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Non seguita a venire notte, sempre più notte?

Sono passati centotrentotto anni da quando, nel 1882, vedeva la luce La gaia scienza (Die fröhliche Wissenschaft) di Friedrich Nietzsche, che segna il passaggio, insieme ad Aurora, dell’anno precedente, dalla fase iniziale, o positivista, del suo pensiero, a quella più matura, da cui sarebbe scaturito, fra il 1883 e il 1885, quello che è ritenuto in genere il suo capolavoro, Così parlò Zarathustra, o comunque la sua opera più significativa, molti temi della quale vengono qui in effetti anticipati. A un certo punto troviamo l’apologo dell’uomo folle che annuncia la morte di Dio. Poiché è facile lasciarsi fuorviare da una lettura banale e superficiale di quella pagina famosa, cogliendone solo gli aspetti più esteriori e per così dire spettacolari, è bene rileggerla con la massima attenzione, per tentare di coglierne tutta l’abissale profondità e tutta la sofferta drammaticità, e per misurare fino a che punto il pensatore tedesco sia stato antiveggente nel cogliere l’assoluta impreparazione degli uomini a trarre le conseguenze dell’azione da loro stessi compiuta, vale a dire l’assassinio di Dio. Vi sono delle azioni, osserva Nietzsche, le quali hanno bisogno di molto tempo per manifestarsi in tutta la loro forza dirompente; azioni la cui natura e la cui portata sfuggono a volte a quelli stessi che le compiono, rivelando così il fatto che si tratta di azioni sostanzialmente irriflesse, molto più grandi e più "pesanti", ossia più cariche di conseguenze, dei loro autori. Si nota talvolta nella storia, e anche nella vita dei singoli individui, questa strana sproporzione, questa paradossale asimmetria fra colui che agisce e l’azione che viene compiuta: è sempre accaduto e sempre accadrà. Un imbecille che provoca l’incendio di un’intera città solo perché è stato tanto stupido da gettare il mozzicone della sigaretta in un pagliaio; un altro sciagurato che, credendosi un eroe, e magari un martire, uccide un uomo importante, offrendo l’esca allo scoppio di una guerra che mieterà milioni e milioni di vite umane e che porterà immense distruzioni morali e materiali: ecco dei buoni esempi di ciò. E che dire se dalla sfera materiale ci si sposta in quella spirituale? Così come in una famiglia l’irresponsabilità di un solo individuo può provocare lutti e dolori a tutti gli altri, gettando pesantissimi riflessi anche sulle vite di quelli che sono appena bambini o che addirittura devono ancora nascere, ugualmente una legge malvagia, decisa da un re stupido o folle, avrà un impatto micidiale su milioni di sudditi, o un libro seducente ma pericoloso, scritto da un uomo interiormente squilibrato e carico di risentimenti, potrà esser foriero di disastrose conseguenze. È impossibile prevedere quanto si allargheranno i cerchi sulla superficie dell’acqua, quando qualcuno vi getta un sasso.

Nietzsche afferma che Dio è morto, perché gli uomini l’hanno ucciso; e che tale rivelazione viene fatta, sulla piazza del mercato, da un uomo folle, il quale in un primo momento viene deriso da tutti, specialmente da quelli — e sono la maggioranza – che, essendo atei, trovano che la domanda dell’uomo, su dove sia andato Dio, semplicemente assurda, oltreché divertente. Ma ben presto ammutoliscono, perché le successive parole dell’uomo acquistano una serietà crescente e quasi insostenibile. Prima di tutto egli rivela che Dio non se n’è andato, ma è morto; che non è morto di morte naturale, ma di morte violenta; e che ad ucciderlo sono stati proprio loro, quegli stessi uomini che non sembrano aver compreso minimamente la portata apocalittica dell’azione che hanno compiuto. Naturalmente non bisogna prendere alla lettera l’affermazione che Dio è morto; bisogna piuttosto intendere che è morta la credenza in Dio, dal momento che gli uomini l’hanno uccisa in se stessi. Le conseguenze dell’ateismo pratico, tuttavia, sono simili a quelle dell’ateismo teorico: negare Dio conduce agli stessi effetti che credere alla sua esistenza, e tuttavia rifiutarla. Con questa differenza, però: che nel secondo caso ci si assume la responsabilità del parricidio, del più inaudito parricidio della storia. Nietzsche sembra assai più sconvolto, e assai più consapevole delle tremende conseguenze della morte di Dio, di quanto ci si aspetterebbe da un ateo: la sua commozione, il suo senso di angoscia, fanno pensare semmai al dramma di un ex credente in conflitto con se stesso, che abbia l’anima lacerata, come si può vedere anche in alcune pagine famose dello Zaratahustra, cosa che a suo tempo abbiamo cercato di evidenziare. Sono pronti, gli uomini, a fare a meno di Dio, a vivere senza di Lui? Sanno che ora rischiano di precipitare nel nulla, perché Dio è come il sole per la terra, e la terra senza il sole sprofonda in una eterna notte, sempre più buia e sempre più fredda? Si rendono conto che la sola speranza che rimane loro, se non vogliono precipitare nel caos di una gelida notte senza fine, è di diventare essi stessi degli dèi, ovvero, nel linguaggio nietzschiano, dei super-uomini (meglio: degli oltre-uomini)? E che se non riusciranno in questo compito arduo, difficilissimo, rischiano di ricadere al di sotto di se stessi, in una condizione assai peggiore di quella precedente: non più sottomessi a un’autorità superiore, ma, in compenso, incapaci di padroneggiare i loro istinti più bassi, di dominare il loro egoismo distruttivo? L’uomo, per lui, è come una corda tesa fra due condizioni estreme: l’umanità superiore, liberata e pacificata, e l’umanità inferiore, regredita ad un livello animalesco.

