Ora si vede chi ha la una coscienza, e chi no
13 Luglio 2020È solo una questione di coscienza
15 Luglio 2020Quali sono le cose che rendono bella e amabile la vita? Se lo chiedono in molti, ora che tutto pare divenuto incerto, precario; ora che un decreto del governo può sequestrare in casa per dei mesi le famiglie, e costringerle a vivere giorno dopo giorno in un appartamento di ottanta metri quadrati, pena salatissime multe ai trasgressori; ora che la televisione non smette un momento di terrorizzare le persone con statistiche di contagiati, di morti, di guariti, con discorsi apocalittici di sedicenti esperti, perfino con pubblicità pubbliche e private che esortano tutti quanti a starsene chiusi in casa, a godersi la vita in casa, sapendo benissimo che la vita, in tali condizioni, rischia di diventare un vero inferno, specie se già esistevano tensioni o disagi a livello familiare, e in ogni caso è un gravissimo attentato all’equilibrio psicologico ed emotivo delle persone. Non tutti hanno la forza d’animo di rifugiarsi tra le pagine di sant’Agostino o san Tommaso d’Aquino; non tutti riescono a fare a meno della televisione, unica compagna della loro solitudine; e non tutti possiedono una fede così salda da guardare alla cose della vita, e anche all’appuntamento finale della morte, con il necessario distacco e con spirito di serena accettazione della volontà di Dio. Privati del conforto di una sia pur minima passeggiata all’aria aperta; di un programma televisivo intelligente, o almeno rasserenante; della compagnia degli amici e dei parenti, magari degli amati nipotini, e caricati di sensi di colpa perché ciascuno potrebbe divenire veicolo di contagio per il prossimo; bombardati da messaggi funesti, da previsioni infauste, da scenari futuri da incubo; impossibilitati a procurarsi un po’ di distrazione o di sollievo; trattati alla stregua di delinquenti dalle forze dell’ordine, se sorpresi per la strada senza un valido motivo (!); angosciati per il papà o la mamma ricoverati in ospedale, o semplicemente in casa di riposo, dove però è divenuto pressoché impossibile vederli; abbandonati dal proprio medico del servizio sanitario pubblico, che si rifiuta di ricevere i pazienti e pretende di espletare il suo lavoro semplicemente facendosi descrivere i sintomi della malattie per telefono, e sempre per telefono prescrivendo le terapie; abbandonati anche dal parroco, che già da annui non veniva più a benedire la casa, e che ora, dopo tre mesi di sospensione della santa Messa, Pasqua compresa, si rifiuta di distribuire la Comunione ai fedeli se non dandola loro sulla mano, cosa che ripugna a molti di essi e che contrasta con il loro sentire più profondo; abbandonati, infine, dalla scuola, dai servizi sociali, dagli amministratori pubblici, i quali hanno tutti ripiegato su una sorta di servizio alternativo per via informatica, lasciando le persone sempre più sole e sempre più immerse nell’angoscia e nell’insicurezza: che fare, dove guardare, a chi rivolgersi per trovare un po’ di luce, un po’ di speranza umana e cristiana?
Per chi possiede un’indole meditativa e per chi ha già fatto un po’ di strada sul cammino spirituale, abituandosi a sgombrare la propria vita dal superfluo e a puntare all’essenziale, questa situazione, benché del tutto inedita, è più che sopportabile: in fondo, se non scaturisse da una volontà coercitiva esterna, oltre tutto, per usare un eufemismo, mossa da ragioni assai poco limpide, il che rende simili a una beffa i sacrifici e le rinunce imposti ai cittadini, nonché il gravissimo e ingiustificato danno recato loro sul piano economico, tutto quel che sta accadendo sarebbe una preziosa occasione per liberarsi da ciò che non serve e riscoprire ciò che conta realmente. La stragrande maggioranza delle persone, però, non erano preparata; il loro stile di vita non contemplava simili restrizioni e così drastiche rinunce; in particolare, la stragrande maggioranza della popolazione ha bisogno della socialità concreta, ha bisogno di vedere le persone amiche, di vederle fisicamente e non attraverso lo schermo di un computer, ha bisogno della partita a carte con gli amici o del bicchiere di vino bevuto al bar, o del confronto con gli altri sulle notizie del telegiornale, o del piacere di vedere un po’ di verde e di respirare un po’ di primavera; per loro frasi caramellose come quelle che ci vengono rifilate di continuo dai mass-media, distanti ma uniti, anche se ingentilite da sorrisi e ruffianerie d’ogni genere, semplicemente non hanno senso. E chi, per professione o per vocazione, scrive e si rivolge agli altri sul piano delle idee, e percepisce la sofferenza ampiamente diffusa, la frustrazione, la depressione che