Razze, popoli, culture: si torni a parlarne senza tabù
12 Luglio 2020Ora si vede chi ha la una coscienza, e chi no
13 Luglio 2020Siamo pressoché certi che novantanove lettori su cento, a tenerci larghi, non hanno mai sentito neppure nominare Aurelio Garobbio. Infatti: perché dovrebbero? Non ne parla mai nessuno; non viene menzionato nelle enciclopedie, neanche nei testi specialistici: eppure è stato un grande giornalista, un grande scrittore, un grande studioso di antropologia, un grande studioso del folklore delle nostre Alpi. E oltre a tutte queste cose è stato anche un fervente irredentista, così innamorato dell’Italia da rinunciare alla cittadinanza svizzera — era nato a Mendrisio, nel Canton Ticino, l’11 novembre 1905, per acquisire quella italiana, e così fiducioso di vedere un giorno la sua terra natale restituita alla sua madrepatria naturale, cui lontane vicende storiche l’avevano sottratta, da andare in carcere a Bellinzona e affrontare l’imputazione di alto tradimento, anche se poi il processo non ebbe luogo per l’interessamento del ministro degli Esteri italiano, Galeazzo Ciano, e il conseguente espatrio in Italia, a Milano, ove fissò la sua residenza in attesa di vedere riscattato dal governo fascista il suo amato Canton Ticino. Tale speranza, com’è noto, non ebbe la possibilità di realizzarsi e tanto meno ne ebbe la divisione della Svizzera fra Germania e Italia, come da lui auspicato, seguendo la linea dello spartiacque alpino, poiché sia la Germania che l’Italia, in maniera diversa, uscirono sconfitte e umiliate dalla Seconda guerra mondiale, e di un irredentismo svizzero nessuno udì mai più parlare. Così come nessuno udì parlare di quello maltese, che pure aveva avuto il suo momento magico e anche il suo eroe illustre, benché del tutto ignorato in Italia (cfr. il nostro articolo Ricordare Carmelo Borg Pisani, patriota maltese impiccato dalla democratica Inghilterra, pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 24/07/12, e ripubblicato sul sito dell’Accademia Nuova Italia il 12/12/17). Al contrario, furono i 350.000 italiani della Venezia Giulia a doversene andare, con la cessione delle loro terre alla Jugoslavia comunista del maresciallo Tito; a dire il vero avrebbero anche potuto rimanere, ma fu una loro scelta quella di voler conservare la loro italianità; e sappiamo come furono accolti in patria, in una maniera che farebbe arrossire i professionisti odierni dell’accoglienza, sempre pronti a farsi in quattro per convincere tutti che è cosa buona e giusta lasciar entrare in Italia centinaia di migliaia, anzi milioni di africani, dei quali nessuno sente il bisogno, né economico, né sociale, garantendoli di tutti i privilegi sin dal loro arrivo illegale, compreso quello di fare ricorso in tribunale, beninteso sempre a spese nostre, qualora la richiesta di asilo per ragioni umanitarie venga rifiutata. E sempre come risultato della guerra, fu già tanto se l’Italia poté conservare la Valle d’Aosta, che l’avidità ultranazionalista di De Gaulle avrebbe voluto recare quale bottino alla Francia "vincitrice", come avvenne per i paesi di Briga e Tenda; e se del pari riuscì a conservare l’Alto Adige, impegnandosi però con l’Austria ad accordare tali e tanti privilegi ai residenti di lingua tedesca – poi sempre più allargati nel corso del tempo, quasi in premio al terrorismo sudtirolese che insanguinò a lungo la regione – che attualmente sono gli italiani a trovarsi colà praticamente discriminati in casa propria, come se fossero loro la minoranza sopportata per pura benevolenza (si legga, in proposito, un classico d’inchiesta del romanziere Sebastiano Vassalli, pubblicato nell’ormai lontano 1985 dalla Einaudi di Torino: Sangue e suolo. Viaggio fra gli italiani trasparenti).