Scrive Nietzsche nel terzo libro de La gaia scienza (aforisma 125; traduzione di Ferruccio Masini):

Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poiché proprio lì si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi. «Dove se n’è andato Dio?- gridò — ve lo voglio dire! SIAMO STATI NOI AD UCCIDERLO: VOI ED IO! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potemmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dette la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci muoviamo noi? Via da tutti i soli? Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatori, quali giochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa? Non ci fu mai un’azione più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto — proseguì — non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: EPPURE SON LORO CHE L’HANNO COMPIUTA!». Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo "Requiem aeternam Deo". Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?».

Come si vede, l’uomo folle – che rappresenta lo stesso Nietzsche, non ancora del tutto pacificato con se stesso e chiarificato a se stesso, e quindi non ancora trasfigurato nel mitico Zarathustra – davanti al silenzio sbigottito degli uomini si rende conto che essi non hanno la minima idea dell’enormità del loro atto, e anzi che la notizia di esso non è neppure giunta ai loro orecchi; pertanto comprende di esser giunto troppo presto ad annunciare la morte di Dio e che il suo tempo non è ancora arrivato. Poi, però, contraddittoriamente, entra nelle chiese a recitare il Requiem per il Dio che è morto, affermando che esse sono ormai solo il suo sepolcro. Straordinaria preveggenza di questo filosofo che ha tanto combattuto il cristianesimo, forse perché in fondo al suo cuore l’amava troppo. Non ha forse saputo cogliere, con larghissimo anticipo, una dinamica che si è poi manifestata entro la Chiesa stessa, ma che allora pareva follia anche solo immaginare? Ciò a cui stiamo assistendo, infatti, particolarmente nell’ultimo mezzo secolo, e cioè dal Concilio Vaticano II, è lo spettacolo di una fede in Dio che si è progressivamente contratta, rattrappita, isterilita non solo nella società laica, ma proprio nella Chiesa, da parte di quei teologi e di quel clero che l’avevano tramandata nel mondo in mezzo a mille tempeste, resistendo a mille persecuzioni. A un certo punto è stato proprio il clero a consumare il supremo delitto, dichiarando perfidamente di volersi "aggiornare", di voler "dialogare col modo", di voler gettare ponti e abbattere muri, di voler abbracciare tutti gli uomini in una grande fratellanza (massonica) senza più distinzioni fra le varie fedi (relativismo), e addirittura manifestando disprezzo e fastidio per tutto ciò che caratterizza la loro fede, a cominciare dalla Croce (abolita già dall’esterno di alcune chiese costruite subito dopo il Concilio, e fatta sparire dall’abito dei sacerdoti), al Rosario (si veda con quanta cialtroneria il signor Bergoglio getta in aria la coroncina e la riprende al volo, o addirittura se l’appenda sul lobo dell’orecchio, come fosse un giocattolo da due soldi), alla regalità di Maria, Corredentrice degli uomini (in nome dell’ecumenismo, cioè per venire incontro ai protestanti che non ne vogliono sentir parlare), fino alla Presenza Reale di Gesù Cristo nella santa Eucarestia, ridotta a un simbolo e svilita in cento maniere. L’ultima e la più offensiva delle quali è la pratica di distribuirla sulle mani, obbligatoriamente, da pare di un sacerdote che prima si è disinfettato le sue davanti a tutti, platealmente, o che indossa guanti e mascherina: come se il Corpo di Cristo potesse trasmettere il contagio e portare ai suoi fedeli non la Vita, ma la morte; come se Egli fosse un pericolo per la salute e per la sopravvivenza degli uomini, mostrando chiaramente che il nuovo e vero dio di codesto clero pavido, ignobile, infingardo e menzognero è la scienza medica, che pure ha mostrato e sta mostrando tutta la sua fallacia, la sua superbia e la sua inadeguatezza, proprio sul suo stesso terreno. E pare che a nessuno di questi vescovi senza fede, senza onestà, senza dignità e senza onore sfiori la mente il pensiero che molti fedeli sono rattristati, amareggiati, disgustati da un simile atteggiamento; che non sanno che farsene di un simile clero; che preferiscono privarsi della Messa, e privarsi del Santissimo Sacramento, piuttosto che accettare una simile umiliazione, una simile abiezione, una simile profanazione. Oppure lo sanno perfettamente, nel qual caso bisogna concludere che ciò è precisamente quanto essi vogliono? Che il loro tristo lavoro consisteva proprio in ciò: nel disgustare, ferire e allontanare i fedeli dalla santa Messa e dal Santissimo Sacramento? Che questo era ciò a cui tendevano fin dall’inizio, fin da quando proclamavano il falso ecumenismo e il falso dialogo interreligioso, e si rifiutavano di condannare l’errore, di scomunicare egli eretici sempre più numerosi e sempre più malvagiamente protesi a confondere le anime e sovvertire la dottrina? E che a questo scopo hanno aperto la porta alla massoneria fin dentro il cuore della Chiesa, hanno emarginato e neutralizzato i buoni sacerdoti, messo in ombra gli ultimi veri teologi cattolici, e agevolato in ogni modo la carriera di personaggi loschi, politicizzati, senza fede, senza carità, senza amore per la Chiesa, senza onesta sollecitudine per le pecorelle, ma tutti impegnati a glorificare se stessi, a cogliere il plauso del mondo, a farsi belli davanti ad esso, astenendosi dal condannare il peccato e spalleggiando iniziative orripilanti della società civile, avallando leggi moralmente infami, promuovendo tendenze e movimenti volti a celebrare il vizio e a mortificare la virtù e la morale cattolica?