incombe sulla stragrande maggioranza delle persone, sente in maniera ancor più forte del solito la responsabilità delle parole da dire, delle idee da trasmettere, dei pensieri da consegnare alla riflessione degli altri. Da un lato c’è il dovere morale di non uniformarsi al conformismo dilagante, di contribuire a gettare un seme per risvegliare le coscienze assopite, e perciò di analizzare i fatti in maniera lucida e obiettiva e di non edulcorare le cose, di non minimizzare i rischi e i danni della situazione innaturale che stiamo vivendo, e che ci è stata imposta da poteri oscuri, per ragioni tutt’altro che nobili; dall’altro c’è il dovere, non meno essenziale, di non deprimere ulteriormente gli animi, di non contribuire all’angoscia e alla depressione generalizzate, di non usare il proprio mezzo di comunicazione per spingere la gente ancor più giù lungo la china di una fatale perdita di speranza. Non è facile conciliare le due cose; pure è necessario. Chi ha scelto di comunicare le idee per dare un contributo al bene morale della società, deve trovare il modo di unire lo stimolo a sviluppare la consapevolezza delle persone, alla capacità di mostrare loro degli obiettivi possibili, delle mete ragionevoli, in un quadro complessivo che lasci socchiusa la porta alla fiducia nel domani e alla vittoria finale della luce sulle forze tenebrose che vorrebbero soggiogarci spiritualmente e moralmente ancor prima che materialmente, e che a ciò si stanno adoperando, non da ieri ma da parecchi anni, con tutta la potenza dei mezzi illimitati dei quali dispongono.
Trovandoci per l’appunto in questa situazione e non per obbligo ma per scelta, quindi con tanta maggiore responsabilità morale, abbiamo riflettuto a lungo sul modo di trovare l’equilibrio fra le due istanze, quella di contribuire a ridestare le coscienze e le intelligenze e quella di non deprimere quelli che ci seguono, pur senza ingannarli sulla effettiva gravità del male che ci sta minacciando, e che non si trova solo all’esterno, ma che agisce anche da dentro di noi, stuzzicando i nostri istinti più vili e mobilitando le nostre energie più negative, quelle che trovano alimento nell’invidia, nella gelosia, nella superbia, nell’avidità, nella lussuria. E ci è sembrato che una delle strategie possibili, tenuto conto che molte persone, come abbiamo già detto, non sono portate alla filosofia, né alla vita contemplativa, e quindi hanno bisogno di un farmaco leggero, che le aiuti a ristabilire la propria salute spirituale ed emozionale, ma che sia anche proporzionato alla loro capacità di assumerlo e metabolizzarlo, è quella di puntare sulla riscoperta delle cose semplici e belle, delle cose minime, ma pure e luminose, che rendono la vita amabile e degna di essere vissuta; in modo da far capire a chi ci segue che anche senza fare viaggi, o passare i pomeriggi nello shopping, o senza tante altre abitudini che, pur non essendo in sé cattive, nondimeno sono frivole, vuote, e non aiutano in nulla a raggiungere il proprio equilibrio interiore, si può vedere e apprezzare il lato positivo della vita d’ogni giorno, conquistando così una maggiore autonomia verso le cose esterne col fare, per così dire, scorta di pensieri ed emozioni positivi, come la provvida formichina fa la scorta di cibo per l’inverno che verrà. A questo proposito ci è capitato fra le mani lo scritto di un giornalista semplice ma a suo modo poetico, che nessuno conosce al di fuori della sua città e che anche nella sua città è stato da molti dimenticato, o mai conosciuto dalle nuove generazioni: Renzo Valente (1916-2002), nato per caso a Genova ma vissuto sempre nella sua amata Udine, senza mai allontanarsene, perché in essa aveva trovato tutto il mondo spirituale e affettivo del quale aveva bisogno per vivere, pago delle cose umili e quotidiane e capace di riconoscere la bellezza, senza enfasi e senza retorica, nelle situazioni più ordinarie, mostrandola ai suoi lettori. Di Renzo Valente abbiamo già parlato in due precedenti occasioni (vedi gli articoli: Una pagina al giorno: Addio alla vecchia osteria, di Renzo Valente e L’amore più grande, pubblicati sul sito dell’Accademia Nuova Italia rispettivamente il 12/10/17 e il 23/07/19). Eppure, più torniamo a sfogliare i suoi raccontini, più ci accade di scoprire ed apprezzare, quasi nascosti fra le pieghe di un discorrere volutamente minimalista, delle autentiche perle di poesia, anche se la critica ufficiale non si è mai accorta di lui, né in vita né in morte (ma se n’erano accorti, invece, i lettori del Messaggero Veneto, che gli volevano bene perché si erano affezionati alla sua schiettezza e alla sua semplicità, nelle quali così bene si rispecchia l’anima friulana).