In un simile quadro generale, si può comprendere come e perché il nome di Aurelio Garobbio non sia stato fatto conoscere alle nuove generazioni italiane. A che scopo diffondere la testimonianza di uno che ha tanto amato l’Italia da sacrificare ad essa le cose più care, compreso il paese natio e la possibilità di ritornarvi, quando l’Italia post 1945 amava talmente poco se stessa da accogliere a sputi e insulti i profughi giuliani, e disinteressarsi totalmente della sorte delle migliaia di suoi cittadini che erano andarti in Libia, in Eritrea, in Somalia e in Etiopia, per costruire un futuro a se stessi e ai loro figli, portando opere di civiltà morale e materiale in regioni selvagge e desolate? Senza contare il non trascurabile dettaglio che Garobbio aveva creduto nel fascismo; si era iscritto fin dal 1934 al P.N.F e aveva frequentato assiduamente, di persona, lo stesso Mussolini; aveva ricoperto incarichi di notevole importanza nel giornalismo del regime; aveva collaborato col Ministero della Cultura Popolare di Alessandro Pavolini (di nefanda memoria) per far conoscere la causa irredentista ticinese e predisporre gli animi a un’eventuale spartizione italo-tedesca della Confederazione elvetica; e infine aveva aderito nel 1943 alla Repubblica Sociale, mentre avrebbe potuto restarsene buono e tranquillo in disparte, visto che la causa del fascismo era già persa, e cercar di farsi dimenticare onde scivolare inosservato allorché fosse giunta l’ora della resa dei conti, che già chiaramente si stava avvicinando.
Non è tuttavia del Garobbio irredentista che vorremmo qui principalmente parlare, bensì del Garobbio studioso, del quale nulla si saprebbe se ci si limitasse a quel che dicono, con somma avarizia, i principali canali d’informnazione mainstream. La smilza voce italiana di Wikipedia a lui dedicata, ad esempio, ricorda alcuni articoli e scritti minori, ma tace completamente sulla sua opera capitale di geografo e di antropologo: la grandiosa Alpi e Prealpi. Mito e realtà, in ben sei volumi magnificamente illustrati, nella quale dispiega tutto il suo amore per i monti e le loro popolazioni, tutto il suo estro di scrittore chiaro e preciso, la sua vena poetica, il suo profondo interesse umano. Ma soprattutto originale è il suo approccio alle leggende, alle credenze, alle tradizioni, agli usi e costumi degli abitanti delle vallate alpine, che egli mostra di conoscere una per una, non dai libri ma dalla propria esperienza diretta: originale perché credenze, tradizioni e miti non sono da lui trattati alla stregua di curiose superstizioni, ma sono avvicinati con quel sacro rispetto, con quella capacità di attenzione, con quell’amore, unito al profondo rigore di scienziato, che allora erano del tutto sconosciuti agli studiosi accademici e che trova il solo degno equivalente nell’opera di Ernesto De Martino Il mondo magico, scritto durante la Seconda guerra mondiale ma pubblicato solo nel 1948). Anche De Martino, del resto, aveva mosso i primi passi e condotto le prime ricerche aderendo pienamente al fascismo (era stato anche collabioratire e amico personale di Berto Ricci); solo in un secondo tempo si era avvicinato ai partiti di sinistra e ciò aveva predisposto i salotti buoni della cultura italiana ad accogliere favorevolmente le sue opere, mentre per Garobbio, rimasto fedele a se stesso e mai vergognoso del proprio passato, le cose andarono ben diversamente. Ciò che volgiamo dire è che se Garobbio avesse fatto come tanti altri, da Malaparte a De Martino, solo per citarne un paio, quasi certamente il suo nome sarebbe oggi ben conosciuto non solo entro una ristretta cerchia di specialisti, ma anche al grande pubblico; e la sua opera sui miti e le leggende alpine resterebbe come un pilastro nel panorama degli studi antropologici nostrano, mentre, di fatto, essa è pressoché sconosciuta. Egli univa in sé due anime complementari, quella dello studioso puntuale, quasi pignolo, insomma "tecnico", e quella dell’artista, del poeta, di colui che a cogliere l’anima dei luoghi e e dei loro abitanti, e li sapeva fondere in una sintesi quasi perfetta, tanto che leggendo il suo capolavoro ci si chiede di continuo come egli abbia saputo pervenire a risultato di tale eccellenza, nei quali si coglie sia il rigore del naturalista, sia la freschezza del pittore, di paesaggi e di tipi umani. Ciò produce un effetto di tale completezza e di tale ricchezza da lasciare pienamente appagato e soddisfatto anche il lettore più esigente: è un autentico delitto che un testo così ricco e affascinante, e oltretutto (cosa non scontata) così ben scritto, non abbia goduto di una più ampia circolazione e non sia stato sponsorizzato da una grossa casa editrice, invece che una piccolissima, che lo avrebbe fatto conoscere, e quasi certamente lo avrebbe saputo imporre all’attenzione di tutti, specialisti e semplici appassionati, tanto evidenti sono i suoi meriti, qualsiasi cosa si voglia pensare circa le idee politiche del suo autore.
