersivi, logoranti, sempre più lontani dalla natura, inseguendo il miraggio di una falsa libertà e di una illusoria e aberrante auto-affermazione, perseguita anche a costo di sovvertire le basi stesse della natura. Una donna che vuol divenire mamma a sessant’anni e che, magari, vuole avere il figlio da suo marito, morto dieci o venti anni prima, ma il cui seme era stato conservato nelle apposite "banche"; due donne che vogliono avere un figlio senza il concorso di un atto sessuale con il maschio, e perciò ricorrendo alla fecondazione eterologa; due uomini che vogliono avere, e crescere, un "figlio" e che si servono, com’è successo, del ventre della madre di uno dei due, la quale si è fatta volonterosamente inseminare per poter fare al suo rampollo, e all’amico di lui, o marito che dir si voglia, il regalo della sospirata prole (massima aspirazione di una coppia di omosessuali maschi: poter fare i genitori, ovviamente però senza dover sottostare alle fastidiose leggi di natura, secondo le quali per diventare genitori é necessario il concorso di un uomo e di una donna): sono tutti esempi della dismisura, del vero e proprio ottenebramento delle intelligenze e del senso morale, che inducono tante persone ad inseguire, come fosse un diritto sacrosanto, ciò che in effetti è una sfida sempre più estrema, e sempre più sconcertante, ai limiti posti dalla natura alla realtà dell’essere umano.

Pertanto nell’uomo moderno si è verificato uno squilibrio fra le sue aspettative e i suoi desideri sul piano fisico e biologico, che sono sempre più grandi e che, tendenzialmente, confinano con l’idea di poter sconfiggere la morte, il suo sogno più antico (Eva mangiò il frutto proibito perché il serpente le aveva assicurato che, mangiandolo, lei e Adamo non sarebbero mai morti), e il senso di vuoto interiore provocato dalla caduta di tutte le fedi, di tutte le ideologie, di tutte le speranze, perché la marcia vorticosa del progresso si è risolta, sì, un una serie di avanzate spettacolari, ma anche di disastrosi e repentini fallimenti, che hanno alimentato in lui instabilità, ansia, timore, confusione, spaesamento, solitudine. Da un lato, perciò, egli si sente quasi onnipotente, e concepisce sempre nuovi traguardi tecnologici e sempre nuovi trionfi sulla natura (come se la natura fosse la sua antagonista, e non, come realmente è, la sostanza di cui è fatto sul piano fisico); dall’altro si sente sempre più svuotato, scoraggiato, frustrato, depresso, avendo intravisto che il suo nuovo dio, la scienza, non è in grado di soddisfare la sua aspirazione più grande, quella dell’immortalità, e pertanto deve rassegnarsi a morire, però dopo aver perduto quella filosofia della serena accettazione che era il punto di forza dei suoi avi, fino ad anni relativamente recenti, nelle difficoltà della vita e specialmente nella malattia, nella vecchiaia e, appunto, di fronte alla morte. E lo disarmonia che si è prodotta in lui spinge l’uomo moderno a indugiare in un precario equilibrio, sempre più simile a una paralisi della volontà e a un tedio della vita stessa, sospeso fra i due abissi della superbia sconfinata e dell’avvilimento più completo, come se in fondo al proprio essere sentisse di aver perso il diritto di esistere, diritto invece che i suoi avi sentivano di avere pienamente non per orgoglio, ma perché consci di essere stati chiamati da Dio all’esistenza per svolgere il loro lavoro, e che conferiva ad essi quella tipica sicurezza, quel realismo, quel sano posare i piedi per terra, pur senza assolutizzare nulla di ciò che è impermanente, dunque neanche la terra e la dimensione terrena della nostra vita. Questo, infatti, era il grande segreto, questa era la profonda saggezza dei nostri nonni: amavano la vita, ma l’amavano come essa è, comprese le spine, senza pretendere di cambiarne le leggi essenziali secondo i loro desideri; e al tempo stesso amavano, e anche di più, il pensiero della vita eterna, unito alla coscienza del dovere da compiere e del fatto che anche le sofferenze, se vissute come un’offerta di amore a Dio, diventano elementi d’innalzamento e conferiscono alla vita un valore e un significato più alti.