Ed ecco la pagina che ci ha colpito, nel racconto Un casto pomeriggio (da: Renzo Valente, Udine 16 millimetri, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1987, pp. 336-338):
Quando mi dissero: – Vieni a vede l’uva di Prepotto! — pensai che mi volessero fare uno di quegli scherzi che tutti ti aspettano al varco e poi dicono: – Ma xhe uva volevi che avesse avuto Prepotto che non fosse stata su per giù uguale a quella di altri posti del Friuli? — Io ricordo altre stupidaggini del genere. Dicono, per esempio: – Ieri sera ho mangiato un uovo grande come una casa. – Magari non ci pensi, e fai: – Ah, sì? — E subito si mettono a ridere perché le uova sono tutte della stessa misura.
Eppure quella dell’uva di Prepotto era vera. Vi arrivai una volta con una "millecento musona", in quattro, sul mezzogiorno. Eravamo io, il povero Augusto Serafini, Max Piccini e Galliano, quello del Fornaretto. Ma non a Prepotto-Prepotto. Si era, invece, fra Prepotto e Albana, in mezzo ai campi, che da lontano si vedeva soltanto una casa di contadini, e, più su, ci si immaginava i soldati di Tito nascosti nei boschi a guardare il confine. Venuti fuori dall’automobile e riusciti a salire sopra una mezza collinetta, che per arrampicarci dalla strada ci pasticciammo le mani di terra e di erba tutta bagnata, un mare azzurro di viti, una dietro l’altra, a perdita d’occhio, ci circondò subito come veramente un’isola è in mezzo al mare. Di tanto in tanto campi stretti e lunghi di granoturco correvano di fianco ai vigneti insieme alle acacie e ai sambuchi neo fossi, e pochi, qua e là, su qualche prato falciato di fresco, cumuletti di fieno ad asciugare, che pareva, tutto questo, come un armistizio nel pieno di una interminabile guerra. Il resto (soltanto di quando in quando piccoli campi di medica e, assai più rari, altri di patate), tutto tutto uva e quasi tutta nera. Grappoli magnifici, grandi, esplodenti, e qualche grano di essi che brillava con la forza di una lampadina elettrica magari solo lui fra tutti gli altri opachi, i gambetti velati da impalpabili ragnatele di seta, come un fumo, ancora un po’ verdastri o bruniti dall’ardente cuocervi del sole. Ma bastava toccarli come facemmo noi, qua e là passando, per vedere tutti i grani risplendere, come si vede venir fuori d’un colpo la luce da un cristallo su cui un dito passa per provare la polvere di una casa rimasta chiusa tanto tempo. Allora non è un acino solo che brilla, ma è tutto insieme il grappolo, splendente, caldo, morbido, sano, una bocca di ragazza pulita, profumata di non so che cosa, di terra, di pioggia, di fiori, di vino, di cannella e di miele, prepotente, vivo, amoroso, caro. Direi umano.
Io guardavo tutti quei grappoli che si vedevamo fra le foglie azzurre, ora voltate di qua, ora oblique o rovesce, in toni ognuna per conto suo diversa dalle altre, a lampi di luce più chiari o più scuri, o, addirittura, bianchi, a seconda del muoversi di chi le guarda; guardavo i grappoli che si vedevano e pensavo a quelli che io non vedevo ma che si vedevano dall’altra parte. Quanti ce n’erano, dunque? Mille, diecimila in questo vigneto che avrà avuto cento, cinquecento filari. E nell’altro di là? Altri mille o altri diecimila? E nell’altro? E tutti insieme? Venimmo giù sulla strada con le scarpe piene di terra, ed avevamo sotto, tutti e quattro, come una grossa suola di sughero, di quelle delle scarpe ortopediche che usavamo una volta. Si scherzava camminando un piede sì e un piede no, a gondola, su quel pezzo di strada che dovevamo fare per arrivare all’automobile e ognuno di noi mangiava uva. Io pensavo, allora, che alla nostra età deve essere stato un bel vere quattro uomini camminare da zoppi e mangiare uva. Pensavo allora. Ma io credo, ora, che una specie di ebbrezza in quel momento ci doveva aver preso.
Il vedere tutto quel verde, i grani dell’uva a migliaia, il sentire il loro odore, l’inghiottire i grani tre quattro cinque per volta, la bocca piena, le labbra bagnate di succo dopo che avevamo stretto fra di loro l’acino intatto e lasciata cadere a terra la scorza lacerata, nera di fuori e rossa di dentro, la polpa sulla lingua come carne e il seme sotto i denti, il cielo azzurrissimo, il caldo, la terra sotto le scarpe, il suo odore con l’odore dei sambuchi, amaro e umido questo addirittura acre quello, il rumore degli insetti come officine nell’erba, il silenzio del mezzogiorno, quel grande silenzio che era un poco jugoslavo e un poco italiano, tutto questo insieme fu senz’altro un’esaltazione.