Affinché il nostro lettore possa farsi un’idea dello stile di Garobbio, ci piace riportare la pagina introduttiva all’ultimo volume della sua opera maggiore, dedicato al settore più orientale dell’arco alpino, dalle Carniche alle Giulie, nella quale, attraverso la descrizione delle sorgenti del fiume Livenza, si possono cogliere gli elementi di vivacità, freschezza e immediatezza, tipici della sua scrittura.
Così Aurelio Garobbio nel quinto volume della sua opera Alpi e Prealpi. Mito e realtà, dedicato al Friuli Venezia Giulia (Bologna, Edizioni Alfa, 1980, pp. 7-89:
Il Gorgazzo a Polcenigo scaturisce già adulto dalla bassa caverna ai piedi della parete, si raccoglie in chiaro specchio, rapido s’avvia alla Livenza. Chissà da quali laghi sotterranei proviene tant’acqua, ed attraverso quanti risonanti antri è precipitata dalle alture del Cansiglio; vano è pretendere di penetrare il mistero delle origini. La grotta profonda ha l’aspetto d’una ferita nella roccia a picco che alberi ed arbusti coronano; nelle crepe al muschio s’alterna il capelvenere. L’asperità plumbea del sasso riflessa nella fluente superficie attenua le gradazioni più intense, meno intense, secondo l’alternarsi delle nubi d’aprile davanti al sole; il verde elle fronde dona tonalità glauche. Nei mille suoni indistinti e frammisti, ascolto il respiro della terra. Tutto diventa irreale, come quando sta per accadere un prodigio. Lunghe alghe d’un verde chiaro ondeggiano ritmiche nella pura trasparenza della corrente, quasi la sciolta chioma d’una ragazza che lentamente cammini.
Non senza sforzo mi sottraggo al dolce incanto e m’avvio, unico viandante, lungo la strada che costeggia i primi pendii. Un campo limitato da filari di vite ha ancora i gambi secchi del granoturco; non li hanno raccolti, non c’è più bisogno di essi per strame. Ora talvolta li legano in sostituzione degli sterpi al palo snello per il fuoco del "pan e vin", l’antico rito propiziatorio che si celebra la vigilia dell’Epifania. Un uomo robusto sta spargendo letame con la forca. — Non lo fate più il "pan e vin"? — chiedo accennando ai gambi schierati in file dritte. — Certo che lo facciamo ancora — risponde e dopo una breve pausa, rifacendosi al mio accento forestiero: – Che ne sapete del "pan e vin"?-. Potrei rispondergli con Mefistofele: «conosco parecchi posti e parecchi tesori da tempo sepolti, bisogna che riveda un po’ le cose». Svio invece il discorso: – Manca molto alla Santissima?
