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I peccati fatti compiere agli altri e il bene non fatto

Sovente, in queste tempi di relativismo morale e di somma confusione dottrinale, ci accade di desiderare un po’ di ristoro, di chiarezza, di verità dottrinale. Allora, con buona pace degli ultimi decenni di furori post-conciliari, torniamo a prendere in mano, non senza nostalgia, i volumetti della Elle Di Ci, che sta per Libreria Dottrina Cristiana, di Torino Leumann, corrispondenti ciascuno a una classe della scuola elementare, intitolati con semplicità Il mio Catechismo e illustrati dal bravo disegnatore Guido Lagna, sui quali, nei primi anni ’60 del secolo scorso, si è costruita la nostra formazione religiosa, in vista della Prima Comunione e della Cresima, che allora si celebravamo assai ravvicinate. Sfogliando il volume dedicato alla quarta classe, e dunque destinato a bambini di nove anni, alla nona lezione, intitolata Gesù Cristo nostro giudice, abbiamo così potuto leggere, o meglio, rileggere queste frasi (pp. 25-26):

Il maestro alla fine dell’anno esamina gli scolari. Quelli che sanno sono promossi. Quelli che non sanno sono bocciati.

La promozione è un premio; la bocciatura è un castigo.

Gesù Cristo giudicherà, ossia esaminerà, tutti gli uomini alla fine del mondo.

Alla morte però, quando l’anima si è separata dal corpo, essa compare davanti a Dio per essere giudicata.

È il GIUDIZIO PARTICOLARE perché fatto ad ognuno di noi.

Come la luce del sole entrando in una stanza fa vedere la polvere anche più piccola, così la luce di Dio metterà in vista i pensieri, i desideri, le parole e le azioni dell’anima nostra quando era ancora col corpo.

Passeranno davanti a noi anche i peccati fatti commettere ad altri, il bene che potevamo fare ed abbiamo omesso o tralasciato di fare.

Dopo questo il Signore pronuncerà la sua sentenza che ci destinerà al premio o al castigo.

Questo incontro con Dio verrà in mente negli ultimi momenti della vita. Ma come gli scolari diligenti sono tranquilli davanti agli esami, così i buoni muoiono tranquilli, perché non temono il giudizio di Dio.

I cattivi invece muoiono pieni di spavento e di rimorso, perché sanno di essere nemici di Dio, al cui sguardo non potranno nascondere le loro mancanze.

Certo un catechista dei nostri giorni, cresciuto in pieno clima post-conciliare e magari conquistato dalla catechesi di Bergoglio, Paglia e Zuppi, così aperta e inclusiva, così spigliata e anticonformista, sorriderà davanti a queste parole e si domanderà come sia stato possibile che intere generazioni di fedeli abbiano appreso in questo modo la dottrina cattolica. Per loro, infatti, anche se a parole lo negano, il cristianesimo comincia ad esistere nel 1962, con l’apertura del Concilio Vaticano II, dopo di che il cantiere è rimasto aperto e disponibile a continue migliorie e innovazioni, e non verrà mai chiuso, perché la dottrina è una cosa per le persone rigide, e la sola dottrina buona è quella che non viene mai definita una volta per tutte, ma resta perennemente in fase di arricchimento e perfezionamento, e soprattutto disposta ad accogliere e abbracciare chiunque, anche coloro che la avversano, che la disprezzano, che la negano e che la rifiutano; semmai bisognerebbe cacciar fuori i "rigidi" che non sono d’accordo con tanta accoglienza e tanta inclusione. Inoltre, il linguaggio del catechismo di allora, basato sullo schema di san Pio X, oggi risulta pressoché incomprensibile a causa dello slittamento complessivo della società italiana in senso progressista, modernista, permissivo e libertino. Ora che non c’è più uno Stato confessionale, ma laico, anzi furiosamente laicista; ora che la scuola non è più selettiva, perché, come don Milani ha insegnato e gridato dai tetti, era ora che le professoresse brutte e cattive la smettessero di bocciare gli alunni somari, una frase come questa: Il maestro alla fine dell’anno esamina gli scolari: quelli che sanno sono promossi, quelli che non sanno sono bocciati, che allora era di una evidenza lapalissiana, oggi appare semplicemente incongrua, così come la similitudine con il giudizio divino: Gesù Cristo giudicherà, ossia esaminerà, tutti gli uomini alla fine del mondo: il Signore pronuncerà la sua sentenza che ci destinerà al premio o al castigo. I teologi modernisti, i vari don Bruno Forte, gli Enzo Bianchi, non parliamo poi dei Vito Mancuso, si agiteranno sulle sedie udendo un simile linguaggio, e giustamente indignati insorgeranno: E che! Forse Gesù Cristo è venuto per giudicare? Ma se perfino papa Francesco – che è semmai qualcosa di più, non certo qualcosa di meno di Gesù Cristo – ha detto davanti alle telecamere: Chi sono io per giudicare? No, no: Gesù non è venuto per giudicare, il cattolicesimo non giudica nessuno, la Chiesa è la casa di tutti, spalancata a chiunque, ove tutti hanno il diritto di sentirsi a proprio agio, ciascuno con la sua fede religiosa, il suo codice morale, la sua coscienza soggettiva: siamo tutti una grande famiglia, santi e peccatori, buoni e cattivi, tutti uguali davanti a Dio, tutti speciali, tutti eccezionali così come siamo. Perché questo è ciò che dice il contro-clero bergogliano: tutti noi abbiamo il diritto di essere, di restare e di venire accettati dagli altri così come siamo, deviazioni, perversioni e aberrazioni comprese: come sostiene quel tale gesuita spagnolo, all’anagrafe José Maria Rodriguez Olaizola – ma chi l’abbia consacrato sacerdote non è dato sapere, certo non lo Spirito Santo – il quale sul sito ufficiale dell’Ordine di San’Ignazio di Loyola scrive testualmente:

Un giorno il Gay Pride o qualsiasi altro [giorno dell’] orgoglio non saranno necessari. Il giorno in cui ognuno riconoscerà la dignità delle persone, di ogni persona, senza che l’orientamento sessuale sia un problema per nessuno. Il giorno in cui il "coming out" non sarà una novità, perché sarà considerato normale. Sono ancora troppe le persone che credono che avere un figlio gay sia una tragedia, un imbarazzo, qualcosa da nascondere. (…) E ancora, nella Chiesa, c’è troppo silenzio di fronte ad alcune dichiarazioni e formulazioni che non rispondono alla realtà pastorale delle nostre comunità, parrocchie, gruppi e spazi di accompagnamento.

Ne deduciamo che se uno nasce con l’attrazione per i bambini, allora va bene anche la pedofilia: Dio lo vuole così com’è, e soprattutto ha il diritto a essere rispettato nella sua speciale inclinazione. Di qui alle tesi estreme, aberranti e ripugnanti, del tristemente noto teorico dell’ideologia gender, Mario Mieli, quello che invocava la libertà per gli adulti di svezzare al sesso i bambini, e che poi è morto suicida a trent’anni infilando la testa nel forno di casa, da tanto bella e felice che era la sua vita (1), non ci pare vi sia una distanza incolmabile, tutt’altro; ma ciò sia detto solo en passant. Tuttavia, il passaggio più duro da mandar giù del "vecchio" catechismo (in realtà il catechismo è sempre quello e non cambia, né potrebbe mai cambiare: ma andate un po’ a spiegarlo ai teologi, ai preti e ai vescovi progressisti e "di strada", della sedicente "chiesa in uscita"), per un catechista dei nostri giorni, è senza dubbio questo: Passeranno davanti a noi anche i peccati fatti commettere ad altri, il bene che potevamo fare ed abbiamo omesso o tralasciato di fare. Già per loro è quanto mai duro da digerire il concetto stesso di peccato, divenuto pressoché indigesto ai sensibilissimi orecchi di tutti questi signori eredi del Vaticano II, per i quali la Chiesa nasce, o rinasce, nel 1962, dopo quasi duemila anni di torpido sonno, superstizione e intolleranza; preferirebbero che si parlasse non già di peccato, ma di umana e comprensibile fragilità, concetto totalmente laico e totalmente svuotato della dimensione soprannaturale. Così del resto insegna il massone e bestemmiatore argentino, il quale in Amoris laetitia si è spinto a fare l’apologia dell’adulterio permanente e legalizzato, buttando nel cesso diciannove secoli di morale cattolica, a cominciare dall’insegnamento diretto ed esplicito di Gesù Cristo: Se il tuo occhio ti dà scandalo, strappatelo; se il la tua mano o il tuo piede ti danno scandalo, tagliateli: è meglio per te entrare orbo, monco o zoppo nel regno dei cieli, che con entrambi gli occhi, le mani e i piedi andare all’inferno. Più chiaro di così Ma prendere per buona l’idea che saremo chiamati a rendere conto non solo del bene e del male che abbiamo fatto, ma anche del male che abbiamo spinto altri a compiere, nonché di quel bene che era alla nostra portata, ma che ci siamo rifiutati di fare, per egoismo e amore del quieto vivere: questi sì che sono concetti davvero ostici, coi quali c’è da restare strozzati come quando involontariamente s’inghiotte, nel più bello d’un pranzo con gli amici, una maledetta spina di pesce.