Ecco. In questo brano di prosa semplice, minimale, l’autore ha saputo cogliere non solo e non tanto una situazione, la scampagnata con gli amici per mangiare l’uva dei colli, ma soprattutto uno stato d’animo, anzi una tonalità dell’anima. Perché quei filari di vigneti che si susseguono uno dopo l’altro, infiniti, sino all’orizzonte, e in quel cielo di un azzurro insuperabile, e in quel piacere di sporcarsi le mani e le scarpe di terra, e la bocca di succo d’uva, come bambini golosi, c’è, appunto, la riscoperta di una dimensione esistenziale che la vita ordinaria, fatta di lavoro e abitudini precise, aveva eclissato, ma che ora riemerge con prepotenza: una dimensione assai simile a quella dell’infanzia. Il bambino, infatti, scopre e conosce il mondo con tutto se stesso, con i sensi, la vista, l’olfatto, l’udito, e l’immaginazione, che in lui è fortissima e che gli consente di trasformare quasi qualsiasi cosa in un tappeto magico, capace di trasportarlo nei luoghi più remoti e misteriosi e immergerlo nelle avventure più strane e affascinanti. E così in quell’immergersi nei vigneti, in quel riempirsi la bocca di acini d’uva, in quel dimenticare ogni altra cosa e riempirsi gli occhi il naso l’anima di colori, di profumi, di emozioni, il tutto alla modica spesa di una gita in campagna qualche chilometro fuori porta, vi è quasi una sintesi, un concentrato delle cose che rendono la vita bella e amabile. Vi è la natura, una natura serena, generosissima, seducente; vi è la socialità, perché ingozzarsi d’uva soli soletti non è la stessa cosa, non dà lo stesso piacere che farlo insieme ad alcuni fra i più cari amici; e vi è l’oblio del tempo, delle cose di sempre, del tran-tran della vita ordinaria, e la riscoperta di un mondo nuovo, fresco, bello, perché visto con l’incanto e lo stupore col quale lo guardano i soli che hanno il privilegio di farlo per la prima volta, quando esso è ancora carico di tutte le promesse e di tutte le magie: i bambini. Altri scrittori, più o meno famosi, hanno trattato gli stessi temi: quello della convivialità intorno a una buona tavola imbandita (cfr. Una pagina al giorno: «Cena a Talmassons», di Rino Domenicali, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 08/12/08 e su quello dell’Accademia Nuova Italia il 10/1017), o quello della scampagnata di un gruppo di amici per rimpinzarsi di frutta fresca, con sensualità quasi primitiva (Una pagina al giorno: il rosso delle ciliegie di Giovanni Comisso, rispettivamente il 25/03/08 e il 13/03/18). Anche Valente si mostra sensibile a quest’ultimo aspetto; si rilegga la frase:
Allora non è un acino solo che brilla, ma è tutto insieme il grappolo, splendente, caldo, morbido, sano, una bocca di ragazza pulita, profumata di non so che cosa, di terra, di pioggia, di fiori, di vino, di cannella e di miele, prepotente, vivo, amoroso, caro. Direi umano.
E ci sono delle reminiscenze leopardiane, in particolare da L’infinito, col mistero di ciò che non si vede ma si può solo immaginare, essendo al di là dell’orizzonte:
guardavo i grappoli che si vedevano e pensavo a quelli che io non vedevo ma che si vedevano dall’altra parte. Quanti ce n’erano, dunque? Mille, diecimila in questo vigneto che avrà avuto cento, cinquecento filari. E nell’altro di là? Altri mille o altri diecimila? E nell’altro? E tutti insieme?
Ma c’è anche l’estasi panica, l’oblio di tutto il resto e la sola coscienza dell’attimo presente, delle sensazioni immediat; come quando, stesi sull’erba, si guardano le nuvole galoppare alte nel cielo:
Il vedere tutto quel verde, i grani dell’uva a migliaia, il sentire il loro odore, l’inghiottire i grani tre quattro cinque per volta, la bocca piena, le labbra bagnate di succo dopo che avevamo stretto fra di loro l’acino intatto e lasciata cadere a terra la scorza lacerata, nera di fuori e rossa di dentro, la polpa sulla lingua come carne e il seme sotto i denti, il cielo azzurrissimo, il caldo, la terra sotto le scarpe, il suo odore con l’odore dei sambuchi, amaro e umido questo addirittura acre quello, il rumore degli insetti come officine nell’erba, il silenzio del mezzogiorno, quel grande silenzio che era un poco jugoslavo e un poco italiano, tutto questo insieme fu senz’altro un’esaltazione.
Se poesia è dire molto con poco, questa è poesia: e Valente ci mostra con essa il lato bello della vita.
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