Cosa direbbe il buon vecchio Nietzsche, vedendo un papa eretico e bestemmiatore, un clero buffonesco e narcisista, e assistendo addirittura a delle sedicenti Messe dell’Orgoglio gay, celebrate da sacerdoti che si vantano della propria omosessualità, o che l’approvano e la glorificano negli altri, e spingono la loro blasfemia sino a dire che Gesù era omosessuale, lesbico, transessuale, queer, e chi più sa bestemmiare, bestemmi insieme a loro, fino a chi gli si secchi la lingua nel palato? Sappiamo di dire una cosa che a molti sembrerà strana, tuttavia siamo certi che Nietzsche non si sarebbe affatto rallegrato di fronte a un simile spettacolo. Il marchese De Sade, che era un autentico depravato, lui sì, senza dubbio, avrebbe gioito ed esultato e si sarebbe unito, frenetico e sfrontato, ai peggiori eccessi di questo falso clero traditore, con le cattedrali storiche della cristianità imprestate ai peggiori nemici di Cristo, per tenervi spettacoli musicali e scenografici ripugnanti e sacrileghi. Lui sì che avrebbe gioito ed esultato vedendo gli idoli pagani portati a spalla dentro la chiesa più sacra di tutte, da parte degli stessi vescovi, attorniati da "fedeli" acconciati e pitturati come dei selvaggi pagani, e con frati e suore pronti a gettarsi bocconi davanti ad essi, adorandoli col sedere all’aria, con un trasporto, con un entusiasmo, con una devozione quali mai hanno mostrato davanti al Crocifisso e alla divina Madre di Gesù. Ma Nietzsche, no. Sarebbe rimasto impietrito e poi sarebbe uscito pensoso e in silenzio, meditando tristemente sulle sue stesse parole: Voi l’avete ucciso, voi ed io; ma non ve ne rendete conto, e non siete nemmeno capaci di udirne la notizia; e ci scherzate sopra come se fosse un gioco da ragazzi. E avrebbe capito, avrebbe misurato senza ombra di errore tutto il fallimento del suo sogno grandioso di un’umanità rinnovata, resa più forte e più audace dalla grandezza del compito che si è posta: oltrepassare se stessa. Avrebbe visto e misurato la statura di questi uomini, di questi vescovi, di questo falso papa, e si sarebbe reso conto che da simili nani, da simili buffoni ciarlieri e disonesti, divorati dalla lussuria e dall’ambizione, non potrà mai nascere alcunché; e che gli uomini, seguendo delle guide così mediocri, così ciarlatanesche, non possono che scendere in basso, sempre più in basso, verso la piena e totale abiezione, nel buio e nel freddo di una notte sena fine.

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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