Dunque: del bene che potremmo fare, ma non facciamo, c’è poco da dire: la cosa è di una tale evidenza che parla da sé. Perché non lo facciamo? Perché non pensiamo che sia affar nostro. Quando abbiamo badato ai fatti nostri, quando ci siamo comportati in maniera corretta nelle situazioni ordinarie, ci sembra di essere già più che a posto. A che pro caricarsi sulle spalle ulteriori pesi, che non sono strettamente necessari? Ciò la dice lunga sul nostro modo d’intendere il bene: per metterci in un’altra prospettiva, dovremmo essere delle persone diverse: dovremmo rinascere. Il concetto cristiano della conversione è tutto qui: convertirsi significa mutare radicalmente prospettiva di vita, cambiare il proprio cuore di pietra in un cuore di carne, capace di sentire (cfr. Ezechiele, 36, 26-27). L’altro aspetto della condotta morale, il male che non facciamo direttamente, ma che spingiamo gli altri a fare, richiede un discorso più preciso riguardo alla cultura narcisista e liberale nella quale siamo immersi. Il narcisismo ci spinge a cercar sempre e comunque la soddisfazione del nostro io, quindi a servirci del prossimo come di un mezzo per gratificarci; il liberalismo ci induce a pensare di avere ogni sorta di diritti e che qualsiasi cosa facciamo, purché non vada contro un certo articolo del codice penale o civile, è perfettamente lecita. Di conseguenza siamo sollecitati a indurre il prossimo in tentazione, al solo scopo di vederlo accendersi di passione secondo i capricci della nostra volontà; e questo vale specialmente per le donne. Tutte quelle, e ormai sono forse la maggioranza, che fin da giovanissime, e poi fino alla vecchiaia, adottano ogni strategia per eccitare il prossimo, spingono gli uomini a peccare con il pensiero, e le alte donne a peccare col desiderio di emularle: sono al tempo stesso fonte di sollecitazione dei bassi istinti e pessime maestre per le donne più giovani e meno esperte. Ma naturalmente anche un uomo può essere un cattivo maestro e può indurre in tentazione gli altri, al solo scopo di gratificare il proprio narcisismo; e ciò non solo nella sfera sessuale, ma anche in quella professionale o in qualsiasi altra circostanza della vita. Chi dà scandalo in pubblico, pecca due volte: perché offende Dio e perché spinge gli altri sulla via del male. Purtroppo la natura umana, dopo la Caduta, è fatta in maniera tale da essere più sensibile ai cattivi esempi che ai buoni; un giovane segue più volentieri un gruppo di amici che ostentano comportamenti trasgressivi, incoscienti, pericolosi, piuttosto che prendere a modello una persona che segue la via del bene. Quindi chi agisce male in presenza degli altri, porta anche una parte della responsabilità del loro eventuale traviamento. Poiché esiste il libero arbitrio, ciascuno dovrà rispondere per se stesso; ma poiché esiste anche la possibilità di esercitare un’influenza sugli altri, chi usa male tale capacità, magari sfruttando il vantaggio dell’età o della posizione sociale, dovrà rendere conto anche di questo. Chi abusa di un bambino porta su di sé una responsabilità enorme, non solo per il male fatto direttamente, ma anche per quello che, crescendo, quel bambino farà a sua volta: e la responsabilità diventa schiacciante se ad abusare è un educatore o, Dio non voglia, un consacrato. Tale infatti è la perversa spirale del peccato, che si propaga senza fine. I preti e i teologi odierni, buonisti e misericordisti, non parlano più di queste cose, anzi s’infastidiscono se qualcuno lo fa. Ebbene sono anch’essi cattivi, anzi pessimi maestri, e dovranno rendere conto dei loro silenzi.

(1) La voce di Wikipedia a lui dedicata, scritta evidentemente da un suo sviscerato ammiratore, precisa che tra i motivi del suo gesto estremo fu l’ostruzionismo che il padre, influente industriale milanese, aveva fatto per impedire la pubblicazione della sua opera, "Il risveglio dei faraoni", ritenendolo troppo autobiografico e lesivo dell’onore famigliare. Tuttavia, se l’ostruzionismo del genitore è motivo di suicidio per un figlio di trent’anni suonati, ci sembra che l’equilibrio psichico e morale di quest’ultimo doveva essere ben fragile. Da che mondo è mondo, i figli vanno per la loro strada e, se hanno delle idee e credono veramente in esse, non si arrendono perché il babbo non è d’accordo con loro, o perché non gli piace che i panni sporchi di casa vengano messi in piazza nella maniera peggiore. Poveri babbi retrivi e autoritari, i quali nella prospettiva della cultura antagonista servono solo a prendersi tutta la colpa delle frustrazioni e dei fallimenti dei figli ribelli e velleitari…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi. Fondatore e Filosofo di riferimento del Comitato Liberi in Veritate.
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