Seguo la stradina che mi ha consigliato; sotto rovi, noccioli, sanguigne, il terreno è invaso dalle pervinche in fiore: "viole di madràc" chiamano nel Friuli la pianta erbacea che non attende la primavera per sbocciare, ed anche "viole di diàul", "di bò", "di mus", e con altri nomi ancora, secondo le caratteristiche dei dialetti e quelli friulani sono fra i più conservativi d’Italia. Forse più antica delle denominazioni è la conoscenza di quanto calmino il dolore le foglie della pervinca applicate su ferite, e dei poteri curativi del decotto con esse ottenuto.
La chiesona della Santissima preceduta da un portico a apriate scoperte, tanto ampio da ospitare un’intera processione, ed è seguita da case d’abitazione che ad essa si congiungono e s’allineano e sopra le quali si profila un campanile a vela a doppia cella. Salgo i gradini d’accesso, attraverso il porticato: le pietre rettangolari del pavimento disposte in file regolari alterne, per il lungo e per il largo, formano un tappeto geometrico che piace. Poso la mano sulla maniglia: la porta non si apre. Nello stemma che la sovrasta riconosco lo stemma incrociato d’un ordine monastico. Mi volto: di là della strada, e sembra incorniciata dal grande arco, sulla placida chiarezza della Livenza che luccica al sole, nereggia una passerella di legno: serviva ai pellegrini? È consunta, non sorreggerebbe il peso di chi osasse cimentarsi tra scalini e supporti mancanti. Mi perdo nell’inutile interrogativi e non contemplo il placido fluire della corrente; indugio su intarsi e su volute delle massicce mensole lignee che la capriata sostengono, invece d’ammirare con quanta sapienza il peso del tetto venga scaricato da quell’armatura perfetta, nella quale nulla c’è di superfluo come in uno scheletro. Sul piano di pietra dei muretti fiancheggianti l’ingresso, stanno graffite croci inserite in cerchi ed in quadrati; perché rievoco le incisioni rupestri, sapendo quanto artificioso sarebbe un collegamento? Il santuario, dice la leggenda, fu edificato per volontà dell’imperatore Teodosio. Che il luogo sia sacro da millenni, lo si respira nell’aria. Quale Trinità si adorava, prima di quella scolpita da Domenico da Tolmezzo? Il volo d’un fringuello interrompe i pensieri.
Un viottolo porta ad una cappelletta dalle colonne ioniche; dentro c’è la statua in gesso della Vergine, fuori le lastre di pietra d’un ponticello lasciano un vuoto perché si possa attingere l’acqua sorgiva. Fin che l’antico culto vive, la divinità della fonte vive. Spontaneo è per me rievocare il rito che da bambino mi hanno insegnato: mi chino, nelle mani unite a coppa raccolgo l’acqua vergine,, bagno gli occhi, la fronte. Lo scorrere del tempo non ha inciso sull’immanenza del rito.
Questa del tempietto è una delle molteplici fonti della Livenza che fianco a fianco sgorgano copiose dalla ripa e vanno ad unirsi rimbalzando nello specchio breve, per diventare fiume. L’aria è satura dello zampillare, del crosciare, del gorgogliare, del ciangottare, del mormoreggiare di quest’acqua che ha le sue lontane origini sul monte ancora incappucciato di mese. Il crescione grasso ondeggia cullandosi, le felci accennano ad ornar le ripe.
Seguo la Livenza tra i campi in attesa dell’aratro; scorre nitida e tranquilla tra la duplice fila di alberi gemmanti e quel tenero verzicare d’un leggero sanguigno si disegna nel cielo ingenuo della primavera ancora acerba. Poi gli alberi formeranno una galleria verde e fresca nella piena estate e l’acqua alle luci dello zaffiro accoppierà bagliori smeraldini.Disturbo alcuni fringuelli che si alzano in volo; scavalco una "candela", il fosso d’irrigazione costeggiato dai vinchi. C’è ancora chi intreccia cesti e canestri e cavagni d’ogni forma e dimensione e li vende per la sagra della Madonna, l’8 di settembre, sulla piazza di Polcenigo.