Al contrario, la tipica fragilità degli uomini moderni nasce in gran parte della non accettazione della sofferenza e della morte, dal rifiuto delle leggi di natura e dalla pretesa di godere una vita senza spine, purgata da ogni sacrificio, necessità o dolore, e nella quale restano solo le gratificazioni, i piaceri, le cose belle, come nei film di Hollywood e nelle frasi dei Baci Perugina. Chi non ha compreso che la sofferenza non è evitabile, non è eliminabile dalla vita, e soprattutto che non è affatto inutile, insensata, beffarda, perché ogni cosa viene da Dio e Dio è infinito Amore e sapiente Provvidenza, non ha capito nulla; ed è proprio questo l’aspetto che maggiormente spiace nella sedicente chiesa cattolica dei nostri giorni, nella catechesi di questi sedicenti vescovi e preti e nelle assurde, blasfeme, inverosimili omelie che da casa Santa Marta il falso papa Bergoglio ci riserva quotidianamente. Una volta, parlando a un pubblico di bambini (doppio scandalo!), lo disse chiaro; e lo disse in particolare a un bambino che era rimasto orfano e gli chiedeva perché Dio aveva permesso che rimanesse senza la mamma: non solo rispose di non saperlo, ma aggiunse, per buona misura, che lui non doveva credere a quelli che dicono di avere la risposta. Mentre una cosa è certa: che il tutto il cristianesimo, partendo dal sacrificio di Gesù sulla Croce, che si rinnova ogni volta nel mistero dell’Eucarestia, è la risposta a quella domanda: la sofferenza esiste per purificare le anime dal loro egoismo e per avvicinarle a Dio, unendole a Lui nella medesima offerta d’amore che il Figlio ha fatto di Sé. E che ci sta a fare un papa, che ci sta a fare un clero, che ci sta a fare una chiesa, se si dimenticano questa verità essenziale, o, peggio ancora, se la negano, la contraddicono, pretendendo di riscrivere il cristianesimo, coi loro argomenti umani, con la loro superbia umana, inducendo le anime a credere che la sofferenza è solo uno sbaglio, un contrattempo, un errore, e che la cosa migliore che si possa fare di fronte ad essa è cercare di schivarla? Questo, del resto, è lo spirito di Amoris laetitia: spirito di errore, di eresia e di diabolica contraffazione della vera dottrina di Cristo. Il quale non ha mai detto: Se la tentazione è più forte di te, cedile, e il Padre sarà ugualmente contento di te e della tua vita; sarà soddisfatto se gli confesserai che non ti riesce di agire diversamente! (cfr. A. L., spec. §§ 304, 305, 308). Ma ha detto, al contrario, con espressioni di una durezza addirittura brutale: Se il tuo occhio ti è di scandalo, cavatelo: meglio per te entrare senza un occhio nel regno dei Cieli, che andare con entrambi gli occhi nella Geenna. E che ha detto anche: Chiunque guarda una donna con desiderio, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore. E ancora: L’uomo non divida ciò che Dio ha unito. E allora chi siete voi, nani, caricature di vescovi e di teologi buonisti e modernisti; chi siete voi per parlare a nome di Gesù con un linguaggio del tutto diverso da quello di Gesù? Che Vangelo è dunque il vostro? Non è sicuramente il Vangelo di Cristo, semmai il contro-vangelo di Satana. Andatevene dunque in perdizione, voi e tutti quelli che vi ascoltano e che mettono in pratica i vostri falsi insegnamenti. Ecco perché le chiese si svuotano; ecco perché le anime si allontano da questo sedicente clero; ed ecco perché ormai, alla benedizione dell’Angelus, in Piazza San Pietro, non si contano che poche decine di persone. Questa è una chiesa che non scalda il cuore, perché non annuncia più la pienezza del Vangelo, che arde come un incendio nei cuori degli uomini. Ma come potrebbe fare diversamente, se il suo stesso cuore non è caldo né freddo, come la chiesa di Laodicea (Ap. 3, 14-17) che Dio vomita dalla sua bocca? Di questo ha bisogno l’uomo per vivere: di qualcosa che gli scaldi il cuore…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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