Qui la gerla è quasi sconosciuta; se ne servono quei di Mezzomonte, la frazione a metà dell’erta, il nome lo dice, ed usano le slitte per trasportare erba fieno legna giù per i pendii. Fra queste dolci colline di boschi frondosi, invece, quando non si adopera il carro i pesi si portano a spalla, nei cesti o nei secchi appesi in bilico allo "zampedòn", il bilanciere leggermente ricurvo, con le tacche ai due lati per trattenere i manici.
A noi che conosciamo molto bene quei luoghi belli e solitari, d’una bellezza strana e malinconica, avendoli frequentati sin dagli anni dell’infanzia, risulta chiaro come il Garobbio abbia saputo rappresentarli con la massima fedeltà e con scrupolo di naturalista, ma al tempo stesso con brio ed estro quasi pittorico, senza mai però venir meno al rigore dello studioso. Questo rarissimo equilibrio di scientificità e poesia, di ricchezza lessicale e precisione etnologica, fa di Alpi e Prealpi. Mito e realtà un’opera assolutamente unica, che va letta con calma e meditata a lungo, capace di lasciare un’impressione profonda e incancellabile nella mente e nel cuore del lettore. Lo ripetiamo: se Garobbio avesse fatto, negli anni della guerra, o anche subito dopo, il salto della quaglia, come tanti altri studiosi e scrittori provenienti dalla cultura fascista, ingraziandosi il P.S.I. o il P.C.I., o anche il P.L.I. ove allora imperava il verbo infallibile di Benedetto Croce (uno dei primi estimatori di Ernesto De Martino), ben altra sarebbe stata la sorte di quest’opera superba. Ma l’opera, senza dubbio, è inseparabile dal suo autore: e il suo autore, dopo il 1945, era e restava politicamente impresentabile, soprattutto perché non convertito, non pentito, non riciclato. Infatti egli scelse una dignitosa solitudine, un sereno isolamento, per non rinnegare gli ideali nei quali aveva creduto con tutta l’anima. Si spense in silenzio a Milano il 31 marzo 1992, esempio commovente e tutt’altro che frequente di dirittura morale, rigore e coerenza, in tempi di opportunismo, sciacallaggio e somma ipocrisia. E pensare che non era nemmeno nato in Italia, e che pur di diventare cittadino italiano si era bruciato i ponti alle spalle, separandosi dal suo amatissimo borgo natio!
Queste cose sono difficili da capire, per un ragazzo dei nostri giorni, e quindi sono anche difficili da spiegare. Come spiegare un amore così grande per la Patria, quando essa è divenuta una parola vuota, una parola priva di senso, o peggio, una parola brutta, che fa subito drizzare le antenne di tutti i progressisti e gli antifascisti di professione, come se nascondesse chissà quali orribili sottintesi, come se fosse un cavallo di Troia usato per far entrare legioni di fascisti clandestini nella cittadella della nostra magnifica democrazia, così generosamente tenuta a battesimo dai liberatori angloamericani? Certo è grottesco che esista ancora l’antifascismo come categoria intramontabile, perenne, metafisica, dello spirito; quasi un dogma irrinunciabile della religione civile legata alla Repubblica di Pulcinella, nata nel ’46 sulle ceneri d’una sconfitta ignominiosa, subita nonostante il magnifico spirito di sacrificio mostrato da centinaia di migliaia di combattenti e da milioni di cittadini, madri e padri di famiglia, bambini che la notte andavano a letto semivestiti per esser pronti a correre nei rifugi antiaerei, e il mattino seguitavano ad andare a scuola, affamati e infreddoliti, sotto le bombe del nemico; cioè, siamo desolati, volevamo dire: dei nostri amici e liberatori! Eppure, per quanto sia difficile, chi ha conosciuto quel mondo e quei valori, o ne ha ricevuto l’eredità dai propri genitori e dai propri nonni, oggi ha il preciso dove di parlarne ai giovani e provarsi a trasmetterne loro tutta la bellezza. Altrimenti, a educarli ci penserà solo la tv demenziale e la scuola sempre più asservita al potere. E allora sarà tardi per salvare le loro menti e le loro anime.
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